Le tecnologie digitali aiutano a creare società più sostenibili, ma serve un “new Deal” delle competenze

Dal digitale può arrivare un grande contribuito non solo per la ripartenza delle economie dopo la crisi provocata dalla pandemia, ma anche nel passaggio verso società e aziende più sostenibili: lo evidenzia lo studio “Digitalizzazione e sostenibilità per la ripresa dell’Italia”, realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Microsoft Italia. Partendo dall’analisi delle disuguaglianze sociali che la pandemia ha accentuato, lo studio analizza come la sostenibilità sia sempre più al centro delle scelte dei consumatori e delle aziende e come le tecnologie digitali siano risorse necessarie per raggiungere la sostenibilità economica, sociale e ambientale.

Pubblicato il 03 Set 2021

transizione digitale ed ecologica


Il digitale avrà un ruolo sempre più pervasivo nel raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale, ma anche nel promuovere la produttività delle imprese: è quanto emerge dallo studio “Digitalizzazione e sostenibilità per la ripresa dell’Italia”, realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con Microsoft Italia.

Il rapporto, presentato nel corso della prima mattinata di lavori del Forum di Ambrosetti (giunto alla sua 47° edizione) che si tiene a Cernobbio, sottolinea il ruolo dell’innovazione digitale nel rispondere alle grandi sfide del momento, come la ripresa dopo la crisi economica e sociale provocata dalla pandemia e l’emergenza climatica. 

Le conseguenze economiche e sociali della crisi

Un Forum che si inserisce in un momento di “rara complessità” a livello mondiale, come sottolinea Valerio De Molli, Ceo di Ambrosetti. “Il 2020 ha registrato la più profonda crisi globale mai vissuta dalla nostra generazione. Il crollo del Pil mondiale è stato 32 volte peggio della peggiore crisi precedente, mentre l’8,9% della contrazione del Pil italiano è stato il quarto peggiore dei 150 anni della storia dell’Italia, preceduto soltanto dai 3 anni della Seconda Guerra Mondiale”.

Una crisi che ha acutizzato le disuguaglianze sociali, sia tra Paesi che internamente. A pagarne le spese sono stati soprattutto i giovani e le donne. Quest’ultime, aggravate dalle responsabilità della cura della famiglia, sono più esposte al rischio di perdere il lavoro, in uno scenario che già vede 1 donna europea su 3 non lavorativamente attiva a causa di tali responsabilità.

Una situazione che è particolarmente allarmante in Italia, sottolinea De Molli, che è all’utlimo posto in Europa per percentuale della popolazione femminile che lavora o che sta attivamente cercando un impiego (solo il 56,5%, contro una media europea del 68,8%).

“Il potenziale però c’è. In Italia le donne che vorrebbero avere un’occupazione sono 9 su 10”, aggiunge De Molli. Un problema che secondo il Ceo di Ambrosetti si può risolvere soltanto con un cambio di paradigma epocale, non solo in prospettiva di diritti e di etica, ma anche di vantaggio economico: secondo il modello elaborato da Ambrosetti, l’eliminazione del gender pay gap (differenza di retribuzione a parità di mansioni e competenze tra uomo e donna) e l’aumento del tasso di occupazione femminile (fino a raggiungere quello maschile) genererebbe 9 trilioni di dollari di Pil aggiuntivo nei Paesi del G20, di cui 110 miliardi di Euro solo in Italia, pari a 9 volte l’impatto annuo del PNRR.

Proprio per questo si deve andare oltre agli obiettivi fissati dal Governo per il 2026, sottolinea il Ceo di Ambrosetti. L’aumento dell’occupazione femminile del 4%, obiettivo fissato dal Governo, lascerebbe comunque l’Italia ancora in penultima posizione in Europa.

Va poi affrontato il problema della carenza di donne nel settore ICT (dove rappresentano solamente il 17% della forza lavoro), dato non troppo discordante dalle altre percentuali europei. Proprio all’empowerment della forza lavoro femminile, Ambrosetti ha dedicato due documenti che contengono un decalogo di regole per promuovere la paritià di genere.

Accanto alla disuguaglianza di genere, la pandemia ha accentuato anche altri temi critici, come la disuguaglianza di ricchezza: in Italia, infatti, il valore del Coefficiente Gini (che misura proprio le disuguaglianze di ricchezze) è aumentato del 12% dal 2008 e il 2020 è stato l’anno con l’incremento maggiore mai registrato.

La consapevolezza dell’emergenza ambientale guida le scelte di consumatori e aziende

Oltre a queste emergenze sociali, ci troviamo ad affrontare anche l’emergenza climatica, con gli obiettivi di sostenibilità fissati dalla Commissione Europea che impongono un cambio di passo.

Lo studio evidenzia come l’esigenza di muoversi verso una società sempre più sostenibili – esigenza che la pandemia ha messo ulteriormente in luce – guidi sempre maggiormente le scelte dei consumatori e per le aziende avere buone pratiche a sostegno della competitività può rappresentare un vero e proprio vantaggio competitivo.

L’attenzione dei consumatori si è spostata dal prodotto all’azienda: il 60% dei consumatori considera, infatti, i valori aziendali un elemento discriminante nella scelta del brand. In particolare i consumatori sono interessati all’ottimizzazione delle risorse inquinanti e la lotta al cambiamento climatico.

Anche per le aziende la consapevolezza è aumentata: il 64% considera la sostenibilità ambientale uno dei pilastri portanti della propria strategia. Sostenibilità ambientale che assume nelle aziende diverse accezioni: per 59% significa efficientamento dei processi interni, per il 39,6% implica un rinnovamento dei propri prodotti e servizi, mentre il 5% del campione intervistato ha indicato anche la necessità di competenze e figure professionali adeguate. A questa esigenza segue l’intenzione di allargare la propria visione allo sviluppo sostenibile di tutta la filiera, che interessa oltre il 60% del campione.

Percentuali che, tuttavia, scendono nelle PMI: soltanto il 47% considera la sostenibilità un cardine della propria visione (contro il 67% delle grandi imprese), mentre il 50% sta ridisegnando i propri processi interni in un’ottica di efficientamento del consumo delle risorse, contro il 69% delle grandi aziende.

Gli sforzi principali delle PMI nell’implementare dinamiche di sviluppo sostenibile riguardano la selezione dei partner lungo la supply chain (50%) e nella creazione di figure professionali in grado di guidare il cambiamento.

Le sinergie tra trasformazione digitale e sostenibilità ambientale

A determinare la propensione delle imprese al cambiamento in ottica sostenibile è la maturità del business in chiave digitale e di nuove tecnologie: secondo il 42% del campione, infatti, il vero abilitatore è la presenza di una cultura aziendale orientata al digitale. Segue la presenza di processi che permettono di sfruttare appieno il digitale (24%) e delle giuste competenze per creare valore, a partire dagli asset digitali dell’azienda (21,5%).

Dalla ricerca emerge, inoltre, che l’86% delle aziende dichiara di aver implementato o programmato misure per la sostenibilità ambientale dal digitale, mentre la percentuale delle aziende che ancora non ha realizzato o programmato investimenti di questo tipo (il 14%) fa riflettere sulla necessità di sostegni per gli investimenti in digitale e green, governance orientate alla sostenibilità e a procedure più snelle.

Anche in questo ambito, la situazione cambia a seconda della dimensione delle aziende: la quota di PMI che fanno leva sul digitale per incrementare la propria sostenibilità è infatti dimezzata rispetto alle grandi imprese (38% vs 69%), mentre la quota di PMI che ancora non ha implementato queste misure ammonta a circa il 25%.

Dati che, sottolinea il rapporto, dimostrano la difficoltà delle piccole e medie imprese a stare al passo con la doppia rivoluzione che le investirà (digitale e green). Al tempo stesso, tuttavia, il rapporto sottolinea come siano proprio le PMI che avverranno nel prossimo futuro: il 38% delle piccole imprese ha infatti programmato misure digitali per la sostenibilità, contro il 21% delle grandi.

Nonostante queste discrepanze, lo studio evidenzia come sia proprio il contributo del digitale a dare una spinta significativa verso una maggiore sostenibilità.

Le aziende stesse riconoscono questo contributo. In particolare la diminuzione degli spostamenti (71,2%), la dematerializzazione dei processi (68,4%), la gestione più efficiente delle operations (50,9%) e l’incremento delle attività di monitoraggio (49,1%) sono i principali fattori che secondo le aziende intervistate contribuiscono a migliorare il livello di sostenibilità ambientale.

Come le tecnologie digitali promuovono la sostenibilità

Sotto il profilo della sostenibilità economica, lo studio dimostra come le aziende digitalizzate ottengano un importante beneficio sulla produttività del lavoro rispetto alle aziende che non hanno ancora attuato percorsi di trasformazione digitale (+64% per le aziende italiane, rispetto ad un +49% per le aziende europee).

Sotto il profilo della sostenibilità ambientale, il gruppo di lavoro di The European House – Ambrosetti ha costruito un innovativo modello proprietario per stimare il contributo del digitale alla decarbonizzazione. Dal modello risulta come il digitale sarà una delle armi più importanti per la transizione verde, con un impatto al 2030 pari a quello incrementale delle energie rinnovabili. Complessivamente, infatti, si stima che tra il 2020 e il 2030 il digitale contribuirà ad abbattere fino al 10% delle emissioni rispetto ai livelli del 2019 (37 milioni di tonnellate di CO2 annue).

Sotto il profilo della sostenibilità sociale, lo studio evidenzia chiaramente come l’adozione di nuovi modelli di collaborazione sia la principale leva d’azione attraverso cui le aziende possono contribuire al benessere delle persone, all’inclusione sociale e all’inclusione dei territori. Nella survey condotta su un campione di oltre 200 aziende italiane in cui nuove forme di lavoro a distanza (63,7% del campione) e di collaborazione (59% del campione) sono state indicate come le principali leve attraverso cui il digitale può contribuire alla sostenibilità sociale.

“Sotto il profilo ambientale il nostro modello stima un contributo del digitale alla decarbonizzazione di 37mln di tonnellate di C02 annue, pari al contributo incrementale delle energie rinnovabili tra il 2020 e il 2030 e pari al 10% delle emissioni al 2019. Sotto il profilo sociale, oltre il 60% delle imprese conferma come le nuove forme di collaborazione abilitino maggiori livelli di benessere ed inclusione”, commenta De Molli.

Le proposte di Ambrosetti e Microsoft per aziende e policymaker

Alla luce delle evidenze emerse, lo studio riporta 3 proposte concrete elaborate da The European House – Ambrosetti insieme a Microsoft Italia e indirizzate ai policymaker e alle aziende.

La prima proposta è quella di abilitare il diritto/dovere alla formazione digitale attraverso un “new Deal” delle competenze: una pluralità di indicatori segnala la carenza di competenze digitali come l’elemento di debolezza chiave del sistema industriale italiano. È infatti appena il 42% degli adulti a possedere competenze digitali di base, contro una media UE del 57%. Incentivare le competenze necessarie a sfruttare, a livello professionistico e di massa, il potenziale del digitale è quindi chiave non solo per la produttività, ma anche per gli obiettivi di transizione verde, in un contesto di mercato sempre più veloce e con una crescente importanza dell’apprendimento permanente.

La seconda proposta riguarda l’istituzione del diritto universale al digitale come leva di inclusione sociale e riduzione delle disuguaglianze. Post Covid, le Nazioni Unite riportano un deterioramento trasversale degli indicatori legati ai Sustainable Development Goals, con impatti particolarmente severi in particolare su tre fronti: economia, salute e istruzione.

Come confermano i dati sull’andamento della povertà nel nostro Paese per il 2020, il numero di individui in povertà assoluta è passato da 4,6 a 5,6 milioni di individui, registrando un aumento del 22,8%. Il dato riflette la severità degli andamenti occupazionali, per cui tra gennaio e dicembre 2020 si è registrata una contrazione -1,1% per gli uomini e del -2,7% per le donne.

Ma, forse ancora più significativo, è l’aumento del numero degli inattivi: persone senza lavoro ma che, scoraggiati dalla crisi, rinunciano a ricercare un’occupazione: +2,6% per gli uomini e +3,7% per le donne. La pandemia ha quindi accelerato l’importanza di interventi volti a colmare il digital divide tra la popolazione e tra porzioni del territorio italiano, aprendo opportunità di sviluppo per i territori economicamente meno dinamici e periferici, grazie alle possibilità offerte dal digitale e dalla remotizzazione del lavoro, che può innescare circoli virtuosi di sviluppo e brain (re)gain per i territori periferici del Paese.

La terza e ultima proposta è individuare standard condivisi per misurare l’impatto delle aziende tra i molti esistenti: al fine di poter convogliare anche le energie del mondo privato verso la costruzione di modelli di produzione e consumo sostenibili, è chiave elaborare metodologie condivise per la quantificazione degli impatti ambientali e sociali di tutte le attività di impresa.

Senza la misurazione degli impatti, sottolinea il rapporto, sarà infatti impossibile trasformare il minor impatto ambientale o sociale in un vero e proprio vantaggio competitivo degli operatori più virtuosi, innescando meccanismi di premialità economica e finanziaria per i soggetti più avanzati sulla strada della carbon neutrality.

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Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

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