A chi da decenni studia le dinamiche attraverso cui si formano e si aggregano le catene del valore, sono evidenti una serie di modificazioni strutturali sempre più marcate e rapide, che hanno caratterizzato l’evoluzione delle supply chain negli ultimi decenni, ben prima del dirompente effetto della pandemia che stiamo vivendo ormai da più di 1 anno.
Il più antico tra i fenomeni sui quali si vuole portare l’attenzione è quello della deverticalizzazione, nato forse una ventina di anni fa, quando, in particolare nel settore automotive, ci si accorse che si possono progettare molti modelli, anche apparentemente diversi, impiegando il medesimo pianale, propulsore e power-train, attraverso una sapiente revisione estetica dei soli componenti a vista del cliente. Il ridisegno in ottica modulare delle gamme prodotto, ispirato dalla logica delle “piattaforme” ha progressivamente consentito di rivedere le reti di fornitura e con esse il confine tra produzione interna e fornitura. Ciò ha consentito in molti settori una spettacolare riduzione della complessità di fornitura, passando dalle molte centinaia di fornitori, ad alcune decine di fornitori di primo livello, ciascuno dei quali si fa carico di una sotto-rete di qualche decina di fornitori “second-tier” e così via. Questo fenomeno si è trasmesso ad altri settori, contagiando la produzione di altri beni durevoli di consumo, ed anche qualche produzione di beni strumentali.
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L’effetto della globalizzazione e l’evoluzione delle attività per i fornitori
Il fenomeno di gran lunga più visibile e dirompente è invece stato quello della globalizzazione. Spinte dalla ricerca di nuovi mercati così come dall’esigenza di ottenere vantaggi competitivi (non solo, ma soprattutto, di costo), le imprese hanno progressivamente sviluppato le proprie attività di fornitura, produzione e vendita a livello sempre più planetario. Ma globalizzare non ha voluto solo dire cercare i fornitori più convenienti su scala mondiale anziché locale o nazionale, oppure aprire fabbriche in aree a basso costo della manodopera. Ha soprattutto significato terminare una fase di confortante “torpore” geografico, per entrare in un periodo enormemente più dinamico, in cui alla fase del cosiddetto offshoring, è seguito un altrettanto rapido fenomeno dinextshoring, reshoring, o addirittura backshoring. Siete rimasti storditi da tutti questi termini anglosassoni? Ecco alcune spiegazioni:
L’impatto del Lean thinking sulle catene di fornitura
Un’altra linea di sviluppo su cui molte imprese manifatturiere hanno lavorato moltissimo è nata in Giappone negli anni 80 presso la Toyota, ed è diventata di dominio pubblico con il famoso libro “The machine that changed the world” attraverso cui Womack e Jones fin dal 1991 hanno illustrato ai produttori occidentali la filosofia e le tecniche lean impiegate con successo dalla nota Casa Automobilistica e da altre aziende giapponesi. L’applicazione massiccia e su scala planetaria del lean thinking (anche se ha assunto nomi diversi in aziende diverse, quali: world class manufacturing, oppure just-in-time) ha progressivamente portato a catene del valore snelle, veloci, ed a “flusso teso”, quindi con pochissimi stock. Un altro effetto dell’applicazione della filosofia lean è stato quello di privilegiare le partnership di fornitura rispetto alle relazioni di mercato, ossia di passare dal multiple–sourcing in cui si tengono attivi per ciascun bene approvvigionato diversi fornitori posti in concorrenza tra di loro al single sourcing che invece suggerisce di entrare in partnership con un solo fornitore per ogni categoria merceologica di beni approvvigionati, il migliore.
Dalla coda lunga al co-design
Nel frattempo, si stava progressivamente realizzando una trasformazione epocale dei mercati: i clienti, sempre meno soddisfatti dal massificante Taylorismo industriale e della conseguente standardizzazione estrema dei prodotti consumati, hanno iniziato a richiedere sempre maggiore varietà e personalizzazione. Il fenomeno derivante fu descritto per la prima volta da Chris Anderson nel 2004 come “la coda lunga”. Semplificando, Anderson si accorse che l’analisi di Pareto, da sempre fedele amica del logistico, cominciava a perdere di rilevanza, tanto in quanto i prodotti speciali, particolari, specifici, di nicchia continuavano ad aumentare di rilevanza rispetto a quelli “standard”. Non necessariamente in quanto acquisivano volumi, ma soprattutto tanto in quanto aumentavano sempre più di varietà, e di marginalità, mentre la marginalità gli articoli standard veniva progressivamente erosa fino a raggiungere valori pressoché nulli.
E naturalmente, operare in un ambito competitivo dominato dal fenomeno della coda lunga vuole dire non solo offrire una gamma prodotti sempre più ampia e diversificata, ma anche doverla continuamente modificare nel tempo, sviluppando processi di innovazione sempre più rapidi, snelli ed efficaci, risultati questi frequentemente ottenuti –tra l’altro- applicando il lean thinking al processo di sviluppo del nuovo prodotto e facendo leva tramite la modularizzazione della gamma produttiva e la conseguente deverticalizzazione sui fornitori di primo livello con processi collaborativi che vennero denominati “codesign”. Appare chiaro ora il filo rosso che congiunge in un continuum coerente ed organico tutte le diverse innovazioni che si sono succedute dagli anni ’90 e fino ad oggi, in un trentennio densissimo di sviluppi.
L’effetto pandemico sulle forniture globali
Il combinato disposto di queste trasformazioni ha portato ad ottenere vantaggi immensi, riducendo i costi di approvvigionamento e produzione, ampliando le gamme dei prodotti posti in vendita, accorciando i tempi di fornitura senza necessariamente aumentare e frequentemente anzi riducendo gli stock. Apparentemente tutto bene, quindi… per lo meno finché sulla tavola del mondo non è comparso, commensale quanto mai inatteso e sgradito, il Coronavirus COVID-19. La pandemia provocata dal virus ha generato una serie di perturbazioni globali di impatto assolutamente inedito, iniziate con il lungo lock-down imposto alla produzione nella regione cinese di Wuhan, uno dei cuori produttivi del mondo, e seguito dal successivo lock-down di molti Paesi Europei (Italia in testa) e poi dagli analoghi rallentamenti negli Stati Uniti ed in America Latina. È evidente che gli stop subiti dalle produzioni nelle diverse regioni del mondo hanno messo in difficoltà, a macchia di leopardo, le forniture globali, provocando anche forti restrizioni ed oscillazione dei prezzi dei trasporti aerei e marittimi tra la Cina ed i principali mercati occidentali (Nord America ed Europa in testa). Ma al tempo stesso la situazione di emergenza sanitaria, le conseguenti restrizioni imposte alla libera circolazione delle persone e delle merci e le misure di distanziamento disposte hanno determinato una forte riduzione nella domanda di alcuni generi (ad esempio viaggi e vacanze, abbigliamento, ristorazione, autoveicoli) che ha portato alla crisi delle relative catene del valore, mentre ha spinto moltissimo altre filiere produttive, come quella agroalimentare, quella sanitaria, e quella dell’intrattenimento digitale.
Venti anni di cambiamento e di hype tecnologici
Se, quindi, la pandemia è stata quello che potremmo definire, rubando le parole ad un discusso leader politico del recente passato, “la madre di tutte le perturbazioni”, a ben guardare, l’intero primo ventennio del ventunesimo secolo è stato ricco di perturbazioni locali e globali: dalle torri gemelle all’eruzione di un vulcano islandese, dalla crisi finanziaria “di Lehman Brother” allo tsunami di Fukushima, e dalle terre costantemente bollenti del medio oriente alle imprudenze di Putin in Crimea. Ma non è tutto, perché non ci dobbiamo dimenticare dei tanti “hype” tecnologici dei quali siamo stati recentemente testimoni: dalla famosa presentazione dell’iPhone da parte di Steve Jobs nel 2007, che ha aperto la strada alla rivoluzione mobile, alla crescita spettacolare dei sensori internet-of-things, dalla stampa 3d all’industria 4.0, dall’economia circolare alla platform economy ed alla sharing economy, e via evolvendo. Ciascuna di queste rivoluzioni tecnologiche ha portato con sé nuovi gadget più o meno utili, ma soprattutto ha abilitato nuovi modelli di business che hanno cambiato, forse per sempre, lo scenario competitivo, ma anche le abitudini di vita ed i consumi. E l’evoluzione è in marcia sempre più veloce: osserviamo ad esempio come sta cambiando in maniera radicale il principale settore di business mondiale, quello dell’automobile, dove si stanno affermando contemporaneamente due linee di sviluppo con fortissimo potenziale trasformativo, come i veicoli a guida autonoma e l’elettrificazione della trazione.
Dobbiamo quindi concludere che siamo entrati in un periodo di continua e diremmo quasi violenta evoluzione e cambiamento, per fenomeni in parte esogeni (clima, eventi naturali, fattori geo-politici, etc.) ed in parte endogeni (evoluzione tecnologica, cambiamento degli stili di vita, evoluzione dei consumi, etc.). E le trasformazioni che abbiamo visto sopra, hanno preparato le imprese e le catene del valore a “gestire” questo continuo cambiamento? Quindi, a prevederlo, ad assorbirlo, ad adattarsi, ed a ripartire di slancio in un nuovo stato di equilibrio? In una parola, hanno reso le filiere produttive più “resilienti”? Ahimè, non sempre e non necessariamente. Perché le leve sopra delineate, pur avendo contribuito enormemente alla efficienza ed efficacia del processo primario e di molti processi di supporto in quasi tutti i settori industriali, hanno anche aumentato notevolmente il rischio operativo delle catene di fornitura. Vediamo perché.
Una sfida a tre dimensioni: efficienza, efficacia, rischio
Il crescente dinamismo, legato, come si diceva, alla globalizzazione, ma anche al fenomeno della coda lunga e dell’accelerazione dei processi innovativi rende sempre più difficile prevedere ed anticipare il futuro. Pertanto, per reagire con rapidità a perturbazioni impreviste, sarebbe necessaria una catena del valore riconfigurabile con rapidità: tuttavia la dispersione geografica estrema dettata dalla globalizzazione rende (al contrario) l’adattamento più lento. Ed anche l’allungamento delle catene del valore, legato alla sopra descritta deverticalizzazione, combinato con la dispersione geografica non aiutano a reagire in maniera rapida e decisa a cambiamenti imprevisti. Infine, anche l’effetto ammortizzante delle scorte viene meno quando esse vengono eliminate o quanto meno minimizzate assecondando il pensiero snello, o quanto meno spostate più a monte possibile nella filiera. Per rendere le cose più difficili, molti Paesi, soprattutto nelle aree più sviluppate del mondo, introducono vincoli legislativi cogenti legati all’impatto ambientale dei prodotti e dei processi di trasformazione oppure alla sicurezza ed al benessere dei lavoratori e degli utenti. Se da un lato tali regolamenti sono ovviamente positivi ed auspicabili, essi dal punto di vista operativo non fanno che aggiungere perturbazioni, talvolta poco prevedibili, al sistema.
Così, alla tradizionale curva di bilanciamento tra efficienza ed efficacia di un processo, tanto comune e familiare a tutti gli ingegneri industriali, dovrà fatalmente essere aggiunta una nuova dimensione: quella del rischio. Ad esempio, quando sceglieremo dove rifornirci di un determinato materiale, dovremo considerare non solo il prezzo praticato, le prestazioni logistiche assicurate e la qualità dell’articolo acquistato, ma saremo tenuti sempre più ad interessarci anche della stabilità economico-finanziaria del fornitore; della sua capacità di conoscere, rispettare ed adeguarsi alla normativa vigente nei diversi Paesi in cui si opera (compliance), della stabilità socio-politica del Pese in cui opera, delle eventuali problematiche ambientali e naturali dei territori in cui realizza la produzione, delle capacità innovative dell’azienda fornitrice, etc.
Ad onor del vero, la necessità di considerare i rischi non è una novità nella gestione delle catene di fornitura: quelli che invece sono cambiati sono i rischi da considerare. Ad esempio, la deverticalizzazione comporta una crescente necessità di integrazione della catena di fornitura che l’evoluzione tecnologica ha progressivamente facilitato. I confini dell’azienda e della fabbrica si sono quindi estesi a includere i fornitori e i fornitori dei fornitori. In altre parole, si passa dal concetto di “azienda” al concetto di “catena del valore”, o di “supply chain”. O forse sarebbe più semplice dire che dai “confini fisici” sono diventati “confini logici”, cioè materializzati non più nei cancelli aziendali, ma nelle configurazioni e nei confini degli strumenti digitali utilizzati: reti, applicazioni, cloud, dispositivi mobili.
Nelle nuove catene del valore la sicurezza diventa criterio di selezione
Ecco che la sicurezza di questo complesso di tecnologie, ragioni sociali, persone, procedure e ruoli diventa un criterio di selezione dei fornitori e dei sub-fornitori, cioè si traduce, in pratica, in clausole contrattuali, controlli, piani di miglioramento, monitoraggio continuo. Una violazione di sicurezza in un punto qualsiasi mette a rischio la credibilità e la capacità operativa dell’intera rete. Si potrebbero fare altri esempi, sulla protezione dei dati personali, sulla gestione dei rifiuti industriali, sulla sicurezza del lavoro ma la sostanza del ragionamento è che sempre più i rischi da considerare nello scegliere e gestire un fornitore riguardano aspetti solo indirettamente collegati all’oggetto primario della fornitura.
Molte aziende Italiane di medio-grande dimensione scelgono a tutt’oggi di investire su reti di fornitura territoriali (distretti) basate frequentemente su aziende medio-piccole, frequentemente di tipo artigianale, inquadrate talvolta come società di persone. Una scelta di questo tipo, pur creando indubbi vantaggi di tipo territoriale, rende ancora più urgente e critico questo cambiamento: infatti, più sono piccole le imprese fornitrici e meno sono in grado (professionalmente, ma anche culturalmente e finanziariamente) di farsi autonomamente carico di un onere di compliance che non è trascurabile neppure per le grandi organizzazioni. Affrontarlo in una logica di filiera è quindi un modo per evitare che l’incapacità di adattarsi a norme e standard sempre più complesse porti le PMI a essere marginalizzate, anche quando l’eccellenza produttiva fosse assolutamente fuori discussione.
Si comincia a parlare di co-security
D’altra parte, la corretta considerazione di questi rischi non può essere sviluppata a detrimento della funzione primaria della fornitura: un fornitore all’avanguardia nella sicurezza informatica ma con produzioni di bassa qualità non è certamente la soluzione del problema, soluzione che invece può passare attraverso la creazione e l’esternalizzazione di processi e ruoli finalizzati a considerare e a ridurre i rischi connessi a questa nuova classe di tematiche. Si tratta cioè di estendere il concetto di “co-makership” e di “co-design” introducendo per tutta la filiera una forma di “co-compliance”, di “co-security” e di “co-controllo” razionalizzando il servizio e gli standard, ottimizzando i costi per perseguire una efficacia difficilmente ottenibile dalla somma di singoli sforzi separati dei diversi attori.
Ed anche il profilo professionale e culturale di chi gestisce le catene di fornitura deve cambiare di conseguenza, pena la sottovalutazione di fenomeni importanti, con rischi anche esiziali. Si tratta di un cambiamento in corso a macchia di leopardo ma sostanzialmente ancora agli inizi anche per la carenza di figure professionali adeguatamente formate. Occorre in particolare disgregare molti consolidati “silos” a favore di un punto di vista più sistemico e trasversale. Ad esempio, ogni Supply Chain Manager dovrebbe occuparsi anche di data security, compliance e risk management, così come ogni risk manager dovrebbe conoscere bene la catena del valore entro cui opera la propria azienda, oltre ai rischi che vi si annidano.
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