Una produzione flessibile (in qualità e volumi) in grado di rispondere ad eventi improvvisi, come la pandemia, o per assecondare una domanda che, in un mondo sempre più digitalizzato, è più soggetta a fluttuazioni e mutazioni e in tempi più ridotti rispetto al passato: sono queste le sfide che si trova ad affrontare la manifattura di oggi e che le tecnologie abilitanti – l’automazione di nuova generazione, la robotica e le tecnologie digitali – consentono di gestire.
Di questo e molto altro si è discusso nel corso dell’evento Industry 4.0 360 Summit giornata organizzata da Innovation Post e Industry4business (testate del network Digital360), dedicata ai temi dell’innovazione digitale al servizio di produttività, efficienza e sostenibilità del manifatturiero.
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Superare l’alibi tecnologico
Cogliendo gli spunti emersi nell’intervista ad Andrea Pontremoli, ha preso la parola Giovanni Miragliotta, Associate Professor presso il Politecnico di Milano, sottolineando l’importanza di cambiare mentalità, adottando una visione più ampia e un approccio strategico. “Serve la capacità di cambiare in modo drastico, di mettersi in gioco in modo radicale e non limitarsi ad accettare quello che finora è stato fatto, migliorandolo un poco. Serve lavorare su delle reti che complimentino le capacità, riconoscere l’importanza di investire su queste rete, senza lasciarsi schiacciare dal timore di fallire”.
Occorre, sostiene Miragliotta, abbandonare la “scusante della tecnologia non ancora matura”, dietro la quale si nascondono spesso le aziende. “La tecnologia c’è, ma non è l’unica componente dell’innovazione”, spiega.
Un cambiamento che deve guidare le aziende anche in un diverso approccio all’investimento. “Le aziende capiscono l’importanza di investire, ma la stragrande parte degli investimenti sono ancora in beni tangibili, in macchinari che poi forse saranno connessi. Si investe poco in software e si investe poco in sviluppatori, in piattaforme di armonizzazione e raccolta dati, in strumenti di controllo della produttività del dato”.
Non possiamo ancora cantare vittoria, quindi. Anche gli incentivi statali all’innovazione, come quelli previsti dal Piano Transizione 4.0, vengono spesso utilizzati senza una visione strategica. “Non si può investire soltanto se ci sono incentivi, occorre capire che nessuno ti regala l’innovazione. Occorre guardare alla portata grande del processo di innovazione, capire che bisogna mettere in campo molte risorse”.
Infine, non bisogna dimenticare l’importanza sociale del manifatturiero. “La manifattura ha un ruolo sociale davvero imprescindibile, è un collante. Questo è un punto importantissimo perché molti altri settori non danno spazio a tutti i tipi di intelligenza delle persone. Occorre guardare alle persone, all’inclusività, a tutti i nostri talenti. La manifattura ha un ruolo trainante nell’affrontare le grandi sfide che abbiamo davanti”.
Flessibilità nell’automazione industriale, gli approcci dei big player
Ad aprire il focus sulla flessibilità nell’industria è Stefano Cattorini, General Director, Bi-Rex, uno degli otto Competence Center istituiti dal Piano Industria 4.0 (divenuto in seguito Impresa 4.0 e successivamente Transizione 4.0) al fine di portare avanti attività di orientamento e formazione nelle tecnologie abilitanti l’Industria 4.0. In questi centri ad alta specializzazione le aziende possono svolgere attività di “test before invest” sfruttando spazi dove le tecnologie vengono integrate in un ambiente digitale.
“Prima della pandemia le aziende si trovavano ad operare in una situazione di overbooking, ossia in una situazione di abbondanza di domanda. Improvvisamente lo scenario si è invertito, la domanda è notevolmente calata e l’importanza di flessibilità nella produzione è stata più evidente che mai”, spiega Cattorini.
Un’esigenza che non può non riflettersi sui modelli di business: il dover adattare just in time la produzione a livello quantitativo e qualitativo rende il ruolo delle tecnologie ancora più centrale. Tecnologie che, fortunatamente, hanno raggiunto negli ultimi anni la maturità adeguata a poter rispondere a questi cambiamenti, oltre che prezzi più contenuti e quindi accessibili alle imprese e che, soprattutto, sono ora in grado di introdurre flessibilità anche nell’Industria 4.0.
La macchina adattiva
Contrariamente a quanto si pensi, la flessibilità non è sempre stata una caratteristica del mondo dell’automazione industriale: un ambiente automatizzato era rigido e ogni modifica a un impianto costava ore se non giorni di lavoro. Ora, grazie alla maturità raggiunta dalle tecnologie abilitanti il paradigma dell’Industria 4.0, le cose sono cambiate. Ne è un esempio il concetto di macchina adattiva, capace di trasformarsi, quasi a cambiare forma.
Un concetto che nasce da un’attenta analisi delle tendenze di mercato, come spiega Francesco Franchini, Key Account e Sales Engineer di B&R Automazione Industriale. “Il ciclo di vita del prodotto si è notevolmente accorciato, mentre la domanda è diventata meno prevedibile e sempre più influenzata da logiche di marketing, anche complesse”.
A queste si è aggiunta un’ulteriore tendenza, quella della product proliferation, ovvero si è diffusa la volontà di immettere sul mercato diverse varianti dello stesso prodotto. Infine, c’è la sfida principe per il costruttore di macchine, che è quella della customizzazione di massa del prodotto, che deve soddisfare le esigenze del singolo utente, pur rimanendo allo stesso tempo commercializzabile e profittevole.
Quando si può parlare di macchina adattiva? Secondo B&R, una macchina adattiva deve avere quattro caratteristiche:
- deve consentire un cambio formato veloce e semplice, abilitando la produzione di più prodotti differenti anche all’interno della stessa linea produttiva;
- deve essere adattabile al futuro con il minore impatto possibile, fino prevedere produzione prodotti ancora non pensati al momento della produzione macchina, accelerandone il time to market;
- deve essere produttiva in ingombri ridotti;
- deve essere efficiente e conveniente sui piccoli lotti.
Cinque – spiega Franchini – sono le tecnologie abilitanti questo tipo di macchinario: l’utilizzo della robotica, intesa come processo integrato all’interno del processo produttivo più ampio; i sistemi di visione integrata, utilizzati sia come complemento al processo, ma anche per il controllo e la tracciabilità prodotto; i digital twin, che permettono di simulare i processi ancora prima di mettere mano sull’hardware; i sistemi di movimentazione del prodotto e infine l’integrazione di tutte queste tecnologie con gli altri componenti macchina. Integrazione che è intesa sia a livello del software, già dallo sviluppo sul medesimo ambiente, che a livello di hardware, poiché le tecnologie possono giacere sulla medesima base di campo, tramite l’utilizzo dei protocolli aperti.
I vantaggi dell’integrazione
Sull’integrazione si è sviluppata, in questi anni, l’offerta di Omron Electronics, come spiega Giacomo Pallucca, Business Development Specialist presso l’azienda. “Per Omron l’integrazione IT/OT è fondamentale, è il leitmotiv che ha guidato lo sviluppo dei nostri prodotti negli ultimi 10 anni. Abbiamo potenziato il nostro portafoglio prodotti anche grazie a importanti acquisizioni”.
Nel corso del 2020 gli sforzi dell’azienda sullo sviluppo di macchine adattive ha portato alla realizzazione di una macchina flow pack, quindi per l’imballaggio. “Si tratta di una macchina per l’imbustaggio ad alta velocità dei prodotti e che, andando ad analizzare profilo della saldatura con un sistema di visione, regola i parametri della testa saldante, aumentando o abbassando la temperatura all’occorrenza”.
Una macchina dotata di una funzionalità auto-ottimizzante, che è figlia dell’integrazione dei sistemi di Intelligenza Artificiale e tutte le tecnlogie IT nell’ambito dell’automazione industriale (e quindi OT).
Oltre che su questa integrazione, l’azienda lavora da anni proprio per fornire soluzioni flessibili. Un impegno che ha portato all’introduzione della robotica mobile già un decennio fa e che permette la destrutturazione dell’impianto produttivo. “Ci troviamo sempre di più davanti a linee produttive che non sono più le linee delle fabbriche di una volta. Abbiamo una produzione gestita con un modello ‘a isole’ e questo crea percorsi che sono molto incastrati e difficili da linearizzare. Abbiamo voluto introdurre la robotica mobile per andare a ordinare questi movimenti e poterli controllare in real time”.
Una gestione che Omron ha sviluppato negli ultimi anni grazie a partnership strategiche nel campo della robotica collaborativa e che ha portato l’azienda a creare vere e proprie celle che si muovono e dare una maggiore libertà a chi disegna i layout degli impianti.
La robotica flessibile
Di flessibilità della produzione grazie alla robotica collaborativa si occupa anche Universal Robots, impegnata negli ultimi anni in processo di “democratizzazione della robotica”, attraverso lo sviluppo di soluzioni che facilitano l’utilizzo dei cobot alle imprese, con un occhio di riguardo alle PMI.
Proprio per le loro caratteristiche i cobot non possono non avere un ruolo di primo piano nella transizione verso una manifattura più sostenibile. “I nostri cobot sono robot più leggeri rispetto ai robot tradizionali e quindi semplici da riposizionare, a seconda dei bisogni. Sono alimentati con utenze elettriche a uso civile e quindi consumano pochi watt. Inoltre, possono essere montati su strutture di carpenteria leggera, anche carrellabile, e possono quindi essere spostati all’interno dell’iter produttivo”, spiega Alessio Cocchi, Country manager Italia di Universal Robots.
Oltre alla semplicità di utilizzo il cobot offre molto di più: si tratta, infatti, di quindi un utensile intelligente che nasce già per essere flessibile, in quanto deve saper rispondere agli stimoli che percepisce dall’ambiente circostante: ad esempio, deve sapersi fermare in caso di un possibile contatto pericoloso con un operatore. Questa flessibilità intrinseca, combinata con i processi di auto apprendimento, rendono la robotica collaborativa una tecnologia che abilita la flessibilità nell’industria.
L’approccio a questa tematica di Kuka, azienda che vanta anch’essa una lunga esperienza nella robotica e nello scambio di dati con i robot, si concentra principalmente sui sistemi di virtualizzazione (i digital twin) che permettono al cliente di visualizzare il robot nell’impianto ancora prima di acquistarlo.
Nel campo dell’Industrial IoT l’azienda si sta concentrando sui servizi maggiormente richiesti dai clienti e che permettono di massimizzare il ritorno dell’investimento in tempi minori, come la condition monitoring e la maintenance monitoring.
Non manca il focus sulla customization del prodotto, per cui l’azienda sta lavorando con partner del mondo dell’IT, come spiega Alberto Pellero, Strategy and Marketing Director. “KUKA è un’azienda aperta e questa consapevolezza è aumentata quando ci siamo interfacciati al mondo del software e abbiamo capito che occorre collaborare tra partner”.
Una collaborazione di cui, come si è discusso nelle tavole rotonde incentrate sulle tecnologie dei Big Data, dell’Intelligenza Artificiale, del Cloud e dell’Edge Computing, non si può fare a meno per abilitare un numero sempre maggiore di servizi e applicazioni, grazie al valore aggiunto che si conferisce al dato.
Su questa tecnologia si stanno concentrando gli sforzi di Mitsubishi Electric per rendere la manifattura più competitiva, come spiega Giovanni Mandelli, Product Manager PLC-HMI & Automation Solution Manager presso l’azienda giapponese.
“Da oltre 15 anni abbiamo intrapreso questo percorso sulle nostre linee e oggi siamo in grado di offrire una serie di soluzioni scalabili. Non possiamo non citare la robotica, il primo step per aumentare flessibilità. Però la sfida che abbiamo intrapreso negli ultimi anni è la collaborazione tra robot e operatore: per questo abbiamo introdotto nuova linea di cobot, ma anche nei robot industriali esistono una serie di funzionalità per poter condividere spazio di lavoro, anche con linee che lavorano a velocità più elevata e che sono quindi potenzialmente più pericolose”.
L’integrazione verticale
Ma l’utilizzo della robotica non è sufficiente, spiega Mandelli, perché bisogna prendere i dati e trasferirli ai sistemi IT. Per questo Mitsubishi propone delle soluzioni computerless, che direttamente dai PLC sono in grado di interfacciarsi, oppure arrivando fino a soluzioni di Edge Computing, con tool di analisi real time e feedback in tempo reale.
Tutto questo convogliato con l’Intelliegenza Artificiale, la “tecnologia che ha aperto le porte e che continuerà a farlo anche in futuro”. Proprio per questo, Mitsubishi ha investito fortemente in questa tecnologia, creando una linea di soluzioni AI-ready, il brand Maisart.
L’azienda sperimenta, inoltre, già da diversi anni i vantaggi della flessibilità nella produzione: già nel 2007, infatti, aveva introdotto in Giappone applicazioni di interazione diretta tra i PLC e il sistema informatico. Altro esempio viene dalla fabbrica di componenti elettromeccanici, dove si è arrivati a produrre fino 14 mila varianti di prodotti.
“Per questo si è sviluppata un nuovo concetto: la linea classica di produzione è lunga 35 metri e ha una capacità produttiva elevata, ma ogni cambio di prodotto richiedeva troppo tempo, quindi riduceva l’efficienza della linea. Abbiamo costruito accanto una nuova linea, fatta invece a celle robotiche che occupano 9 metri di ingombro e che è totalmente indipendente nel cambio formato”, aggiunge Mandelli.
Tra i cambiamenti più rilevanti vi è anche la gestione del controllo qualitativo. “Si è passati dalla gestione del risultato, cioè dal campionare qualche prodotto finito per valutarne la qualità ad andare a lavorare sulla gestione dei processi. Questo ha aumentato la produttività del 30% e il tasso di operatività del 60%. È, ovviamente, un processo che parte da lontano”.
Il ruolo dell’Additive Manufacturing nel promuovere flessibilità e sostenibilità nella manifattura
Quando si parla di produzione flessibile, non si possono non citare le tecnologie di Additive Manufacturing, che permettono di dare una risposta concreta alla domanda di prodotti customizzati. Il giudizio in merito a queste tecnologie è rimbalzato, negli ultimi anni, tra chi le considera tra le tecnologie più rivoluzionarie per la manifattura, in grado di abilitare innovazione disruptive, fino a chi le ritiene “normali” tecnologie di produzione, in affiancamento ai normali sistemi di lavorazione.
In termini numerici, le previsioni per i prossimi anni parlano di una crescita sostenuta del Mercato dell’Additive Manufacturing. A spiegarlo è Massimo Zanardini Senior Consultant presso IQ Consulting (spin-off Università degli Studi di Brescia).
“Le stime più recenti indicano un valore del mercato intorno ai 18-20 miliardi di dollari e si stima che nei prossimi anni crescerà a doppia cifra e raggiungerà, entro il 2035, un valore di 35-40 miliardi di dollari. Un valore significativo, ma forse non così disruptive come ci si poteva aspettare. Anche il numero delle stampanti vendute nel 2020 sono state circa 500 mila in tutto il mondo”.
Un mercato dal valore interessante, quindi, ma i cui numeri sono ancora relativamente piccoli se paragonati alle tecnologie tradizionali di lavorazione sottrattiva. “Tuttavia, bisogna precisare che il mercato ha continuato a crescere in questi anni, anche se con ritmi contenuti, e la crescita non si è fermata nemmeno nel 2020”, commenta Bianca Maria Colosimo, del Competence Center MADE e Politecnico di Milano.
Nonostante non sostituirà le tecniche di produzione tradizionali, la Manifattura Additiva ha dimostrato di non mancare di quell’elemento “disruptive” che caratterizza molte innovazioni. “È una tecnologie digitale, nel senso che riesco a cambiare il disegno di un prodotto e andare in stampa dove e quando voglio e questo è un elemento disruptive, non solo per il discorso della customizzazione. La stampa 3D mi permette, ad esempio, di costruire strato per strato una carta di identità del prodotto e questo è molto importante in settori dove è importante dimostrare che il prodotto non abbia difetti, come il biomedicale”, sostiene Colosimo.
L’Additive, inoltre, è anche caratterizzata da una maggiore sostenibilità rispetto alle tecnologie di produzione tradizionale, poiché permette di realizzare prodotti più leggeri. Questo è molto importante per chi, ad esempio, opera nel mercato della mobilità. “Chi lavora in determinati settori, come la mobilità sostenibile, l’aerospazio e l’automotive non può prescindere da una tecnologia che alleggerisce il prodotto e che comporta, quindi, sia una riduzione del consumo di carburante che delle emissioni di CO2”.
In aggiunta, è una tecnologia che permette di incrementare la resilienza della catena produttiva, una caratteristica che mai come in questo momento sembra fondamentale per la nostra manifattura. “La tecnologia additiva permette di riprogettare il prodotto e questo è un campo che dobbiamo ancora esplorare approfonditamente. Questa tecnologia ci permette di ripensare al modo di produrre e ridurre moltissimo il numero di componenti e quindi di cambiare la forma della catena di fornitura. Inoltre, durante la pandemia ha mostrato di riuscire a sopperire alla mancanza di prodotti”.
Una tecnologia senza dubbio promettente, quindi, con alto potenziale. Tuttavia, Colosimo sottolinea il lungo percorso che deve ancora fare per assestarsi come tecnologia di produzione stabile, come la soluzione di una serie di sfide come, ad esempio, non è moto flessibile nel cambio di materiale e c’è ancora molto da fare in termine di riduzione dei costi.
Sull’ambito della produzione diretta ha puntato HP, che da diversi anni si è inserita come player di riferimento nel mercato delle tecnologie additive. “Grazie all’introduzione della nostra expertise grafica nella produzione industriale abbiamo visto introdotto la customizzazione anche per aziende che producono ampi volumi. Pensiamo, ad esempio, alla Coca Cola o alla Nutella, che fino alcuni anni fa producevano grandi volumi di prodotti con grafica sempre uguale. Da qualche anno, in cambio, stiamo assistendo alla customizzazione anche di questo tipo di prodotti, con etichette personalizzate ed edizioni speciali per le festività”, spiega Eleonora Giacometti, Partner Business Manager di HP.
Gli ostacoli che frenano lo sviluppo
A fronte dei vantaggi finora descritti, la tecnologie dell’Additive Manufacturing non sono ancora molto diffuse: in una recente ricerca del laboratorio Rise dell’Università di Brescia, il 50% delle aziende intervistate non considerava queste tecnologie pertinenti al proprio settore. Inoltre, quasi tutte le aziende hanno indicato che non potevano dare giudizi su queste tecnologie per mancanza di competenze specifiche.
Tra gli ostacoli all’adozione, infatti, al primo posto c’è la mancanza di competenze. Per accelerare la formazione di questo tipo di competenze, HP fornisce anche dei training volti ad accompagnare le aziende nell’adozione di queste tecnologie. In questo ambito, che l’azienda identifica con il termine “professional service”, il supporto offerto è volto ad aiutare il cliente a individuare le parti che si possono stampare il 3D e alla design optimisation, ovvero fornire supporto ai progettisti per imparare a disegnare in 3D, cambiando il loro mindset.
Nonostante questi limiti, le possibilità che nel futuro possono aprire queste tecnologie sono straordinarie, sottolinea Bianca Maria Colosimo. “La ricerca è estesa, straordinaria e mondiale per cui sono certa che ci saranno diverse dimensioni in cui si potranno espandere queste tecnologie, come nel settore civile e nel biomedical. Abbiamo davanti a noi sfide molto importanti e per questo non possiamo lavorare da soli, perché la macchina ti fornisce un numero elevato dei dati che però sono inutili se non gli si dà un valore. Credo che la natura ad alta competitività del mercato abbasserà ulteriormente i costi”.
Molte possibilità, quindi, ma anche altrettante sfide. A renderle ancora più complesse troviamo i “soliti colpevoli”, ossia due elementi di freno all’innovazione di cui si parla molto in ambito di Industria 4.0: competenze mancanti e culture aziendali arretrate.
Sì perché, come spiega la Prof.ssa Colosimo, le tecnologie dell’Additive Manufacturing hanno un alto grado di attrattività per i giovani e la richiesta del mercato è molto elevata. “Ma se quei giovani finiscono poi in aziende che li riaffogano in processi produttivi tradizionali in cui si progetta per varianti, diventa tutto molto più complicato. C’è necessità da parte delle aziende di avere la tecnologia in casa, c’è molto da fare ancora”.