Dalle Tesla all’industria 4.0: perché le interfacce uomo-macchina vanno ripensate

Fin dagli anni ’80 si discute della necessità che le interfacce uomo-macchina siano adeguate ai processi cognitivi dell’operatore. A quasi 40 anni di distanza il problema è ancora attualissimo non soltanto se si pensa ai sistemi di guida semi automatica, ma anche a quanto accade nelle fabbriche automatizzate.

Pubblicato il 05 Giu 2018

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La società sta evolvendo sempre più verso un modello in cui le funzioni di comando e controllo sono deputate alle macchine, lasciando all’uomo il ruolo di supervisore dei sistemi. Accade nel settore dei trasporti, per esempio, ma anche in quello industriale. In un articolo comparso sul Sole 24 Ore di domenica 3 giugno, intitolato “Il dilemma dell’automazione”, Paolo Pretto, responsabile della ricerca sul fattore umano di un centro di ricerca austriaco sul futuro dell’auto e delle ferrovie, sostiene che “nella progettazione delle macchine spesso si bada più a fattori economici piuttosto che alle caratteristiche e alle abilità degli esseri umani che devono gestirle”, mentre “la sfida è progettare un’interfaccia capace di fornire informazioni sufficienti all’operatore umano ignaro di quello che sta accadendo e allo stesso tempo di indurre una risposta rapida, evitando il sovraccarico d’informazioni, che può bloccare una reazione efficace”.

La tesi è che, per assurdo, meglio funziona l’automazione e più è probabile che gli umani non siano in grado di intervenire se necessario, a causa di un deficit di attenzione e di inadeguatezza delle interfacce. In sostanza – spiega l’articolo – le prestazioni dell’automazione e le prestazioni dell’interazione umana sono inversamente proporzionali. Pretto conclude che è necessario “indagare a fondo i processi mentali alla base dell’interazione uomo-macchina e integrarli nella realizzazione dell’interfaccia”.

La “automation complacency”, un problema noto da decenni

Come rileva Marco Lovera, professore del Politecnico di Milano che si occupa di impianti e sistemi aerospaziali, “il problema è noto da decenni”. Lo testimonia, ad esempio, uno studio di Lisanne Bainbridge del 1983 intitolato “Ironies of automation” nel quale l’autore spiega che “è impossibile anche per un individuo altamente motivato mantenere un’efficace attenzione visiva su una fonte di informazione nella quale non accade gran che anche per oltre mezz’ora”, concludendo che i compiti di monitoraggio mal si confanno alla struttura mentale dell’uomo. Con una aggravante: quando un sistema  di automazione funziona per un lungo periodo di tempo senza che si verifichino problemi, l’uomo è portato a fidarsi troppo dell’automazione (il fenomeno è stato più tardi definito dallo psicologo Robert Helmreich “automation complacency”) e a perdere la capacità di intervenire manualmente (ammesso che ne sia ancora capace) quando richiesto.

“Se in campo aeronautico le “ironies” si stanno manifestando come previsto dal paper – aggiunge Lovera – la cosa importante è che l’automazione ha contributo a migliorare significativamente la sicurezza”.

Dall’auto automatica ai sistemi di controllo industriale

Il tema è di scottante attualità non soltanto per i recenti episodi che hanno visto protagonisti i sistemi a guida semi-automatica (Tesla docet), ma anche per la crescente tendenza all’automazione nelle industrie, dove le funzioni di controllo sono ormai da diversi decenni delegate all’intelligenza di macchina. Qui gioca un ruolo cruciale la necessità di sviluppare delle interfacce uomo-macchina che siano progettate con la consapevolezza di queste “ironies of automation”.

“Sia nelle azioni di controllo che nell’analisi dei dati si sta verificando un passaggio di consegne da uomini a macchine che rischia di rendere le prossime generazioni più pigre e meno capaci di pensieri autonomi e innovativi”, rileva Massimiliano Veronesi, ingegnere di Yokogawa – uno dei maggiori costruttori di sistemi di controllo industriale – e membro del consiglio direttivo di Anipla, l’associazione italiana per l’automazione. “Per questo è di fondamentale importanza il ruolo cardine rappresentato dall’interfaccia uomo-macchina per presentare i dati e le situazioni in modo che ciascuno dei due elementi (umano e automatico, ndr) possa affrontare il compito che sa svolgere meglio”.

L’importanza di sistemi ergonomici sul piano cognitivo

Se da un lato l’evoluzione delle tecnologie, e di conseguenza del ruolo dell’operatore, rende indispensabile rivedere l’ergonomia delle interfacce, facendo in modo che siano progettate al servizio di chi quegli impianti deve effettivamente monitorarli; dall’altra parte è necessario che gli uomini si dotino di nuove competenze ad ampio spettro, che partano da una conoscenza del processo, ma che includano anche elementi nuovi che consentano loro di acquisire quella “situational awareness” ormai indispensabile sia nei compiti di monitoraggio che di analisi.

“Molte delle analisi di incidente degli ultimi decenni, condotte da organismi non di parte, hanno concluso che gli operatori umani, preposti alla manovra/supervisione del processo, hanno reagito in modo non corretto agli eventi per un insieme di fattori psicologici difficilmente riconducibili ad una spiegazione di causa-effetto”, spiega Michele Maini, ingegnere consulente in automazione che da diversi anni si interessa di questo argomento e che terrà il prossimo 6 giugno all’Università di Brescia un seminario intitolato “Una sfida di ricerca nel controllo di processo: Il modello comportamentale dell’operatore umano”. “A partire da alcuni incidenti che hanno svolto un ruolo scatenante, si è perciò sviluppata una serie di studi di alto livello che hanno portato a spostare l’attenzione dei progettisti dei sistemi di controllo/supervisione sul comportamento reale dell’operatore umano, mettendo in evidenza che, per tale ambizioso obiettivo, non bastavano più le classiche conoscenze di ingegneria dei sistemi, ma occorreva coinvolgere conoscenze e competenze di psicologia cognitiva, sociologia, neurofisiologia, dando così luogo ad una vera e propria nuova disciplina scientifica”.

Maini è sostenitore della necessità di definire “un indice di carico mentale (ML) nei diversi tipi di impianto” ed è convinto assertore della necessità di introdurre un “progetto ergonomico del sistema di interfaccia operatore-processo che abbia come linea-guida il modello comportamentale dell’operatore umano derivato dal fondamentale lavoro di Rasmussen, confermato ed aggiornato dalle esperienze successive”. Di potenziale utilità per l’operatore a giro su impianti complessi  potrebbero inoltre essere anche nuove tecnologie, come ad esempio i dispositivi indossabili. Non ultima, infine, la necessità di “attivare presso una Università una Borsa di studio sul tema e creare un primo nucleo di competenze specifiche”.

Al partito dei fiduciosi sulle opportunità offerte dalle nuove tecnologie si iscrive anche Marco Bentivogli, segretario della FIM-CISL, che commenta: “In realtà nella fabbrica fordista nella gerarchia uomo-macchina era il primo ad avere la peggio. Architetture industriali intelligenti daranno spazi di progettazione, settaggi intelligenti, orientamento all’intero processo. In qualche modo la gerarchia si ribalta”.

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Franco Canna
Franco Canna

Fondatore e direttore responsabile di Innovation Post. Grande appassionato di tecnologia, laureato in Economia, collabora dal 2001 con diverse testate B2B nel settore industriale scrivendo di automazione, elettronica, strumentazione, meccanica, ma anche economia e food & beverage, oltre che con organizzatori di eventi, fiere e aziende.

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