“Non si possono annunciare contemporaneamente milioni di investimenti e centinaia di esuberi”. A parlare è Michele Greco, Segretario generale della Flai Cgil Umbria, riferendosi ai due spinosi casi che stanno facendo molto discutere: Perugina e Colussi, che hanno avviato percorsi di innovazione e rilancio per i propri stabilimenti produttivi, salvo poi presentare un conto doloroso in termini di impatto sul lavoro.
Per favorire una più generale riflessione sul tema del rapporto tra occupazione e lavoro, soprattutto al tempo di Industria 4.0, ricostruiamo innanzitutto i fatti, partendo proprio dal caso Perugina.
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La vicenda Perugina
Nel marzo del 2016 Nestlé, proprietaria del marchio Perugina, annuncia un’operazione di rilancio per il sito produttivo di San Sisto a Perugia che prevede investimenti per 60 milioni di euro, 45 dei quali dedicati al marketing e 15 all’ammodernamento della produzione: “nuove tecnologie e un modello organizzativo avanzato così da consentire al sito di rispondere alle necessità di mercati sempre più sfidanti”, si legge nella nota dell’azienda.
Un mese dopo arriva l’accordo quadro con le parti sociali: le RSU infatti accettano di supportare il piano di sviluppo e ottengono garanzie occupazionali: almeno fino al 2018, cioè per tutta la durata del piano, si procederà con gli ammortizzatori sociali, ma non ci saranno licenziamenti. Parte integrante dell’accordo è una commissione di gestione congiunta con rappresentanti della RSU e dell’azienda: un organismo che deve entrare nel merito del piano, “riunendosi settimanalmente per gli aspetti tecnici e gestionali e con cadenza trimestrale/semestrale per quanto riguarda il progetto di sviluppo, il business e il mercato”, spiegava allora la RSU.
Poco più di un anno dopo – siamo a maggio 2017 – l’azienda annuncia che alla scadenza della cassa integrazione non sarà possibile “assicurare la continuità occupazionale” a San Sisto. Gli esuberi – anche se l’azienda non li chiama così – e ora vedremo perché – riguardano 340 lavoratori tra produzione e logistica. I nodi vengono al pettine.
Il nodo dell’occupazione
Milioni di investimenti per poi ridurre l’occupazione? I sindacati non ci stanno e a giugno incontrano l’azienda. Nestlé spiega che gli investimenti in atto genereranno un “progressivo incremento dei volumi di produzione della fabbrica di Perugia”, ma che “in virtù degli investimenti tecnologici che aumentano il livello di automazione della fabbrica, e delle tempistiche necessarie per la penetrazione commerciale all’estero – l’incremento dei volumi produttivi potrà tradursi in un corrispondente incremento dei livelli occupazionali solo nel lungo termine“.
Ma tra un anno – a giugno 2018 – gli ammortizzatori sociali scadono e la Cassa integrazione straordinaria non sarà più rinnovabile. Per questo – sottolinea Nestlé – “emerge l’esigenza di procedere ad un riequilibrio occupazionale che, ad oggi, stimiamo possa coinvolgere circa 340 addetti alle attività di produzione e logistica, ai quali – nei prossimi anni – non sarà possibile assicurare la continuità occupazionale presso l’Unità di Perugia, se non in funzione della stagionalità tipica delle produzioni dolciarie”.
La proposta di Nestlé è di “supportare attivamente i lavoratori nel reperimento di soluzioni occupazionali alternative, incentivandoli a cogliere le opportunità che – proprio in questo periodo – si stanno aprendo sia all’interno del Gruppo Nestlé in Italia, sia sul territorio perugino, mettendo in campo incentivi economici in favore delle aziende del territorio che assumeranno nostri lavoratori”.
Il ruolo dello Stato e il fattore tempo
Torniamo ora dove aveamo iniziato. Nell’articolo pubblicato a sua firma su Umbria 24 il 16 luglio, Michele Greco scrive: “come sindacato iniziamo a tremare ad ogni annuncio di investimenti […] La tanto decantata “industria 4.0”, senza adeguati accorgimenti e interventi, sta rivelando tutto il suo potenziale distruttivo sul fronte occupazionale, in maniera perentoria e nefasta”.
Che fare dunque? La CGIL non è “avanguardista” come la CISL su questi temi, eppure – dopo l’avvio infuocato – Greco dimostra di avere le idee chiare: “Di certo, un sindacato al passo coi tempi non immagina di fermare le lancette dell’orologio del progresso e tantomeno le può rimettere indietro”. Ma “serve un ulteriore salto in avanti per aggiungere “un ingranaggio” a queste dinamiche, quel pezzo che negli ultimi anni i vari governi hanno dimenticato in maniera preoccupante o, peggio, hanno volutamente relegato alla voce danni collaterali“.
Quell’ingranaggio – spiega Greco – è il tempo. “Ci vuole tempo per gestire una fase di transizione che, invece, da un punto di vista tecnologico, viaggia a ritmi sconosciuti nel passato. Allora, se è vero che si tratta di una nuova era per il mondo del lavoro e per i lavoratori, è altrettanto doveroso ammettere che il sistema di tutele e di welfare va aggiornato e adeguato al repentino evolversi del mondo del lavoro”.
Ha ragione Greco. Si può pensare che una cassa integrazione che dura tre anni sia il giusto ammortizzatore sociale per una transizione epocale come quella di una comunità – perché questa è un’azienda – che investe in innovazione? Si può “sperare” in relazioni industriali mature e lasciare alle parti il compito di gestire problemi di tal fatta e dimensione? La risposta è no.
A settembre attendiamo con ansia la seconda cabina di regia del Piano Nazionale Industria 4.0. Il ministro del Lavoro Poletti e quello dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Fedeli sono al lavoro per arrivare a mettere a punto, insieme con il Ministero dello Sviluppo Economico, una piattaforma che renda l’ecosistema adatto a quest’epoca di importanti trasformazioni.
Lo sviluppo dei “fattori”, come li chiama Confindustria, non si può fermare e – anzi – deve essere supportato e incentivato. E proprio per questo il lavoro non può essere visto come un “problema” né tantomeno come un “danno collaterale”.
Finora tutti, a livello istituzionale, si sono espressi convintamente in questa direzione. Ma è arrivato il momento di dimostrarlo con fatti concreti. Perché il caso Perugina – e i tanti che seguiranno – hanno bisogno di un welfare 4.0 che sia operativo e funzionante almeno quanto il piano di incentivi agli investimenti.