La crisi economica legata alla gelata improvvisa dell’economia portata dalla pandemia ha già prodotto effetti rilevanti sulle dinamiche occupazionali. Pur in presenza di un blocco di legge dei licenziamenti, che in qualche modo ha determinato una sospensione degli effetti reali della crisi, le dinamiche già in essere sul mercato del lavoro stanno risentendo chiaramente della recessione, con accentuazioni marcate e per molti versi originali anche rispetto le precedenti crisi di questo travagliato secolo.
Ad essere particolarmente degna di nota è la biforcazione fra la maggioranza delle imprese, che manifesta reazioni “conservatrici” in termini di scelte occupazionali, e un crescente drappello di imprese più dinamiche e innovative che, anche in presenza di condizioni sistemiche sfavorevoli, sembra orientato ad approfondire la propria trasformazione digitale mediante investimenti anche nel capitale umano, indispensabile “software” per consentire alle tecnologie di produrre i loro effetti.
Si tratta dunque di un dato di complessa e non univoca lettura, ma che deve fare riflettere per le conseguenze, in una fase recessiva, in termini di approfondimento dello iato fra imprese dinamiche e imprese meno attrezzate a fronteggiare le crisi e il cambiamento, soprattutto digitale.
La permanenza di una risposta occupazionale in maggioranza “conservatrice” traspare soprattutto dal brusco calo tanto dell’occupazione giovanile, che al terzo trimestre 2020 segna un calo del 6,0%, che di quella femminile (-3,5%). Entrambe, connotano un quadro di caduta verticale degli impieghi a tempo determinato (-14,1%) e del lavoro indipendente (-4,1%), a riprova di un serrare i ranghi delle imprese di fronte alla crisi.
Il primo segnale difforme dalle dinamiche tutte negative delle precedenti crisi economiche viene dalla sostanziale tenuta, addirittura con un contenuto aumento, dell’apprendistato: a ottobre 2020 il saldo annualizzato per gli apprendisti è positivo per 7 mila unità, a fronte di una riduzione di saldi negativi per 454 mila per i contratti a termine e per 377 mila unità per i contratti stagionali, somministrati, intermittenti che, essendo solo in parte bilanciati dal saldo positivo di 161 mila rapporti a tempo indeterminato, generano un saldo negativo di 662 mila posizioni.
Soprattutto, permane una difficoltà di reperimento di figure specializzate a tassi mai visti in tempi di crisi, certamente non nelle recessioni del 2009 e del 2013.
Nel 2020 la difficoltà di reperimento di personale sale di 3,3 punti, arrivando al 32,3% delle entrate previste dalle imprese, in una misura che non ha precedenti nelle recessioni Alla nostra lettura questo testimonia che non solo non tutte le imprese, anche in settori simili, hanno contratto la propria attività, ma che alcune stanno evolvendo e richiedono nuovo capitale umano adeguatamente formato per accompagnare proprio questi processi di crescita, innanzitutto digitale.
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La digitalizzazione forzata
Volendo sottoporre questa ipotesi ad un’ulteriore verifica, i dati dell’ultima Elaborazione Flash ‘Lavoro e MPI, skills, trasformazione digitale e green ai tempi di Covid-19’ dell’Ufficio Studi di Confartigianato mostrano con assoluta evidenza come la spinta alla digitalizzazione da parte delle imprese abbia avuto con il Covid un’accelerazione senza precedenti.
Il report di Confartigianato, elaborando i risultati di una recente indagine dell’Istat, evidenzia che nell’emergenza sanitaria alcune tecnologie digitali vedono triplicare l’intensità di utilizzo da parte delle micro e piccole imprese (MPI): l’utilizzo di applicazioni di messaggistica e di video-conferenza passa dal 10,6% delle imprese tra 3 e 49 addetti nella fase pre-Covid al 30,7%, mentre servizi digitali come newsletter, tutorial, webinar, corsi, ecc., che erano forniti dal 7,7% delle imprese, con l’introduzione da parte del 13,2% di micro piccole imprese, sono resi disponibili dopo l’emergenza dal 20,9% delle MPI. Anche per le applicazioni software più specialistiche per la gestione condivisa di progetti, utilizzate in precedenza da una quota più limitata (5,7%) di MPI, risulta triplicata la loro diffusione, che arriva al 18,2% (+12,5 punti percentuali).
Per altri tool digitali raddoppia l’utilizzo da parte delle MPI nel corso dell’emergenza: la comunicazione con la clientela attraverso i social media, già presente nel 21,9% delle micro e piccole imprese, è stata introdotta, migliorata o ne è prevista l’implementazione il prossimo anno da un ulteriore 17%, portando al 38,9% la quota di MPI attive su questo canale. Si amplia la diffusione degli investimenti finalizzati a migliorare la qualità e l’efficacia del sito web – quali SEO, utilizzo di web analytics, paid search, ecc. – che erano presenti prima dell’emergenza nel 10,7% delle micro-piccole imprese, sono divenuti pratica comune per un altro 12,4%, portando al 23,1% la quota di micro e piccole imprese attivate. Si raddoppia anche il grado di diffusione delle imprese che vendono mediante la Rete: le vendite di e-commerce tramite il proprio sito web, già presente nel 9% delle MPI prima dell’emergenza, sono utilizzate dal 17,2% delle MPI (+8,2 punti percentuali tra miglioramenti e nuova introduzione entro il prossimo anno). In parallelo la quota di MPI attive nella vendita mediante comunicazioni dirette (es. e-mail, moduli online, Facebook, Instagram, ecc.) sale dal 15,6% pre emergenza, al 27,8% (+12,2 punti). L’intensificazione delle vendite tramite la Rete amplia la quota di imprese che gestiscono vendite on line con consegne in proprio, passando dal 5,5% pre emergenza all’attuale 14,2% (+8,6 punti).
Le imprese hanno digitalizzato per rimanere sul mercato, offrendo i propri prodotti e servizi a una clientela costretta a rimanere a casa o comunque a ridurre drasticamente la propria mobilità, e ancora di più dovranno farlo per recuperare le performance dei livelli pre-crisi. I numeri mostrano infatti una correlazione sempre più diretta e stringente fra la trasformazione digitale e il recupero di performance. La velocità del ripristino di livelli di attività pre Covid-19 è correlato con il coinvolgimento dell’impresa nella trasformazione digitale: l’analisi dei dati di Unioncamere-Anpal evidenzia che nell’autunno del 2020 il 51,9% delle imprese digitali – le quali hanno adottato piani di investimenti integrati tra i diversi ambiti della trasformazione digitale – ha recuperato i livelli pre-crisi, a fronte del 48,8% delle imprese in transizione digitale, con piani di digitalizzazione non integrati tra i diversi ambiti e al 45,3% per le imprese che non hanno adottato piani di digitalizzazione.
Il nodo delle competenze
Questo sprint alla digitalizzazione si scontra però, come abbiamo visto, con le difficoltà di reperire figure professionali in grado di accompagnare le imprese al cambiamento apporto competenze che siano insieme settoriali e digitali. Il tema delle competenze e delle persone rappresenta così il limite più forte per la crescita e la modernizzazione del sistema produttivo.
Come spesso accade però, soprattutto le micro e piccole imprese danno nei momenti di crisi straordinaria prova di flessibilità e capacità di adattamento. È quanto emerge dall’incrocio, proposta nell’analisi dall’Ufficio Studi di Confartigianato, fra la crescita impetuosa della digitalizzazione delle MPI e la parallela crescita delle imprese micro e piccole di servizi digitali. A metà 2020 le imprese digitali – operanti nei settori dei servizi internet, realizzazione di portali web, produzione software e commercio elettronico – sono 134 mila e nell’ultimo anno crescono del 3,3%, in controtendenza rispetto al calo dello 0,4% osservato per il totale delle imprese; anche le imprese digitali artigiane si registra una robusta crescita (+2,2).
Quali policy?
Si tratta di un’ipotesi di lavoro, che potrebbe essere ulteriormente verificata qualora si potesse disporre di opportune elaborazioni di big data generati dalla fatturazione elettronica – un processo concretamente possibile grazie alle eccellenze di capitale umano, di know-how e tecnologia disponibili presso le Amministrazioni pubbliche che trattano i dati d’impresa, come il Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle entrate e l’Istat – grazie alle quali si potrebbe descrivere, in modo innovativo, la struttura delle filiere produttive e l’interdipendenza tra imprese. Già oggi risulta però evidente come i limiti di sviluppo dell’impresa legati alla mancanza di competenze abbiano trovato risposta nell’accentuarsi della reticolarità e della porosità dei confini stessi dell’impresa.
È un dato molto significativo, soprattutto perché gravido di conseguenze di policy anche alla luce di passaggi molto rilevanti per le politiche d’innovazione delle imprese come la ripartenza di Transizione 4.0, il lancio degli European Digital Innovation Hub e il PNRR.
Le imprese sono in grado di trovare adattivamente e sul mercato quelle condizioni sistemiche che ne garantiscono la competitività. Compito del legislatore non è dunque quello di forzarne l’adesione a modelli ideali privi di riscontri, penso all’insistenza sul trasferimento tecnologico e su strumenti come i dottorati d’impresa, dei quali le MPI non hanno che fare.
Una strada ben più efficace sarebbe invece quella di accompagnare questa capacità di adattamento, investendo risorse sul sostegno alle imprese (e agli imprenditori) per individuare le soluzioni e le tecnologie più adatte ed efficaci alle singole esigenze, mettendo poi a disposizione risorse anche contenute ma di semplice accesso per poterle testare e implementare.
In questo modo si permetterebbe a un mercato di servizi di crescere e irrobustirsi, garantendo al contempo una crescita dell’innovazione diffusa, altrimenti impensabile “a tavolino”.