C’è l’Intelligenza artificiale, la Blockchain, i Big Data e l’Innovation manager al servizio di un’Italia che sia una “Smart Nation”. C’è la trasformazione globale, il crudele Digital divide, e anche la Belt and Road Initiative cinese. Non manca proprio nulla. Nel breve discorso che il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha tenuto questa settimana al Trade and Innovation Forum di Shanghai, nel corso della sua visita di Stato in Cina, ci sono tutti gli ingredienti giusti per fare bella figura sul tema dell’innovazione digitale. Un discorso ricco di buone intenzioni, che non è però senza contraddizioni, considerato quanto il Governo ha messo, nero su bianco, nella legge di bilancio.
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Il manifesto del Governo sull’innovazione
L’intervento di Di Maio a Shanghai è stato, in pratica, il biglietto da visita e il manifesto del modo di intendere l’innovazione da parte del nuovo Governo CinqueStelle – Lega.
“Il mondo dell’impresa e del lavoro si stanno completamente trasformando grazie alla rivoluzione apportata dalle nuove tecnologie del digitale, in particolare l’intelligenza artificiale e l’automazione”, ha rimarcato Di Maio: “è una rivoluzione che ha due implicazioni fondamentali. Una sulle imprese, che devono necessariamente rinnovarsi; e una sui lavoratori, che devono essere accompagnati in un nuovo e costante percorso di formazione”. Bene, avranno pensato i cinesi di Shanghai. Ottimo programma. Lo pensiamo anche noi.
Ma al Ministro deve essere sfuggito qualche dettaglio. Per esempio, che nella legge di bilancio per il 2019, appena approdata in Parlamento, diverse misure non sembrano proprio andare in questa direzione.
Innanzitutto, in tema di investimenti per l’innovazione digitale, l’articolo 13 della manovra dimezza, dal 50% al 25%, il credito d’imposta per le spese in ricerca e sviluppo delle imprese. E dimezza, da 20 a 10 milioni di euro, il tetto massimo previsto per l’incentivo. Tutto ciò non è esattamente un incoraggiamento e un sostegno forti a spendere per rinnovarsi.
E, in più – anzi, in questo caso, in meno – per quanto riguarda la formazione professionale, il Governo “giallo-verde” sta anche tagliando le misure per l’alternanza scuola-lavoro anche per gli studenti degli istituti tecnici e professionali, sia in termini di ore dedicate sia in termini di risorse. Un passo indietro, nel non facile percorso che i giovani devono affrontare per passare dalla teoria dei banchi di scuola alla pratica operativa nelle aziende.
Infine, il taglio a zero del credito d’imposta per la formazione 4.0. Alla faccia del “nuovo e costante percorso di formazione”…
L’Innovation Act per la Smart Nation
“Il nostro obiettivo principale è rendere l’Italia una Smart Nation”, ha proclamato il Vicepremier, nonché ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, davanti alla platea internazionale, facendo riferimento proprio alla nuova legge di Bilancio per il 2019: “abbiamo individuato i finanziamenti per gli investimenti nei settori che secondo noi sono fondamentali: l’intelligenza artificiale, con un piano a livello nazionale, che sarà il principale motore di cambiamento; la tecnologia della Blockchain, che sarà il nuovo Standard per le certificazioni e le transazioni di qualsiasi tipo; il Venture capitalism, con un fondo ad hoc, garantito dallo Stato, per sostenere le imprese che si lanciano nel mondo dell’innovazione; un manager dell’innovazione digitale per ogni impresa italiana incentivato dallo Stato”. E rimarca: “queste misure saranno la base di quello che abbiamo chiamato Innovation Act”.
Intelligenza artificiale e Blockchain
Da inizio luglio l’Italia ha il suo Laboratorio nazionale di Intelligenza artificiale e sistemi intelligenti, per la ricerca, formazione e collaborazione con le industrie; una struttura a cui hanno già aderito 43 università e oltre 600 ricercatori. Al Laboratorio sono associati anche i principali centri di ricerca, come il Cnr, la Fondazione Bruno Kessler di Trento e l’Istituto italiano di tecnologia.
L’obiettivo è quello di creare un ecosistema italiano dell’intelligenza artificiale, mettendo in rete e valorizzando le migliori competenze del Paese. A contatto e in sinergia con le aziende.
Mentre a fine settembre Di Maio ha firmato – onore al merito – l’accordo di partenariato europeo sulla Blockchain, un progetto di cooperazione comune per lo sviluppo delle tecnologie per la sicurezza delle transazioni sul web, dopo che nei mesi precedenti già 25 Stati dell’Unione Europea lo avevano sottoscritto e l’Italia inspiegabilmente no.
Garantire il Made in Italy
“Stiamo investendo sulla Blockchain”, ha sottolineato il Vicepremier al Trade and Innovation Forum, “perché siamo convinti che sarà un altro elemento che condizionerà le economie di tutto il mondo. Nel nostro piccolo vogliamo iniziare introducendo questa innovazione per quello che è il nostro fiore all’occhiello: il Made in Italy. Abbiamo infatti in cantiere l’elaborazione di un protocollo Blockchain per la certificazione dei prodotti Made in Italy, così che voi abbiate sempre la certezza assoluta che il prodotto che state acquistando è stato prodotto, con amore, in Italia. E quindi ben fatto”.
Le risorse e i limiti della Manovra
La Manovra 2019 prevede, al suo articolo 19, la creazione di un fondo per favorire lo sviluppo di tecnologie e applicazioni di Intelligenza artificiale, Blockchain e Internet of Things, con una dotazione di 45 milioni di euro in totale, vale a dire 15 milioni per ogni anno del prossimo triennio 2019 – 2021, oltre a un fondo di sostegno al Venture Capital, che prevede un investimento complessivo di 110 milioni. A queste si aggiungono i 95 milioni recentemente strappati al 5G.
Risorse che possono muovere qualcosa, finanziarie qualche progetto, qualche iniziativa, ma che certo non trasformano la Penisola nell’auspicata “Smart Nation”.
Soprattutto, l’innovazione digitale e tecnologica di un Paese come il nostro non può svilupparsi solo su due pilastri, Intelligenza artificiale e Blockchain, che ricorrono in maniera quasi ossessiva negli intenti e nei provvedimenti dei Cinque Stelle, lasciando però in secondo piano altri fattori essenziali, come automazione e produzione industriale, robotica e meccatronica.
L’innovation manager
Sull’Innovation Manager Di Maio a Shanghai ha rimarcato: “l’introduzione dell’Innovation Manager garantirà importanti sgravi fiscali alle piccole e medie imprese italiane che assumono una persona in questo ruolo per accompagnare l’azienda in un percorso d’innovazione”. Vale solo la pena rimarcare che “assumono” è la stessa parola utilizzata dal Governo quando presentò la misura per la prima volta. La legge di bilancio, quella in Parlamento, dice altro: per le piccole e medie imprese che vogliano avvalersi di un consulente per la trasformazione digitale, prevede un Voucher, per un valore massimo di 40 mila euro, destinato a coprire fino al 50% delle spese sostenute nel 2019 e nel 2020 per finanziare il lavoro di un Innovation manager (temporaneo). Voucher che raddoppia nel caso in cui la richiesta arrivi da una Rete di imprese. Ma gli Innovation manager dovranno essere scelti da una lista di esperti “iscritti in un apposito elenco che preparerà il Ministero dello Sviluppo Economico”. Staremo a vedere come saranno definiti i criteri per l’accesso a questa lista.
Tim Cook, amministratore delegato di Apple, in un’intervista ha dichiarato che l’obiettivo di un Innovation manager, o meglio di un Chief innovation officer, è quello di consentire all’azienda, a un certo punto, di non avere più bisogno di lui; in pratica, di non avere più la necessità di un ruolo o di una struttura aziendale che debba essere a presidio e di stimolo all’innovazione digitale. L’obiettivo finale è quello di avere a disposizione una cultura, un’organizzazione e una capacità gestionale, in tutti i processi, permeati dalla passione e dal valore per l’innovazione.
Come sottolinea Ivan Ortenzi, Chief Innovation Evangelist di Bip Group, e autore del volume “Innovation manager”, pubblicato da FrancoAngeli, “l’Innovation manager può essere considerato una sorta di «mediatore culturale» dell’azienda, tra l’atteggiamento di difesa e di garanzia dello Status quo esistente, e la propositiva forza della creatività e dell’innovazione. Poter agire e modificare la cultura aziendale è uno dei presupposti per affermarsi come Innovation manager”.
Anche se, mette in guardia Ortenzi, “non in tutte le aziende è possibile agire sull’innovazione attraverso la nomina di un Innovation manager e la relativa costruzione di una funzione di innovazione in modo completo”.
In alcune imprese, “occorre mediare, personalizzare l’approccio e trovare i meccanismi giusti modificando il perimetro d’azione, focalizzando le attenzioni e optando per una struttura più snella”. Proprio perché lo Status quo, o certi meccanismi aziendali consolidati, possono essere tra i principali ostacoli che frenano l’innovazione digitale. E qui l’ago della bilancia sono le persone, non le tecnologie, né i finanziamenti.
La “Belt and Road Initiative” e il giudizio dei Cinesi sull’Italia
Ma per continuare con l’intervento del Vicepremier Di Maio nel corso della visita di Stato in Cina, “l’Italia è la seconda potenza manifatturiera in Europa e, nell’ambito dell’Unione Europea, occupa la quarta posizione sia come cliente che come fornitore della Cina”, ha sottolineato. “Questo rapporto vogliamo rafforzarlo e uno dei percorsi per farlo è sicuramente la Belt and Road Initiative. Un progetto di sviluppo di cui noi vogliamo essere protagonisti”.
Quella che oggi conosciamo come Belt and Road Initiative (Bri), oppure One Belt One Road (Obor), è stata ufficialmente enunciata sul finire del 2013 in occasione di due viaggi all’estero intrapresi da Xi Jinping al termine del suo primo anno da presidente della Repubblica popolare cinese e segretario del Partito comunista.
Un ampio progetto il cui scopo generale è quello di far rivivere in versione moderna lo spirito di quella sorta di “prima globalizzazione” rappresentata dall’antica Via della seta: favorire l’integrazione di tutta la massa continentale euroasiatica, dall’Asia all’Europa, attraverso lo sviluppo di reti infrastrutturali e collegamenti marittimi per incrementare gli scambi commerciali. Collegando i due terzi della popolazione mondiale e coprendo il 60% del Pil mondiale, per un piano di investimenti fino a 1.000 miliardi di dollari, secondo le stime del Center for Strategic and International Studies di Washington.
In questo quadro, “va sottolineata la natura aperta, a tutti i Paesi e alle organizzazioni internazionali, dell’intero progetto; che non segue disegni e confini prestabiliti, ma si adatta di volta in volta agli accordi conclusi e non preclude possibili nuove collaborazioni”, come rileva Diego Bertozzi, nel suo libro “La Belt and Road Initiative”, pubblicato da Imprimatur. Che fa notare: “situata in mezzo al Mediterraneo, ovvero il terminale occidentale della via marittima della seta del 21esimo secolo, l’Italia, grazie ai suoi porti e alle sue ferrovie, è considerata dai leader cinesi una risorsa fondamentale per la realizzazione complessiva della Belt and Road e il successo dei collegamenti con l’Europa centrale, orientale e settentrionale”. Da qui deriva l’interesse di Pechino a investire “nei porti italiani di Venezia, Trieste e Genova per la loro vicinanza ai mercati continentali e per i migliori collegamenti ferroviari rispetto a quelli del corridoio balcanico”.
Peccato che nella versione del dicembre 2016 della mappa di sviluppo della Belt and Road Initiative erano praticamente scomparse l’Italia e Venezia come Hub strategico: forse un monito al sistema Paese che non si è mosso abbastanza?