“In Italia c’è un dualismo sempre più forte tra aziende che fanno innovazione e quelle che restano indietro. Le realtà innovative investono, ri-organizzano, formano i lavoratori, sono più competitive, esportano di più, hanno risultati migliori. Le altre che, per vari motivi, ma spesso legati ai vertici, non seguono i cambiamenti in atto, sono meno efficienti, più disorganizzate, perdono clienti e posti di lavoro. Spesso sono proprio più brutte, anche da un punto di vista estetico. Un’arretratezza visibile anche nelle cose e nel loro contesto, oltre che nei risultati”.
Una visione chiara e un giudizio netto, come sua abitudine, quelli che Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl (i metalmeccanici della Cisl), esprime sul presente e soprattutto sul futuro del sistema economico italiano e delle sue imprese.
Il prossimo 19 marzo uscirà il nuovo libro del leader sindacale divenuto paladino dell’evoluzione tecnologica in azienda, con un titolo che è già un manifesto: ‘Contrordine compagni’. E un sottotitolo altrettanto esplicito: “Manuale di resistenza alla tecnofobia, per la riscossa del lavoro e dell’Italia”. Idee, prospettive, visioni del futuro, con cui Bentivogli vuole abbattere questa ‘paura dell’innovazione‘ ancora diffusa in parte del mondo imprenditoriale, sociale e politico.
Il Paese, il sistema produttivo, le nostre imprese, “devono fare di tutto per superare questo dualismo tra aziende Smart e arretrate, e per portare il maggior numero possibile di realtà manifatturiere e industriali dalla parte giusta, dalla parte dell’innovazione”.
Come farlo? Cosa significa fare innovazione?
“L’innovazione non riguarda solo la tecnologia, o i robot in azienda. Riguarda i modelli di organizzazione, la crescita delle competenze dei lavoratori, la ri-modellazione degli spazi e degli orari di lavoro, la ri-generazione di interi eco-sistemi produttivi e manifatturieri. È importante creare e sviluppare eco-sistemi evoluti, ‘intelligenti’, sostenibili, integrati a reti di trasporti, energia, pubblica amministrazione Smart. Solo questi nuovi eco-sistemi produttivi possono portare crescita diffusa, maggiore produttività diffusa. Altrimenti si resta a uno sviluppo disomogeneo, a macchia di leopardo, a diverse velocità, con realtà di eccellenza, da una parte, e dall’altra situazioni di arretratezza, destinate a perdere”.
Ci sono casi di eccellenza che possono fare da modello?
“Per fortuna ce ne sono tantissimi, non solo tra i colossi ma innanzitutto nelle medie aziende italiane, con realtà molto interessanti. Tra le prime che mi vengono in mente ci sono, ad esempio, la Elettric 80 a Reggio Emilia, la Rold in provincia di Milano, e tante altre che hanno messo insieme queste capacità di guardare al futuro e ai cambiamenti in atto, che sono incontrovertibili, con buona pace per i tecnofobi”.
A che punto siamo, nella diatriba sulla tecnofobia?
“Il nostro è un Paese che ha un retroterra culturale anche troppo tecnofobo, e su questo terreno si incontrano le idee e le tesi populiste e quelle della Sinistra ideologica. Questa tendenza rallenta la capacità, da un lato, di guadare la realtà per quello che è, e, dall’altro, di costruire in anticipo il futuro. La paura della tecnologia, la retorica della disoccupazione tecnologica, fanno parte più di una certa pubblicistica, che punta a spaventare le persone, a fini editoriali o politici, ma non hanno nulla a che fare con la realtà”.
Qual è, invece, la realtà?
“La realtà è che quando l’innovazione non arriva in azienda, i lavoratori sono preoccupati perché l’azienda non funziona, o funziona peggio delle altre. Quando l’azienda innova, significa che investe in futuro. Non è la tecnologia che toglie posti di lavoro, si vede chiaramente che dove non si fa innovazione si perde occupazione. In sostanza, l’innovazione logora chi non la fa”.
Una buona fetta di responsabilità è di imprenditori e manager?
“Una recente indagine di InfoCamere rileva che quattro imprenditori su dieci sono ancora convinti che Internet non serva. C’è ancora, in molti casi, una cultura imprenditoriale e aziendale piuttosto retrograda”.
E cosa serve, invece?
“Occorre capacità di anticipare i cambiamenti. Quindi servono visione, lungimiranza, decisioni e azioni in prospettiva. Analizzando e interpretando le cose per come sono realmente, senza paraocchi e preconcetti, senza barriere culturali o ideologiche. Serve capacità di progettare e ri-progettare le imprese, il lavoro, il territorio circostante. Chi agisce sull’anticipo del cambiamento, poi, rinnova e sostituisce i lavori che si distruggono”.
La tecnologia aiuta anche a riportare in Italia la produzione esportata?
“Indubbiamente. Diverse aziende italiane che erano andate a produrre in Paesi con un basso costo del lavoro sono tornate proprio grazie alle tecnologie, che hanno avuto un buon impatto sui costi finali. Non a caso, gli accordi sindacali che abbiamo fatto in tema di Re-shoring e di rientro delle produzioni dall’estero prevedono investimenti in tecnologie”.
In questo quadro, la tendenza al Re-shoring continuerà?
“Sì, io credo di sì. Ma dipenderà molto da questa capacità di innovare, perché non serve comprare e installare un robot in azienda se poi non è integrato alle altre tecnologie e all’intero sistema produttivo e organizzativo dell’impresa. In più, se si inizia a re-investire nelle persone con nuova formazione, allora si creano le condizioni per un ritorno di ciò che è andato all’estero, e per nuove attività da parte di chi troverà interessante investire qui. Saper attrarre investimenti è un altro fulcro fondamentale”.
La gerarchia dell’azienda di vecchio stampo, fordista, è destinata ad andare in soffitta?
“Assolutamente sì. Quelle vecchie gerarchie, e anche l’organizzazione degli spazi in azienda, con i piani più alti destinati al capo e ai manager, i piani inferiori per quadri e sottoposti, sono tutte cose che appartengono sempre più al passato. Le aziende di successo oggi hanno una struttura molto più orizzontale, spesso non fanno più riferimento a un unico titolare, ma a una rete di più persone. L’innovazione rispetto a qualsiasi gerarchia è e sarà sempre più Disruptive, estremamente Disruptive. Bisognerà riqualificare i ruoli sulla loro effettiva necessità e sulla capacità delle persone”.