L’intelligenza artificiale piace ai lavoratori, tuttavia spaventa il gap di competenze necessarie per gestire al meglio questa innovazione. È quanto rileva lo studio Randstad Workmonitor, dedicato all’impatto dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro. L’ultima edizione dell’indagine trimestrale sul mondo del lavoro firmata da Randstad, che si occupa di servizi per le risorse umane, è stata condotta in 34 Paesi su un campione di 405 lavoratori di età compresa fra 18 e 67 anni per ogni nazione, che lavorano almeno 24 ore alla settimana e percepiscono un compenso economico per questa.
Dai risultati, emerge un atteggiamento favorevole dei lavoratori italiani nei confronti dell’intelligenza artificiale, vista come un’opportunità per migliorare il proprio lavoro e uno stimolo per acquisire nuove competenze, tuttavia l’offerta e la padronanza di competenze digitali non è ancora sufficiente a gestire un cambiamento sociale, culturale e tecnologico così profondo.
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I dati del Randstad Workmonitor
L’80% degli intervistati considera positivamente il crescente impatto della tecnologia sul mondo del lavoro. Ma la percezione cambia se si analizzano le competenze richieste dalla digitalizzazione del lavoro: gli italiani sono i primi a livello globale a sentirsi obbligati a sviluppare le proprie capacità per tenere il passo con i progressi digitali (80%) e l’87% sente il bisogno di acquisire sempre nuove competenze digitali per mantenersi competitivi sul mercato. Una carenza di competenze digitali che gli italiani avvertono sia nelle imprese, dove solo il 41% offre corsi di formazione sull’argomento ai propri dipendenti, e nelle istituzioni scolastiche e universitarie, che solo secondo il 50% dei dipendenti forniscono agli studenti le conoscenze necessarie per prepararli ai lavori del futuro, e alla quale cercano di rispondere investendo autonomamente nella propria formazione digitale (56%).
“Dal Randstad Workmonitor emerge come sia cambiata la percezione dell’intelligenza artificiale fra gli italiani, vista non più come un pericolo ma bensì come un’opportunità – commenta Marco Ceresa, Amministratore delegato Randstad Italia –. La partita per cogliere tutti i benefici dell’intelligenza artificiale si gioca, però, sulla capacità del sistema formativo e delle imprese di sviluppare le competenze digitali di studenti e lavoratori e su questo piano la strada da fare è ancora lunga. Solo il 50% degli italiani ritiene che le università forniscano agli studenti le giuste competenze digitali per prepararli al loro futuro nel mondo del lavoro (32sima posizione su 34 paesi; -18% rispetto alla media globale e -15% rispetto alla media europea) e meno della metà del campione afferma che la propria azienda investe in applicazioni di intelligenza artificiale o nella formazione dei dipendenti sul tema. Per gestire un cambiamento culturale e sociale così profondo è necessario un progetto a lungo termine che metta insieme il contributo di lavoratori, scuole e imprese”.
L’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro
Otto italiani su dieci vedono il crescente impatto della tecnologia sul mondo del lavoro come un’opportunità (+6% sulla media globale e 10% sulla media europea), dodicesimi rispetto ai 34 paesi analizzati dalla ricerca. In Europa soltanto Grecia (82%) e Portogallo (83%) sono più ottimisti. Il 65% dei lavoratori, invece, è convinto che automazione, robotica e intelligenza artificiale avranno un impatto positive sul proprio lavoro (+25% rispetto al 2014), sei punti in più rispetto alla media globale e ben dodici rispetto alla media dei paesi europei, fra cui soltanto la Polonia (68%) ha un atteggiamento più favorevole.
Il problema delle competenze
L’atteggiamento cambia se si guarda alle competenze necessarie per gestire i cambiamenti portati dall’intelligenza artificiale. Soltanto il 47% degli italiani ritiene che servirà un mix di abilità diverse da quelle già in loro possesso, contro il 58% della media globale. In Europa soltanto Austria (45%), Lussemburgo (45%), Olanda (45%), Grecia (43%), Ungheria (43%) e Svezia (40%) si mostrano più fiduciosi delle proprie competenze. Ma gli italiani sono anche i primi fra le popolazioni analizzate a sentirsi sotto pressione per restare aggiornati sugli sviluppi delle tecnologie digitali: l’80%, ben 33 punti in più della media globale e 38 più della media europea. L’87% dei dipendenti, inoltre, vuole acquisire più competenze per garantire la propria occupabilità in futuro (+7% rispetto alla media globale e +9% sulla media europea), dodicesimi nella classifica globale e quinti in Europa dietro a Polonia (88%), Spagna (88%), Portogallo (89%) e Romania (89%).
Una carenza di competenze digitali che inizia nelle scuole e nelle università, con solo il 50% del campione che pensa che gli studenti ricevano le conoscenze adeguate per prepararsi al mondo del lavoro (terzultimi nella classifica globale con 18 punti in meno della media, -15% rispetto alla media europea e -23% rispetto alla media del Nord Europa). Delusi dal sistema formativo, i lavoratori si rivolgono alle imprese per ricevere quella formazione digitale di cui sentono di avere bisogno. L’81%, infatti, crede che sia compito del datore di lavoro predisporre piani di formazione per consentire ai dipendenti di acquisire le competenze digitali mancanti, contro il 76% della media globale, ma soltanto il 41% del campione dichiara che l’azienda in cui lavora sta investendo nella formazione dei dipendenti su intelligenza artificiale e machine learning (46% dei lavoratori 18-45enni e 35% dei senior), contro il 44% della media globale. Poche anche le imprese che stanno investendo nelle tecnologie legate all’intelligenza artificiale: lo afferma solo il 47% del campione italiano (due punti sotto la media dei paesi analizzati), con una forbice ridotta fra generi (49% uomini e 46% donne) e un divario più ampio fra lavoratori giovani (55%) e senior (38%). La conseguenza per non farsi trovare impreparati è quella di investire personalmente nella propria formazione sul tema (56%, -3% sulla media globale), in particolare gli uomini (60%, contro 52% delle donne) e i più giovani (61%, contro il 49% dei lavoratori senior).
Indici trimestrali
Mobilità – Nel quarto trimestre 2018, rispetto al precedente, la mobilità dei lavoratori è cresciuta di un punto a livello globale, a quota 111 punti. Il mercato italiano, invece, ha registrato una riduzione di due punti, con un indice di mobilità che è passato da 101 a 99.
Cambio di lavoro – Il 79% dei lavoratori italiani non ha cambiato né mansione né datore di lavoro negli ultimi sei mesi, l’11% dei dipendenti ha cambiato soltanto azienda, un altro 7% ha cambiato ruolo all’interno della stessa società, il 3% ha cambiato sia l’impresa che la posizione ricoperta. Le principali motivazioni che inducono gli italiani a cambiare impiego sono le circostanze organizzative (31%), l’ambizione di crescita nell’attuale specializzazione (25%) e la ricerca di migliori condizioni di lavoro (24%).
Ricerca di lavoro – Soltanto il 2% degli italiani sta attivamente cercando un altro lavoro, il 6% sta selezionando nuove opportunità, il 21% si sta guardando attorno, il 31% non si sta impegnando attivamente nella ricerca ma se capitasse un’occasione sarebbe aperto ad ogni possibilità, mentre ben il 40% dichiara di non cercare lavoro.
Soddisfazione del lavoro – Pur occupando stabilmente la seconda metà della classifica, nel complesso gli italiani sono appagati dalla loro situazione occupazionale: il 65% è soddisfatto, il 24% non esprime un giudizio né positivo né negativo, mentre solo l’11% è insoddisfatto del proprio lavoro. In crescita, invece, sia l’ambizione di ottenere una promozione (che passa dal 75% al 76%) sia il desiderio di iniziare un’attività diversa (dal 54% al 57%).
Timore di perdere il lavoro – Nell’ultimo trimestre, è cresciuta di un punto la percentuale di italiani che hanno timore di perdere il posto di lavoro (8%) rispetto ai tre mesi precedenti, mentre è leggermente diminuita la sensazione generale d’insicurezza (coloro che non hanno molta paura di perdere il posto ma neanche poca, scesa dal 25% al 24%). I segmenti che temono maggiormente di perdere il posto sono le donne (12%, +5%) e i lavoratori fra i 25 e i 34 anni (12%, -1%), mentre i meno timorosi sono gli uomini (5%, -3%), i dipendenti 45-54enni (5%, +2%). I giovani sotto i 25 anni più spaventati sono in linea con la media (8%), ma sono aumentati del 5% negli ultimi tre mesi. Cala invece il numero di dipendenti che ritiene di poter trovare un’occupazione analoga nel giro di sei mesi (52%, -1%), con punte dell’85% fra i 18-24enni e del 58% fra gli uomini (più pessimisti gli over 55, 34%, e le donne, 47%), e anche la fiducia di poter trovare un lavoro diverso (scesa dal 50% al 49%), con uomini (54%) e giovani (92%) più ottimisti e donne (45%) e senior (25%) più sfiduciati.