Il dibattito attorno all’Industry 4.0, e alle evoluzioni connesse nel mondo manifatturiero, corre parallelo a quello su un tema molto “scottante”: il lavoro. L’automazione e l’integrazione dei sistemi che rendono la fabbrica intelligente, “sensibile”, capace di adattarsi e, in qualche modo, di “agire da sola” – salvo il necessario controllo e monitoraggio – porterà via il lavoro a schiere di operatori, capi reparto, conduttori di macchine, tecnici e manager a loro dedicati? Questa domanda è su molti tavoli.
Anche questo portale, Innovation Post, per bocca dello stesso responsabile, il mio amico Franco, ha affrontato il tema. Lo ha fatto (anche) con un tocco di ironia e stimolando un’osservazione: quando parliamo di lavoro e automazione, ci dice Franco, stiamo ai numeri, alla realtà. Questi, almeno per ora, non sono in grado di definire con chiarezza cosa succederà. Come sempre possiamo fare previsioni e, in funzione dei nostri legittimi interessi o schemi di interpretazione della realtà, pensare che l’automazione “spinta” sia un’occasione di crescita, oppure la causa della prossima crisi del lavoro.
Io ho un’opinione in merito, ma la tengo per me. Quello che mi interessa portare all’attenzione del lettore è altro: partendo dalla portata della rivoluzione in corso, e dalla capacità che abbiamo di comprendere fenomeni complessi e intersecati (non ci porremmo il tema del lavoro connesso alla tecnologia, se non fosse così), credo che gestire al meglio il presente passi dallo smettere di essere parziali per aumentare la consapevolezza della portata delle nostre azioni e della dose di responsabilità che dobbiamo assumerci.
Cerco di spiegarmi: il fenomeno dell’Industry 4.0 non può essere affrontato solo dal punto di vista tecnologico, solo dal punto di vista del lavoro, solo dal punto di vista economico, solo dal punto di vista del proprio settore produttivo.
Tutte queste sfere sono connesse e le decisioni prese è necessario che tengano in considerazione tutte le conseguenze. Perché?
Da un punto di vista “valoriale” perché dobbiamo smettere di nascondere la testa nella sabbia facendo finta di non sapere che sia così. Le scelte tecnologiche hanno derive (alcuni le chiamerebbero “esternalità”) in altri ambiti e, di conseguenza, dobbiamo estendere l’attenzione dal nostro interesse verso gli effetti che produrremo anche altrove.
Da un punto di vista “economico” perché questa attenzione estesa… conviene. Fare scelte “ad ampie vedute” genera non solo un ritorno monetario (attraverso la cooperazione tra aziende, ad esempio), ma anche in termini di reputazione, dimostrando interesse verso le dinamiche che ci riguardano e una verace volontà di interagirvi.
Tali scelte convengono, inoltre, alla comunità nella quale l’impresa opera, che si trova ad interloquire con un soggetto aperto e disponibile, verso il quale dirigere competenze e attenzioni (anche a livello istituzionale). Buona reputazione e buone relazioni, in fin dei conti, sono vettori del successo economico.
Un esempio? Un’azienda che affronta un percorso di automazione potrebbe aumentare la produttività grazie alla tecnologia e, contestualmente, ridurre l’esigenza di operatori non specializzati che (mi sia perdonato, per me è aberrante definirli così) diventano costi. Che cosa può fare l’impresa? Siccome lo sa – o lo può prevedere – può sostenere un percorso di formazione per quelle persone, finanziando la riqualificazione delle competenze. Può offrirsi di cercare lavoro per conto dell’operatore. Può relazionarsi con altri soggetti del territorio e, mettendo a fattor comune le esperienze e le competenze necessarie allo sviluppo del proprio “distretto”, attivare sinergie tra imprese e progettare nuovi percorsi di sviluppo che integrano “la manodopera in eccesso”. La cooperazione che si sostituisce alla mera competizione funziona, questo è provato. Come in agricoltura, terreni vicini con caratteristiche differenti sono più fertili.
Questi comportamenti di responsabilità sociale sono esattamente i vettori del successo economico di cui si parlava prima. Un successo costruito, però, non solo sul fattore tecnologico, ma su tutte (o quasi) le leve che regolano le relazioni di un’impresa di produzione con il territorio in cui opera e gli interlocutori con cui si relaziona.
Alcune delle azioni “suggerite”, si dirà, spettano alle istituzioni. E’ vero, ma è solo il tessuto imprenditoriale a conoscere così bene se stesso, da poter attivare comportamenti che, mettendo a fattor comune le esperienze, generano bene comune: per l’impresa e per le persone.
In un momento in cui l’incertezza sugli scenari è alta, le trasformazioni tecnologiche offrono grandi opportunità (inclusa quella di lavorare meno, ma questo è un altro discorso) come prendersi responsabilità estese e, semplicemente, attivare comportamenti che altro non sono che il naturale compimento della missione di un soggetto sociale complesso come le imprese: dar vita a progetti, generare opportunità, costruire valore economico e ridistribuirlo.
Diciamo che fino ad oggi questi comportamenti hanno guardato al particolare. E’ sempre legittimo, si dirà. Certo. Ma è guardando oltre al proprio per vedere cosa c’è attorno ed è sviluppando sinergie con scelte responsabili ad ampio spettro che, da un lato si governa un processo di gran portata come l’Industry4.0, dall’altro si compie un passo avanti come impresa e come uomini.
Alberto Marzetta
Alberto Marzetta da quasi 20 anni è un professionista attivo nel mondo delle relazioni pubbliche e della comunicazione d’impresa. Gli ultimi 10 li ha passati comunicando il mondo manifatturiero, approfondendo gli aspetti della CSR, la responsabilità sociale di impresa, con un occhio di riguardo alle forme di economia innovativa e alla connessa innovazione sociale.