L’interazione uomo-macchina in fabbrica, nuove prospettive: il punto di vista di Impresoft Group

Il punto di vista di Impresoft Group sulla dark factory, la fabbrica completamente automatizzata al cui interno lavorano solo i robot e, quindi, l’illuminazione è superflua. Secondo Sergio Gasparin “i benefici di una fabbrica totalmente automatizzata continuano a essere inferiori alle attese”

Pubblicato il 15 Dic 2022

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La “dark factory”, o fabbrica al buio, è un concetto che si riferisce alle fabbriche completamente automatizzate, al cui interno lavorano solo i robot e, quindi, l’illuminazione è superflua.

Come si può agevolmente comprendere, non è un’espressione che goda di ampia fortuna per indicare l’automazione spinta negli stabilimenti e questo sia perché evoca un concetto negativo come quello dell’oscurità sia perché in fondo dà ragione ai luddisti e alla loro battaglia contro le macchine. Una fabbrica al buio, infatti, comporta una presenza solo residuale di persone e, quindi, non può incontrare i favori di lavoratori, sindacati e società civile.

Il punto di vista di Impresoft Group sulla dark factory

Ripercorre l’evoluzione di questo concetto Sergio Gasparin, AD di Qualitas Informatica, azienda di Impresoft Group di cui fanno parte anche 4wardPro, GN Techonomy, Formula, OpenSymbol, NextTech, NextCRM, Kipcast e Cloudnova.

L’azienda fa parte del competence center Industry Solutions, che all’interno di Impresoft Group si rivolge in particolare a quelle realtà manifatturiere che intendono migliorare i loro processi produttivi e la loro competitività. Sviluppa sistemi MES (Manufacturing Execution System) e ha oltre 560 progetti attivi in Italia e all’estero. Con questo background, ha tutti i titoli per poter dire la sua sull’idea di automazione spinta che, per fortuna, non è sempre sinonimo di dark factory.

“Il concetto di fabbrica automatica, cioè quello di sostituire le persone con delle macchine, con dei software, o comunque con qualcosa di tecnologicamente avanzato era molto presente negli anni Novanta e agli inizi del Duemila”, dice Gasparin. “Nell’immaginario collettivo c’era allora questa ipotesi suggestiva, che in alcuni casi si è poi tradotta in progetti concreti, come quelli che sono assurti alle cronache l’anno scorso e che hanno visto ad esempio un’industria siderurgica del gruppo cinese Baogang affidare a dei robot la separazione delle scorie dall’acciaio liquido”.

Nonostante questo e altri casi analoghi, compreso almeno uno seguito dalla sua azienda, Gasparin è convinto che i benefici di una fabbrica totalmente automatizzata continuino a essere inferiori alle attese: ricordiamo tutti quando Elon Musk sbottò quando non riusciva a risolvere i problemi di una delle sue fabbriche statunitensi urlando “Too much automation!”.

I limiti di una fabbrica automatica senza persone

Al di là dei profili dubbi in termini etici e sociali, perché l’assunto di base è che una maggiore efficienza e produttività sarebbero garantite da sistemi che, a differenza delle persone, lavorano senza sosta, non scioperano e non “pretendono” diritti, questi progetti si sono scontrati nella realtà anche con un problema di costi.

“La realizzazione di fabbriche interamente automatiche comporta una spesa estremamente alta”, evidenzia Gasparin. Problema a cui se ne aggiunge un altro, quello della standardizzazione di cicli produttivi caratterizzati da un grado elevatissimo di ripetitività e prevedibilità. Il che non sempre è possibile per tutte le attività produttive o, qualora lo sia, implica l’introduzione di nuovi criteri nei cicli produttivi e una nuova organizzazione con un impegno organizzativo enorme.

Inoltre, l’eccessiva standardizzazione che è propria di questa tipologia di fabbrica contraddice una delle peculiarità dei mercati contemporanei, in cui la flessibilità produttiva che consente la differenziazione di prodotti e servizi resta fondamentale.

“La nota frase di Henry Ford sul cliente che avrebbe potuto comprare un’auto di qualunque colore a patto che fosse nera è molto distante dalle dinamiche attuali”, dice ancora Gasparin, rimarcando come la differenziazione, insieme alla capacità di cambiare e di adattarsi a ciò che il mercato richiede, contribuiscono a definire quella resilienza che è probabilmente il tratto più importante di un’azienda contemporanea.

Va poi considerato che anche l‘intelligenza artificiale basa la sua “intelligenza” su tutta una serie di dati storici, compresa la predittività con cui arrivare a prevedere il futuro. Con un particolare non trascurabile: insegnare alle macchine, come avviene ad esempio con gli algoritmi di machine learning, comporta un costo che si riferisce a tutta la gestione e l’organizzazione dei dati per trasformarli in informazioni a supporto delle decisioni aziendali. Significa che c’è una cosa che una macchina, almeno per adesso, non è in grado di fare: adattarsi al cambiamento e gestire l’imprevisto.

Il giusto mix tra macchina e componente umana

Ci sono tanti modi per indicare questa abilità che è appannaggio esclusivo dell’uomo. Sergio Gasparin la chiama “capacità di immaginazione in senso lato”, ovvero “riuscire a capire e ad apprendere senza aver bisogno di sperimentare. In altri termini, le persone possono fare una serie di passaggi logici seppure non ricavabili direttamente da serie storiche. Se gli analytics aiutano a individuare dove c’è un problema, trovare una soluzione, tenendo conto di aspetti non puramente quantitativi ma qualitativi, e soprattutto mettere in pratica questa soluzione è un’attitudine dell’uomo”.

Da qui la strada maestra che si prospetta nell’interazione ideale uomo-macchina, “una collaborazione in cui alle macchine sono demandate attività che richiedono o grande capacità elaborativa o grande precisione”. Collaborazione in cui robot, cobot e software devono svolgere i propri compiti con grande accuratezza e velocità, mentre ricade sull’uomo tutta l’impostazione, dalla configurazione alle modalità di utilizzo di software e macchinari.

In questa visione, il compito delle tecnologie è al più quello di facilitare gli interventi degli operatori in carne e ossa. “Le aziende che sfruttano meglio le tecnologie di automazione sono quelle che capiscono bene a cosa servono e come impiegarle appieno. E infatti le fabbriche migliori sono quelle che riescono a gestire questo mix in maniera ottimale. Andare oltre, pretendere dai sistemi che facciano cose diverse da ciò per cui sono stati concepiti sarebbe una sorta di accanimento terapeutico”, conclude Sergio Gasparin, specificando che “bisogna giocare di squadra anche con i software e le macchine. E in un gioco di squadra vanno esaltate le caratteristiche di ognuno. Questo è il vero punto vincente. Voler far fare alla macchina qualcosa che fa l’uomo o viceversa è penalizzante e va contro il buon senso”.

La fabbrica del futuro in definitiva, per quanto intelligente e automatica, non potrà fare a meno di una componente essenziale, quella umana.

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Carmelo Greco

Giornalista del Network Digital360

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