A cinque mesi dal varo della legge di Bilancio è arrivato il decreto ministeriale che rende operativa la nuova edizione del credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo allargata anche a innovazione e design. Una rivoluzione, quella arrivata quest’anno, il cui scopo dichiarato è triplice: ampliare il novero delle attività ammissibili al beneficio; diminuire i margini di incertezza che hanno causato non pochi problemi alle imprese che hanno inteso fruire della prima versione dell’incentivo; ricominciare la partita con un nuovo respiro triennale e senza più il vincolo della spesa incrementale (premiando cioè gli investimenti tout court e non il loro aumento rispetto a un determinato periodo di riferimento).
A bocce ferme, è forse l’occasione giusta per una riflessione sul presente e soprattutto sul futuro di queste attività nelle imprese.
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Investimenti al palo nel 2020
Il punto di partenza è un’indagine del MET pubblicata nell’aprile di quest’anno. Nel capitolo dedicato a “Ricerca e Innovatività” emerge che
Le imprese impegnate in attività di Ricerca e Sviluppo (R&D) prima della pandemia sembrano vivere le criticità con grandissima preoccupazione e previsioni di fatturato leggermente più negative della media […]. Cambiano per tutti, in misura significativa, i programmi di ricerca rispetto alla situazione pre-crisi. Il 44,2% dei soggetti che aveva programmi di R&D prima, prevede di cancellarli. Tali valori sono più pronunciati per le microimprese (48%), ma sono molto importanti in tutte le classi dimensionali con valori compresi tra il -24% e il -34%.
Il quadro che l’indagine disegna per la parte relativa all’innovazione non è sostanzialmente diverso. Nel complesso – rilevano gli autori dell’indagine – “non si prospetta, quindi, una selezione destinata ai soggetti statici, ma, al contrario, sembra disegnarsi una situazione di un rischio relativamente maggiore proprio per alcune parti qualificanti del sistema industriale italiano”.
Detta in parole semplici, l’emergenza Covid-19 ha bloccato a tutti i livelli gli investimenti in ricerca e innovazione delle imprese italiane.
Il momento di spingere sull’acceleratore
Questa è ovviamente una pessima notizia per la competitività del sistema Paese. Ma c’è un aspetto da considerare: l’assenza di investimenti sta di fatto lasciando intatte le risorse stanziate per la misura nella legge di bilancio. Questo vale anche per l’altro credito d’imposta, quello dedicato all’acquisto dei beni strumentali (ex superammortamento e iperammortamento). In altre parole, le risorse messe a disposizione del piano Transizione 4.0 per il 2020 – ben 7 miliardi di euro – sono ancora lì (e in gran parte vi resteranno).
Ricordiamo che il piano Transizione 4.0 è al momento triennale solo sulla carta, cioè con un’enunciazione di principio al principio del comma 184 della legge di bilancio, che dispone un “orizzonte temporale pluriennale”, ma “compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica”. E le risorse al momento sono state stanziate solo per il 2020.
Già nella partita del Decreto Rilancio il Ministero dello Sviluppo Economico ha provato inserire la proroga del piano, insieme con un importante rafforzamento delle aliquote. In ballo c’erano 14 miliardi di euro nei prossimi cinque anni ed è facile comprendere il motivo dello stop.
Si potrebbe però pragmaticamente partire dalle risorse già stanziate e non utilizzate, disponendo – se non la proroga al triennio con il rafforzamento delle aliquote – quanto meno un allungamento di tutti i termini di un anno, ma da subito.
I contenziosi con l’Agenzia delle Entrate
E poi c’è un altro elemento su cui è necessario agire immediatamente. Nel Decreto Rilancio era stata inserita una norma che sanava la posizione di chi, negli scorsi anni, ha fruito “indebitamente” del credito d’imposta per le attività di Ricerca e Sviluppo. La questione è nota: l’Agenzia è intervenuta, con qualche ritardo, con interpretazioni stringenti sull’applicazione dell’incentivo. E così imprese che pensavano di poter fruire legittimamente della misura si sono viste recapitare accertamenti.
La norma nel Decreto Rilancio metteva fine, con intelligenza, a questi contenziosi, prevedendo che si restituisse l’incentivo, senza sanzioni, interessi e (soprattutto) conseguenze penali. Una norma di grande buon senso che, però, è stata stralciata negli ultimi, convulsi giorni prima del varo del Decretone. E stavolta non c’entrano le ragioni di bilancio, perché l’impatto della norma sulle casse dello Stato era irrisorio. Sarebbe auspicabile che ora si sfruttasse la prima finestra legislativa possibile, magari già la conversione in legge del Decreto, per riproporre questa norma. È una questione, in primo luogo, di fiducia nel rapporto tra imprese e Stato.