“Bill Gates, nel 2006, dichiarò che questa era l’alba dell’era robotica e che dopo vent’anni ci sarebbe stato un robot in ogni casa, e io penso che potremmo arrivarci proprio intorno a quella data”. E se a dirlo è Bruno Siciliano, Ordinario di Controlli e Robotica all’Università degli Studi di Napoli Federico II, una delle voci più autorevoli in questo comparto, c’è da crederci.
In una lunga intervista a Innovation Post il professor Siciliano racconta, tra le altre cose, come quella della robotica potrebbe diventare una sorta di rivoluzione silenziosa un passaggio, quasi inconsapevole, che porterà l’automazione in ogni casa.
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Un ibrido tra umanoide e aspirapolvere, ecco il futuro dei robot
“Entro il 2025, al massimo il 2030 – spiega – il robot potrebbe diventare una tecnologia ubiquitaria, a cui non faremo più caso, come lo smartphone o il personal computer, la televisione a colori, che ormai sono nelle case di tutti. Macchine la cui forma non sarà determinante ma che, molto probabilmente, passeranno dall’essere oggetti pesanti, in ferro, a robot soft, morbidi”.
A dare questo segnale, infatti, sono le ultime tendenze di cui si è discusso nel corso di IROS, l’International Conference on Intelligent Robots and Systems, uno degli appuntamenti più importanti del settore, che si è svolto a Madrid. “Il tema più discusso era quello dei soft robot, di ispirazione biologica, che ricordano il tentacolo di un polpo o la proboscide di un elefante, e che si possono realizzare anche utilizzando tecnologie diverse e nuovi materiali”.
Suggestioni, ovviamente, ma non tanto distanti da un futuro molto prossimo che in alcuni paesi, come il Giappone, dove il robot Pepper, una sorta di umanoide maggiordomo, è già una realtà in quasi ogni abitazione e ha un costo alla portata di quasi ogni famiglia.
“Da noi difficilmente potrebbero prendere campo robot con le sembianze umane o animali, più vicine alla cultura orientale – spiega Siciliano – ma si potrebbe pensare a una tecnologia in between, a metà strada tra aspirapolvere e umanoide giapponese, che potrebbe avere una funzione senso-motoria negli ambienti, nelle case, nelle scuole e negli ospedali. Insomma un assistente robotico nella vita di tutti i giorni”.
Robot chirurghi e cuochi, ma sempre sotto l’occhio attento dell’uomo
E se il futuro del robot domestico sembra essere ormai alle porte, per quello che riguarda l’uso professionale la robotica, oltre a essere diventata una parte molto importante della produzione industriale, ha iniziato a sconfinare in campi inaspettati.
In primo piano l’industria, anche quella tradizionale, che ha iniziato a investire sul settore, grazie anche alle politiche di incentivazione del piano Impresa 4.0. Ad avere un forte impulso sono stati i Cobot, ovvero i robot cooperativi, che interagiscono con l’uomo e lo aiutano a svolgere compiti particolarmente pesanti, ripetitivi o pericolosi.
Ma, restando nel campo delle applicazioni, il quarto mercato mondiale per la robotica è quello alimentare dove operano parecchi robot che vengono utilizzati per il confezionamento merci, con un forte beneficio anche dal punto di vista dell’igiene. “Ma noi possiamo pensare anche di realizzare una cucina robotizzata – spiega Siciliano – come ha fatto una startup inglese Moley Robotics, che ha stretto un accordo con Gordon Ramsey, uno dei Masterchef mondiali”.
L’idea di base è quella che si potranno fare i piatti di uno chef stellato, che magari si potranno ordinare con una app e che potranno essere portati a casa con un drone. “A questo si aggiunge la maniacalità con cui viene impiattato un piatto di uno chef stellato. Non escludo che, un domani, ci possano essere uno o più robot a farlo. L’impiattamento, come il dosaggio, devono essere perfetti e precisi, e questo può farlo tranquillamente un robot”.
Una precisione e accuratezza che, già oggi, ha permesso di alzare l’asticella in un altro campo molto importante come quello della chirurgia robotica. “Io dirigo il centro ICAROS – ricorda Siciliano – e ho un contatto quotidiano con chi opera. Mediamente il chirurgo con il robot da Vinci può fare un’operazione in modo più accurato rispetto a chi usa la chirurgia laparoscopica. Ovviamente il fattore umano è fondamentale anche perché, se alla guida della Ferrari abbiamo le persone normali, difficilmente possiamo vincere, ma se abbiamo Vettel tutto cambia. Ci sono persone che con il da Vinci riescono a fare operazioni di microchirurgia a livello veramente innovativo”.
Il robot non è un job killer, anzi può moltiplicare l’occupazione
Tutti esempi che diventano fondamentali per sfatare uno dei luoghi comuni di cui spesso si parla, ovvero del fatto che l’avvento della robotica cancellerà posti di lavoro, sostituendo le persone.
“Si tratta di una posizione molto demagogica – sottolinea Siciliano – anche perché è vero il contrario. Ci saranno, ovviamente, nuovi lavori, differenti da quelli tipicamente manuali, che sono pericolosi, alienanti, stancanti e quindi non particolarmente appetibili. Una dimostrazione arriva da Amazon che, un anno e mezzo fa, ha reclutato 500 mila robot e, nello stesso periodo di riferimento, ha assunto 700 mila persone in tutto il mondo. Il robot non è un job killer, come fu dichiarato al World Economic Forum di Davos due anni fa, ma è un moltiplicatore di posti d lavoro molti dei quali, oggi, non esistono ancora”.
La roboetica, per far convivere uomo e macchina in equilibrio
E qui entra in campo un altro dei tanti temi al centro della discussione internazionale, ovvero quello della roboetica, l’etica di chi produce, programma e utilizza i robot, di cui si occupa, dal 2006, una comunità scientifica. “L’uso delle macchine intelligenti ha un impatto sulla società non banale – spiega Siciliano – basti pensare a uno dei sistemi robotici più affascinanti, come quelli indossabili, che servono per potenziare le capacità sensomotorie delle persone. Macchine che possono essere molto utili, per esempio, nella riabilitazione, ma anche a livello produttivo come nell’automotive, dove i supporti ergonomici consentono di stancarsi di meno e di evitare patologie dovute al sollevamento di pesi”.
Ma se queste tecnologie possono aiutare in molti campi, in America si stanno anche studiando braccia artificiali, che possano aiutare gli infermieri a sollevare i pazienti, c’è da dire che, proprio negli Stati Uniti i maggiori finanziamenti arrivano dal comparto della difesa. “Anche negli USA hanno fatto esoscheletri – precisa – ma li hanno usati per applicazioni militari, per i marine americani, impegnati nelle missioni nel sud est asiatico. Il passo per avere capacità superumane è molto breve, e questo pone considerazioni di tipo etico”.
Ad approfondire queste tematiche, quindi, una comunità scientifica che opera sotto l’acronimo ELSE, che vuole rappresentare il comparto etico, legale, sociale ed economico. “La diffusione dei sistemi robotici nella nostra società non passa solo per il progresso dell’ingegneria e delle tecnologie – sottolinea Siciliano – ma deve interagire anche con questi fattori. In Europa abbiamo una grande consapevolezza degli aspetti ELSE, rispetto a Usa e, in maniera diversa, al Giappone”.
E qui torniamo a uno dei punti di vista etici, che riguarda, ad esempio, la tendenza che c’è in Oriente ad avere macchine umanoidi che sono d’ausilio per le persone anziane o i bambini. “Secondo me non è sbagliato che il badante o il baby sitter possa essere una macchina. Anche perché oggi ci sono persone normali che li affidano a soggetti che si possono comportare male, e allora perché non utilizzare una macchina”.
Robot: Italia all’avanguardia, ma la politica è poco attenta
In questo quadro, quindi, l’Italia vive una parte da protagonista, giocando a carte pari con Germania e Francia, in Europa, e mantenendo posizioni avanzate anche a livello globale.
“I segnali ci sono sempre stati da parte della comunità scientifica e anche da quella industriale e se guardiamo a quanto successo negli ultimi 15 anni, due settennati di programmi europei, ci accorgiamo che il sistema della ricerca italiana, in Europa ha avuto grande successo. Se guardiamo i numeri di FP7, il programma quadro della Comunità europea per la ricerca e lo sviluppo tecnologico nel settennio 2007-2013, notiamo che a fronte di un 13% di share del paese Italia al finanziamento di tutta la ricerca, sono pervenuti finanziamenti a istituzioni italiane sulla robotica, università e centri di ricerca, piccole e medie imprese, ma anche a qualche grossa attività, per il 16,5% con un saldo del 3,5%. Questo vuole dire che è un settore dove tornano indietro più soldi di quelli che vengono versati”.
E qui si apre il problema “politico”, quello di una scarsa consapevolezza da parte delle istituzioni del ruolo di eccellenza della robotica italiana. “Abbiamo una comunità scientifica all’avanguardia, che compete direttamente, oltre che con Germania e Francia, anche con Stati Uniti e Giappone – ricorda Siciliano – ma questo non viene pienamente compreso dal nostro sistema politico, tanto che siamo tra i pochi, assieme ad Albania Montenegro e Polonia che non hanno un’agenzia nazionale della ricerca, un organismo preposto alla promozione della ricerca e, sopratutto, a una seria valutazione, che deve essere fatta con criteri internazionali. Purtroppo sono scelte politiche che noi paghiamo; ciò nonostante siamo apprezzati e valutati per il nostro eccellente livello di ricerca secondo meccanismi di assoluta trasparenza”.
Lo “strano caso dell’IIT” che recupera finanziamenti per 100 milioni l’anno
Non manca, però, una polemica con uno dei colossi della ricerca italiana, l’Istituto Italiano di Tecnologia. “Io (ma non solo io) – precisa Siciliano – non capisco perché in Italia il Ministero dell’Economia e della Finanza abbia deciso da più di 10 anni che l’eccellenza si definisce per decreto decidendo, in maniera unilaterale e bolscevica di destinare 100 milioni di euro l’anno, a fondo perduto, all’Istituto Italiano di Tecnologia, indipendentemente da quello che fa. Questo significa che il paese Italia decide che l’eccellenza è solamente quella. All’IIT c’è gente valida, e hanno fatto politiche molto intelligenti aprendo laboratori in tutta italia. Ma, in pratica l’IIT funziona da Agenzia nazionale della ricerca e, visto che è molto ricca, può avvalersi della collaborazione di alcuni dei migliori gruppi di ricerca italiani”.
“La lotta è impari – prosegue Siciliano – anche perché, se il mio gruppo di 25 persone, negli ultimi 8 anni, ha portato finanziamenti per 12 milioni di euro, di cui una decina europei, l’IIT, dove ci sono 1.500 persone, dovrebbe vincere tutti i progetti europei. E invece se ne aggiudicano tanti quanti altri gruppi italiani di ricerca. Purtroppo fin quando il nostro paese non investirà in maniera più consistente nella ricerca, in modo aperto e competitivo, continuerò, con il gruppo di che coordino, a fare capo quasi esclusivamente a Bruxelles per fare una ricerca di alto livello”.