Innovare è ricercare nuove forme di valore attraverso cambiamenti più o meno radicali di prodotti, processi e servizi. In alcuni casi l’innovazione si manifesta in modo incrementale, in altri dà origine a soluzioni completamente nuove e discontinue – ‘disruptive’, come dicono gli inglesi – rispetto alla situazione esistente.
Innovare è al tempo stesso difficile ed entusiasmante. È difficile perché significa cambiare o rivoluzionare lo status quo. È entusiasmante perché dà spazio alla creatività, all’intuito, alla capacità realizzativa.
Molti lavoratori, per esempio, vedono e toccano con mano problemi e opportunità di miglioramento, hanno idee e proposte per nuovi modi di affrontare problemi vecchi o emergenti, hanno intuito possibilità di creare valore in ambiti non ancora esplorati. Per loro non è più sufficiente continuare a fare ogni giorno le solite attività in modo ripetitivo e acritico: vogliono poter contribuire con le proprie idee e proposte.
“Per questo un ‘bel lavoro’ deve anche dare spazio a creatività e innovazione”, rimarca Alfonso Fuggetta, nel suo nuovo libro che s’intitola proprio ‘Un bel lavoro’ – un’analisi attenta per ‘Ridare significato e valore a ciò che facciamo’, come indica il sottotitolo –, pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi.
Il volume approfondisce cosa può essere oggi un ‘bel lavoro’ sotto numerosi punti di vista e sfaccettature, dall’inclusione alla crescita professionale, dai ruoli formali e informali alla leadership.
In questa sede ci focalizziamo sugli aspetti che riguardano il lavoro e l’innovazione.
Fuggetta è professore ordinario di Informatica presso il Politecnico di Milano, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel, e dal 2022 è membro del gruppo tecnico ‘Il digitale per la competitività del sistema industriale’ di Confindustria. Ha già pubblicato diversi libri su come la Digital transformation e le nuove tecnologie stanno cambiando il mondo in cui viviamo e lavoriamo.
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Anche gli operai sono una fonte di innovazione
Un ‘bel lavoro’, “indipendentemente dalla sua natura e finalizzazione, è un’attività dove le persone sono stimolate a innovare, a ricercare modalità inedite attraverso le quali migliorare la qualità del prodotto, del servizio e del loro stesso agire quotidiano”, sottolinea un passaggio del libro. E mette in evidenza: “è incredibile come troppo spesso questa elementare considerazione sia totalmente ignorata, penalizzando sia l’impresa che i lavoratori”.
“Si dirà che questo atteggiamento è vero solo per certe categorie di lavoratori, quelli della conoscenza. Non è così”, rileva Fuggetta: “fin dai tempi dei visionari esperimenti nelle fabbriche giapponesi, gli operai, per esempio, sono una fonte straordinaria di innovazione”.
User Innovation e Free Innovation
In pratica. vedendo come si svolgono quotidianamente le operazioni di assemblaggio di un bene, ne conoscono tutti i limiti e difetti e sono quindi in grado di proporre miglioramenti e soluzioni per l’appunto innovative. Non per niente laddove si è data voce ai lavoratori si sono migliorati prodotti e processi produttivi e, allo stesso tempo, sono aumentati il livello di soddisfazione e la qualità del lavoro.
Un’intera area di ricerca denominata User Innovation – e adesso anche Free Innovation – ha studiato come il processo di innovazione possa e debba vedere tutti coinvolti, non solo gli specialisti di una materia, ma anche e innanzitutto gli utenti finali. A maggior ragione ha senso dare spazio a chi nell’impresa lavora e contribuisce alla creazione e produzione di quei beni e servizi.
Stimolare la voglia di innovare
Un ambiente di lavoro dove tutti possono contribuire con il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze non solo rende più competitiva l’organizzazione, ma rafforza e qualifica anche il senso del lavoro e la qualità della vita delle persone.
Come stimolare i contributi degli individui e la loro voglia di innovare? Al di là di singoli strumenti organizzativi – o anche tecnologici, come forum e piattaforme di open innovation –, “due sono gli snodi principali che devono essere affrontati: la cultura dell’eccellenza e la cultura dell’ascolto”, rimarca Fuggetta. Ecco di cosa si tratta.
La cultura dell’eccellenza
Se è vero che non si può continuare a raffinare o cambiare un prodotto o servizio all’infinito, e che quindi è necessario prima o poi mettere la parola ‘fine’ a un processo o a un’attività progettuale, è altrettanto vero che non bisogna mai accontentarsi di quanto fatto. Questa è, innanzitutto, la cultura dell’eccellenza.
È vitale continuare a ricercare ulteriori opportunità di miglioramento o di innovazione anche radicale. “Serve una cultura d’impresa che sappia consolidare e valorizzare i risultati raggiunti”, fa notare l’autore, “lasciando però sempre la porta aperta e anzi ricercando attivamente forme di valore originali e opportunità di miglioramento inesplorate”.
La cultura dell’ascolto
La partecipazione nasce dal dialogo, dalla voglia e dal desiderio costante di ascoltarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non è un atteggiamento naturale né semplice da attuare. Ascoltare richiede tempo, attenzione, volontà, umiltà, pazienza.
“Come mi ricorda sempre l’amico Maurizio Bernascone, si ascolta per comprendere, non per rispondere”, sottolinea Fuggetta: “spesso la frenesia del nostro lavoro quotidiano, i nostri limiti caratteriali e le ambizioni personali rendono difficile ascoltare. Combattere queste difficoltà permette di creare una cultura dell’ascolto che contribuisce a rendere ‘bello’ il lavoro”.