L’Inapp – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – ha presentato al Parlamento il suo Rapporto annuale dal quale si evince un mondo del lavoro frammentato, sottopagato e poco tutelato. L’intervento del presidente Sebastiano Fadda ha evidenziato un quadro piuttosto accidentato nel quale, una volta superata l’emergenza Covid-19, si sono ripresentati i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano.
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Debolezze cronicizzate
Anche se non mancano segnali confortanti sembra che alcune debolezze del nostro sistema produttivo si siano cronicizzate, con il lavoro che appare come ‘in trappola’ fra bassi salari e scarsa produttività. Per superare questa empasse “occorre pensare ad una ‘nuova stagione’ delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera e per le donne e i giovani che continuano a essere maggiormente penalizzati”.
Occorre quindi che le politiche del lavoro si integrino con quelle industriali e con quelle di sviluppo, in una strategia che persegua il rafforzamento della struttura produttiva, la crescita del capitale umano e dell’innovazione tecnologica e, nello stesso tempo, punti al rafforzamento della coesione e della sicurezza sociale.
Occupazione e precarietà
Le criticità del mercato del lavoro italiano emergono anche dal tempo impiegato a recuperare i livelli di occupazione pre-pandemia: sceso dal 58,8 al 56,8% durante il 2020, ha ripreso a crescere solo nel 2021 e ha impiegato 18 mesi per tornare ai livelli pre-crisi. Nei Paesi Ocse la risalita era già apprezzabile nel secondo trimestre 2020 e si è completata in 15 mesi.
La ripresa dell’occupazione non ha però eliminato la precarietà del lavoro, dato che nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti sono a tempo determinato e solo il 14,8% è a tempo indeterminato. Il lavoro atipico, ossia l’assieme di tutto ciò che non è regolato dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time, rappresenta l’83% delle nuove assunzioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni.
Fadda ha evidenziato che “Il tema del crescente aumento dei contratti non standard rappresenta una costante del modello di sviluppo occupazionale italiano, che ha attraversato la prima crisi 2007-2008, sino a diventare requisito ‘strutturale’ della ripresa post Covid”. Si può parlare in alcuni casi di ‘flessibilità buona’ perché indagini ‘longitudinali’ (che hanno seguito i lavoratori precari nei trienni 2008/10, 2016/18 e 2018/2020) hanno evidenziato come in un 35/40% dei casi (la quota varia a seconda del triennio considerato) essi abbiano trovato un’occupazione stabile.
Stretti fra part time e lavoro povero
D’altro canto si registra una quota simile che non è uscita dalla precarietà, un 16/18% che ha perso l’impiego ed è in cerca di lavoro mentre il 17% è uscito dalla forza lavoro dichiarandosi nel 2021 inattivo: nel 2010 questa aliquota era pari al 3%.
La quota di lavoratori in part time involontario nel 2021 (è l’impiego a tempo parziale non scelto dal lavoratore) vale l’11,3% del totale dei lavoratori contro una media Ocse del 3,2% mentre il prodotto per singola ora è bloccato dal 2000 rispetto a molti Paesi, anche fuori della UE.
Ci sono poi coloro che, pur lavorando, sono in una famiglia il cui reddito disponibile equivalente è al di sotto della soglia di rischio povertà. Nell’ultimo decennio (2010-2020) la quota del ‘lavoro povero’ è stata pressoché costante all’11,3%, un valore mediamente superiore del 2,1% rispetto alla media dell’Unione europea.
I dati sono allarmanti: l’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione lorda sotto i 10 mila euro e solo il 26% dichiara redditi sopra i 30mila euro, valori molto bassi se comparati con quelli dei lavoratori europei. Considerando quel 40% dei lavoratori che hanno il reddito più basso, il 12% non è in grado di fronteggiare una spesa improvvisa (non ha quindi né risparmi né capacità di ottenere credito), il 20% riesce a spendere fino a 300 euro e il 28% arriva a 800 euro mentre quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.
Centri per l’impiego e politiche del lavoro
Si nota inoltre come le età fra i 30 e i 50 anni siano le più precarie, una fascia di età nella quale si dovrebbero invece consolidare gli aspetti familiari e abitativi. Il ricorso al lavoro agile implica nuovi spazi aziendali e il passaggio dal concetto dell’orario di lavoro a quello dei risultati da ottenere. Lo smart working è tutt’altra cosa e implica criticità riguardo le relazioni sociali e professionali, l’adeguatezza delle abitazioni come luogo di lavoro, le spese per l’energia e il riscaldamento e potenziali rischi di burnout e scarse possibilità di praticare il diritto alla disconnessione.
Secondo Sebastiano Fadda è necessaria “una riflessione profonda sulle politiche attive del lavoro e sui Centri per l’Impiego, poco efficaci e poco considerati fra chi cerca occupazione. Occorrono maggiori competenze per chi lavora negli CpI e un ripensamento della loro azione, obiettivi citati nel Piano straordinario di potenziamento del 2019 che prevede una maggiore personalizzazione degli interventi, l’ampliamento degli organici, il rafforzamento delle competenze del personale e il miglioramento degli strumenti a disposizione degli operatori”.
Salari, il primato italiano (negativo) nell’Ocse
Il contesto generale è sconfortante perché l’Italia è l’unico Paese Ocse che nel periodo 1990-2020 ha registrato un calo dei salari, scesi del 2,9% a fronte di una crescita media del 38,5% e di un incremento superiore al 31 % sia in Francia sia in Germania. Il fatto che nello stesso periodo la produttività sia cresciuta del 21,9% dimostra quindi che non hanno funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro. Il valore medio del trentennio deriva da un calo dell’8,3% nel 2010-2020, un valore negativo importante.
Il presidente dell’Inapp rileva che “questa condizione di stagnazione dei salari è resa più preoccupante dalla ripresa dell’inflazione e quindi si torna a porre il problema di contrastare la riduzione del potere d’acquisto dei redditi fissi. Fra le cause di una dinamica salariale così contenuta citiamo il meccanismo di negoziazione dei salari. Resta bassa (4%) la quota delle imprese che dichiarano di applicare entrambi i livelli di contrattazione. Nel periodo 2011 – 2018 si è ridotto il numero di aziende che dichiarano di applicare un CCNL (-10%) mentre è più che raddoppiata, dal 9% al 20%, la quota delle imprese che dichiarano di non applicare alcun contratto”.
Competenze e conoscenze sottovalutate
Altre punto dolente evidenziato nel Rapporto si parla anche di fabbisogni di professioni e competenze. Dal 2017 al 2021 la quota delle imprese italiane che segnalava la necessità di adeguare le conoscenze e le competenze di specifiche figure professionali è scesa da circa il 33% al 22,8%.
Le più attive in tal senso sono le realtà produttive medio-grandi: la necessità di aggiornare conoscenze e competenze del personale è evidenziata dal 37,1% delle imprese con 50-249 addetti e dal 40,2% per quelle con più di 250 addetti.
Tra le professioni ad alta qualificazione quelle tecniche sono il segmento per il quale emerge una maggior esigenza di aggiornamento in presenza di processi di innovazione di impresa ed è stato proprio l’Inapp a evidenziare l’impatto dell’industria 4.0 sulla domanda di lavoro e competenze. È stata anche segnalata la scarsa partecipazione alle iniziative formative e il mediocre piazzamento dell’Italia nelle classifiche sulle abilità in literacy e numeracy rilevate dal primo ciclo dell’indagine sulle competenze degli adulti nell’ambito del Programma PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), coordinato dall’Ocse.
Sostenibilità in ritardo
A fronte di diversi interventi attuati, nel sistema produttivo italiano si segnalano ancora difficoltà e ritardi riguardo al tema della sostenibilità: le relative politiche sono state infatti adottate, tra il 2018 e il 2020, solo dall’8,6% delle imprese, con quelle medio-grandi più attive in questo senso. I principali interventi hanno riguardato il miglioramento della gestione dei rifiuti (25%), l’efficienza e il risparmio energetico (14,2%) e la prevenzione/riduzione dell’inquinamento ambientale (12,4%).
Il 10,2% delle imprese italiane ha poi introdotto innovazioni in tema di competitività (in particolare le imprese medio-grandi, 20% circa) e oltre un terzo (la quota è del 35%) ha introdotto modifiche nell’organizzazione del lavoro, anche in risposta alle difficoltà derivate dalla pandemia. È poi da rilevare come la politica sembri aver dimenticato digitale e sostenibilità, fattori che abilitano una maggiore efficienza complessiva.
Rafforzare il sistema industriale nazionale
Nel Rapporto si evidenzia che occorre unire investimenti efficaci nei CpI a un rafforzamento del sistema industriale italiano: una sfida impegnativa (anzi, titanica) che però appare imprescindibile. In assenza di questa conversione del sistema-Paese, al quale partecipano i fondi del PNRR (i piani del quale possono essere velocizzati dai Digital Innovation Hub), i processi di digitalizzazione della PA, che vedranno anche l’utilizzo dell’AI, rischiano di rimanere sterili per la mancanza di un ‘interlocutore’ adeguato e non generando quindi le auspicate ricadute economiche, tecnologiche e ambientali.
L’orientamento professionale dovrà tornare ad avere ruolo centrale, non solo per gli ‘orientatori-operatori’ ma anche per gli ‘orientati-utenti’, e dovrà essere orizzontale, coinvolgendo Scuole, Università, Centri di formazione e Servizi per l’impiego.
Equità e assistenza
Prioritari saranno la formazione e l’inserimento dei giovani, mediante i quali potrà partire un circolo virtuoso di sviluppo, crescita e nuove opportunità, ma il giusto rilievo andrà dato agli adulti, che possono trovarsi in particolari condizioni occupazionali, e alle fasce a rischio di esclusione, come i disabili, le persone a rischio di povertà e gli stranieri.
Non a caso un segmento importante della relazione del Presidente di Inapp è stato dedicato all’equità, “che non deve confondersi con la mera assistenza di breve periodo, come ad esempio quella necessaria al contrasto alla povertà”. Si è parlato dello Stato come ‘datore di lavoro di ultima istanza’ che non può non farsi carico dei cittadini che, dopo gli eventuali fallimenti del mercato, mostrino il desiderio di mettersi in gioco in una nuova attività lavorativa. I modelli possibili sono diversi ma “un contrasto alla riduzione del salario reale al di sotto delle soglie di povertà potrebbe anche, in termini dinamici, migliorare i conti dello Stato a patto che la sopra menzionata azione di reindustrializzazione fosse effettivamente avviata perché foriera di un moltiplicatore del reddito che, a sua volta, avvierebbe un processo di accelerazione degli investimenti”.