Il settore della moda, comprensivo di pelletteria e accessori, è la seconda industria, dopo quella petrolifera, maggiormente “insostenibile”, dove per sostenibilità si intende il rispetto non solo dell’ambiente, ma anche delle condizioni lavorative, dei diritti umani e del tessuto sociale.
I numeri sono impietosi se si guarda all’impatto ambientale procurato da ogni anello della catena di valore: i dati Unece raccontano, ad esempio, che per 1 chilogrammo di cotone (pari a un paio di jeans) vengono utilizzati 20.000 litri di acqua, ma il tema riguarda gli agenti chimici, i pesticidi, le emissioni, gli scarti di lavorazione. Stessa sorte per il reclutamento della manodopera e il rispetto dei diritti umani, troppe volte calpestati soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove la tragedia del Rana Plaza e il lavoro minorile passeranno alla storia come la nuova schiavitù.
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Fashion, sostenibilità uguale innovazione
Negli ultimi anni la rilevanza e l’urgenza della sostenibilità nella moda si sono riflesse anche nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite con i suoi diversi obiettivi sostenibili, e hanno ispirato una serie di standard internazionali, tra i quali i GS1, il Global Organic Textiles Standard (GOTS) e di linee guida (Unece, Ocse), che stanno assumendo un rilievo sempre maggiore data l’attenzione del mondo della finanza per gli investimenti responsabili rispondenti a criteri ESG (Enviroment/Social/Governance) e CSR (Corporate/Social/Responsability).
I movimenti di protesta e di sensibilizzazione di associazioni e gruppi attivisti sono ormai su scala internazionale, le iniziative di supporto ai temi della sostenibilità promosse da enti pubblici e privati, da ultimo anche dai grandi brand globali, sono diventate ormai massive sia per un sincero approccio al cambiamento del sistema, sia semplicemente per operazioni di greenwashing. L’ostacolo più rilevante di un processo di conversione “sostenibile” dell’industria della moda è rappresentato dalla necessità di una trasformazione di modelli di business a oggi evoluti solo con l’obiettivo di maggiori quote di mercato; una rivoluzione copernicana dai costi ingenti che rischia di essere una chimera soprattutto per i brand del lusso, mentre sicuramente più a portata di mano per quelli in fase di startup o emergenti. Sicuramente, la sostenibilità del fashion non può prescindere dall’innovazione tecnologica, che impatta su tutte le diverse fasi della value chain in termini di ricerca di materiali sostenibili (c.d. material revolution), soluzioni tese al risparmio energetico, politiche ambientali, tracciabilità della catena di fornitura, tutela dei consumatori, allungamento della vita del prodotto e gestione del “fine vita” del prodotto (waste end).
Le tecnologie nell’intero ciclo di vita del prodotto
Allo stato le tecnologie in uso, in parte in stato sperimentale e in parte ormai consolidate, sono implementabili nell’intero ciclo di vita del prodotto, fin dalla fase del disegno e della realizzazione di campioni e prototipi mediante soluzioni CAD 3D, tecnologie di stampa digitale e stampa 3D in tessuto e/o materiali. La fase della produzione è quella maggiormente da innovare sia in termini di materiali, che di processi, che di over-produzione ormai disfunzionale. L’attività di R&D è il fulcro per lo sviluppo di sistemi basati sull’utilizzo di materiali innovativi e sintetici e su quello limitato o sulla totale rimozione di sostanze/materiali nocivi. I materiali innovativi, come nano-materiali, materiali biodegradabili o con fibre organiche o vegetali, la cui offerta è aumentata negli ultimi anni, sconta un costo di produzione ancora rilevante che ne scoraggia l’uso in maniera diffusa. Un modello di business volto alla economia circolare deve partire da processi produttivi capaci tecnologicamente di ri-usare o riciclare scarti di produzione e/o stock di magazzino.
Stando ai dati della Ellen Mac Arthur Foundation, l’industria mondiale della moda produce circa 53 milioni di tonnellate di fibre ogni anno, di cui più del 70% finisce nelle discariche o nei falò. Meno dell’uno per cento viene riutilizzato per produrre nuovi vestiti. L’automatizzazione dei processi di produzione rappresenta sicuramente una soluzione per razionalizzare il ricorso a materie prime derivanti da risorse non rinnovabili, di difficile attuazione considerata la frammentazione della supply chain, perchè caratterizzata da una molteplicità di attori con differenti sistemi di produzione, con diverse localizzazioni che provocano l’opacità della catena di fornitura. La tracciabilità della materia prima, del prodotto semi-lavorato e del prodotto finito mediante blockchain costituisce un rimedio per controllare l’intera filiera dalla provenienza dei materiali, monitorando i processi di fornitura, ai canali di distribuzione e di vendita al dettaglio fino alla gestione del magazzino e al second hand, con la massima garanzia di trasparenza, considerata l’immodificabilità delle informazioni registrate su blockchain.
Inoltre, a supporto della tracciabilità dei prodotti, soprattutto nella fase retail comprensiva della gestione del venduto e dell’invenduto, vi sono tecnologie di identificazione con rilevamento in tempo reale mediante dispositivi IoT, che vanno dai noti sistemi Rfid, Epc, Nfc alle “etichette intelligenti” di ultima generazione che inviano informazioni a data base, dove è possibile identificare e tracciare il ciclo vitale del prodotto. L’etichettatura intelligenze diventa, inoltre, garanzia del consumatore in termini di autenticità del prodotto, che viene associato a codici identificativi che ne provano l’origine e l’eventuale vendita fuori canale. Il retail, anch’esso teoricamente tracciabile con blockchain, grazie all’innovazione diventa un anello prezioso della catena del valore capace di raccogliere dai consumatori dati (big e small data) fondamentali per gestire l’over-produzione attraverso l’omnichannel e sistemi predittivi.
AI, machine learning, deep learning per ottimizzare le vendite
Il “buy less–choose well”, mantra di Vivienne Westwood, pioniera della moda sostenibile, rappresenta quel consumo responsabile, sempre più frequente nei consumatori soprattutto millennials e generation Z, che sta imponendo un cambio di rotta dei brand: Good On You e Buycott sono tra le più note applicazioni che permettono al consumatore di individuare prodotti etico/sostenibili. I brand rispondono a questo cambiamento del mercato con l’adozione di proprie piattaforme digitali munite di algoritmi di ottimizzazione delle vendite che permettono l’utilizzo di sistemi di personalizzazione, customizzazione del prodotto o vendita on demand mediante artificial intelligence, machine learning e deep learning. Queste soluzioni in linea di principio dovrebbero razionalizzare le produzioni con un cambio dei business model, di cui non è dato conoscerne la scalabilità anche considerata la tendenza bulimica alle continue capsule, che potrebbero impattare in senso inverso su un modello di business più selettivo e maggiormente sostenibile. Il proliferare su scala internazionale di campagne di stampa in chiave di sostenibilità e indici di misurazione della eticità dei marchi (non si sa quanto veritieri e oggettivi) hanno per sbocco una tendenza ormai consolidata se si pensa a piattaforme multi-brand quali Asos e The Iconic, che hanno introdotto nei propri “filtri” di ricerca i materiali riciclati, o Farfetch che presenta una linea di prodotti, la Conscious Edit, dove seleziona solo capi di brand eco-friendly.
Nel momento in cui la sostenibilità nella moda sarà un imperativo, dettato da norme anche regolamentari a livello nazione e sovranazionale, l’innovazione dei processi e della catena del valore non potrà che essere l’unica reale risposta dei brand per diventare realmente sostenibili.