Supply chain

Sempre più aziende adottano strategie di rilocalizzazione di produzione e forniture: le opportunità e i rischi nell’analisi del CSC

Negli ultimi tre anni le imprese italiane hanno affrontato cambiamenti che hanno reso la gestione delle supply chain più difficile e incerta e che le hanno spinte ad adottare strategie di accorciamento delle catene di fornitura, tra cui il backshoring della produzione e delle forniture. Trend che secondo la survey del Centro Studi Confindustria (CSC) proseguiranno nei prossimi anni e che possono rappresentare per i policy maker italiani opportunità di aumentare la competitività delle nostre imprese.

Pubblicato il 11 Set 2023

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Negli ultimi tre anni le imprese hanno dovuto fare i conti con diversi cambiamenti che hanno reso la gestione delle supply chain più difficoltosa e incerta. L’aumento delle tensioni geopolitiche, la diffusione della pandemia e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno messo in evidenza le fragilità delle profonde interdipendenze produttive e di fornitura a livello globale e stanno spingendo le imprese verso una riconfigurazione delle catene di fornitura.

Cambiamenti che hanno impattato soprattutto quelle imprese che hanno una filiera internazionale rigida, con scarsa diversificazione dei fornitori. Diventa, quindi, sempre più rilevante per le imprese aumentare il loro grado di resilienza, la forza di reagire a eventi imprevisti e imprevedibili, preservando la loro efficienza. Le strategie di medio periodo spingono verso una riconfigurazione delle catene di fornitura che implementi anche le innovazioni tecnologiche che si realizzeranno.

Una survey del Centro Studi Confindustria e Re4It (Reshoring for Italy) ha approfondito le strategie adottate dalle imprese italiane per navigare in un contesto sempre più volatile, incerto, complesso e ambiguo (o VUCA, dall’acronimo inglese: volatility, uncertainty, complexity and ambiguity), indagando sulle motivazioni dietro la scelta di tali strategie e mettendone in evidenza i risultati.

Aziende che stanno adottando strategie di backshoring di fornitura e produzione per aumentare la resilienza delle proprie supply chain. L’adozione di tali strategie – seppur ancora in una fase iniziale – è evidenza della qualità dell’offerta dei fornitori italiani, nonché della presenza anche nel nostro Paese del know-how necessario e può offrire interessanti opportunità per i policymaker per elaborare strategie di attrazione degli investimenti e di aumento della competitività delle imprese italiane.

Come cambieranno le supply chain nei prossimi anni: le previsioni e i rischi

Nel prossimo triennio, secondo il World Economic Forum (WEF), sono previsti cambiamenti nelle catene di fornitura che porteranno a un loro accorciamento.

Un’indagine condotta dall’Economist su 3.000 dirigenti senior a livello globale ha rilevato un aumento della percentuale di coloro che hanno adottato come strategia primaria il nearshoring, ovvero la rilocalizzazione delle forniture a favore di fornitori situati in Paesi geograficamente più vicini (dal 12% nel 2021 al 20% nel 2022).

Allo stesso tempo, c’è stato un incremento nella percentuale di coloro che optano per il backshoring, ovvero il ritorno ai fornitori del Paese di origine (dal 5% al 15%).

Oltre alla riconfigurazione delle catene di fornitura, potrebbero verificarsi anche fenomeni di riallocazione in patria, sia di singole fasi produttive (selective backshoring di produzione) che di interi processi produttivi (backshoring di produzione) precedentemente delocalizzati.

Inoltre, potrebbero avvenire spostamenti di attività in Paesi più vicini geograficamente (nearshoring di produzione) o politicamente (friendshoring di produzione). La rilocalizzazione dell’attività produttiva precedentemente delocalizzata è generalmente più complessa rispetto a quella della fornitura, a causa dei costi irrecuperabili legati agli investimenti realizzati nel paese di destinazione.

Questi cambiamenti possono comportare l’avvio di un processo di re-industrializzazione per alcune economie, principalmente quelle europee, che già dispongono di reti di fornitura strutturate e possono beneficiare di forti esternalità positive. Al contrario, per molte economie emergenti, potrebbe verificarsi una deindustrializzazione precoce, con un aumento delle difficoltà nel futuro nel cercare di espandere la loro offerta industriale.

Produrre in proprio o dislocare altrove? I costi da considerare

Il processo di ridislocazione internazionale delle produzioni comporta complessità e costi elevati, che agiscono come disincentivi.

Questo vale non solo per la reintegrazione verticale, ma anche per il cambiamento di fornitori intermedi da quelli “lontani” a quelli più vicini e si verifica quando i costi per riappropriarsi delle competenze cedute alle economie emergenti risultano maggiori rispetto a quelli sostenuti dalle economie che attualmente forniscono tali beni.

Tuttavia, l’impatto della pandemia e delle tensioni geopolitiche ha modificato il trade-off tra produrre in proprio e affidare la produzione a mercati esterni.

Processi “in casa” e forniture estere: il focus sulle aziende italiane

Per quanto riguarda le modalità di produzione e di approvvigionamento delle imprese italiane, l’84% delle imprese rispondenti (un campione di 762 imprese, di cui oltre il 90% PMI) non ha attuato l’offshoring della produzione poiché realizza tutto il proprio processo produttivo in Italia, presso propri stabilimenti o tramite esternalizzazione di produzione.

Soltanto il 16% dei rispondenti, quindi, potrebbe aver attuato una strategia di rilocalizzazione delle fasi produttive precedentemente delocalizzate all’estero, mettendo in evidenza che il fenomeno del backshoring produttivo può riguardare, già ex-ante, un numero molto limitato di imprese italiane.

Al contrario, l’indagine ha evidenziato una maggiore esposizione delle imprese italiane alla fornitura estera, dato che quasi il 73% delle imprese rispondenti si approvvigiona all’estero per i materiali necessari alla produzione. In questo caso, seppure il campione di aziende che potrebbero realizzare il backshoring di fornitura aumenta considerevolmente (di cinque volte), va tenuto a mente che l’adozione generalizzata di tali strategie difficilmente potrebbe avvenire nel contesto italiano, in quanto il nostro Paese manca di molte materie produttive necessarie alle imprese, che devono necessariamente essere prese dall’estero.

Il 55% delle aziende italiane non ha ancora attuato strategie di backshoring di produzione

Per quanto riguarda la rilocalizzazione della produzione, al 2021 circa il 30% delle 121 imprese che svolgevano attività produttiva anche all’estero ha dichiarato di aver già realizzato un cambiamento nella strategia di localizzazione, mentre il 55% continua a mantenere inalterata la sua scelta localizzativa.

In particolare, l’analisi ha evidenziato che:

  • il backshoring della produzione (totale o parziale) è stato finora scelto dal 16,5% delle imprese che avevano realizzato l’offshoring produttivo
  • più del 12% ha dichiarato di aver programmato di riportare in Italia la produzione attualmente localizzata all’estero nel medio termine, con un intervallo temporale che va da un minimo di tre anni a un massimo di oltre cinque
  •  il 14%, ha invece optato per un cambio di localizzazione restando sempre in un paese estero, sia attraverso un ulteriore offshoring che un possibile nearshoring
  • nei prossimi quattro/cinque anni il nearshoring verrà implementato da poco meno del 2% di chi ha effettuato l’offshoring produttivo

Cosa aveva spinto le aziende a delocalizzare la produzione?

Ma cosa aveva spinto queste aziende a delocalizzare la produzione in prima istanza o ad attuare, in un secondo momento, ulteriori scelte di delocalizzazione? L’indagine evidenzia che la ragione principale della delocalizzazione iniziale rimane la riduzione del costo del lavoro (resource seeking), indipendentemente dalla scelta effettuata successivamente, ma è ancora più importante per le imprese che hanno poi deciso di rilocalizzare verso un Paese terzo.

Altri due driver che hanno spinto le aziende a optare per scelte di delocalizzazione della produzione sono: incremento del volume delle vendite sul mercato estero (market seeking) e appropriazione dei vantaggi comparati che si possono ottenere diversificando geograficamente fasi produttive (efficiency seeking).

Backshoring di produzione: motivazioni e impatti su attività e offerta

La valutazione complessiva delle imprese rispondenti che hanno optato per il rientro in Italia delle attività produttive precedentemente delocalizzate è molto positiva; inoltre, emerge chiaramente che le difficoltà incontrate sono molto più contenute rispetto ai vantaggi ottenuti attraverso il backshoring di produzione.

Le motivazioni che hanno spinto molte aziende italiane a rilocalizzare processi precedentemente delocalizzati all’esterosono:

  • efficiency seeking. Cambiamenti dei contesti produttivi e degli equilibri di mercato hanno reso quindi più “conveniente” rilocalizzare la produzione
  • customer value, ovvero la necessità di migliorare il valore offerto ai propri clienti sia in termini di servizi (Customer value) che di prodotto
  • resource seeking and keeping, quindi  la necessità di mantenere la conoscenza e di sfruttare nuove tecnologie disponibili nel paese di origine, che include anche i cambiamenti del paradigma produttivo indotti da Industria 4.0
  • quality and social issues. L’accorciamento e la regionalizzazione delle catene del valore appaiono legate ad un aumento della sostenibilità, in quanto consentono la riduzione delle emissioni e un maggior controllo
    etico-sociale delle produzioni

Sebbene si siano riscontrate delle difficoltà al rientro, queste sono state valutate molto contenute rispetto al mantenimento delle attività nel paese estero dove erano state delocalizzate.

In particolare, i due principali ostacoli al backshoring di produzione sono: (ri)creare competenze produttive ex-novo in quanto scomparse a seguito della delocalizzazione e il reperimento di personale qualificato.

Oltre il 70% delle imprese ricorre a forniture estere, ma si iniziano a vedere segnali di backshoring

Per quanto riguarda il ricorso a forniture estere, la survey ha rilevato una diffusione totale o parziale pari al 74,5% del totale dei rispondenti. Di queste, risulta che 120 imprese – cioè, il 21,1% – hanno realizzato (in percentuale variabile) un backshoring delle proprie forniture negli ultimi cinque anni.

Infine, una percentuale non trascurabile, quasi l’11% delle 120 imprese che ha rilocalizzato in Italia la propria fornitura, ha optato per riconfigurarla interamente su base nazionale.

Le motivazioni che hanno spinto le aziende a optare per il backshoring di fornitura sono:

  • la disponibilità di fornitori idonei in Italia, segno  che l’expertise e il know-how italiano rappresentano ancora il principale valore aggiunto delle filiere locali
  • tempi e costi di consegna superiori alle aspettative
  • costi logistici superiori alle aspettative
  • presenza di un lotto minimo di acquisto
  • motivazioni ambientali, che tuttavia si posizionano all’ultimo posto tra le motivazioni elencate ma che, alla luce delle politiche europee di transizione ecologica, ci si può attendere che diventeranno sempre più rilevanti nel futuro

Le indicazioni del CSC per i policymaker

I risultati dell’analisi, suggerisce il Centro Studi Confindustria (CSC) offrono importanti spunti di riflessione che possono aiutare i legislatori nell’elaborazione di strategie di attrazione degli investimenti e di promozione della competitività delle imprese.

Nello specifico, il backshoring può aumentare la competitività dei territori e delle imprese. È preferibile incentivare il backshoring attraverso politiche di attrattività del territorio e di competitività delle imprese, in sinergia con le politiche esistenti per il Green Deal, la digitalizzazione e l’aggiornamento delle competenze.

L’accorciamento e la regionalizzazione delle catene del valore favoriscono la sostenibilità, riducendo le emissioni e consentendo un maggiore controllo etico-sociale delle produzioni. Ciò offre opportunità alle imprese italiane per incrementare le quote di mercato all’interno dell’UE e adottare paradigmi di produzione alternativi, come l’economia circolare.

La digitalizzazione, inoltre, contribuisce alla competitività delle imprese attraverso l’implementazione di Industria 4.0, migliorando l’efficienza dei processi produttivi, la qualità delle produzioni e riducendo i costi.

Infine, è fondamentale promuovere politiche per aumentare le competenze manifatturiere, digitali e manageriali per supportare la riorganizzazione delle attività produttive e l’adozione di nuovi modelli di business sostenibili e digitali.

È importante considerare che il backshoring generalizzato non è né realistico, dato che alcune materie prime sono localizzate in specifiche aree del mondo, né auspicabile, in quanto ridurrebbe i vantaggi della specializzazione produttiva e della partecipazione alle catene globali del valore.

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Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

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