Le prospettive dell’industria italiana, le preoccupazioni per il 2020, ma anche una prima analisi delle misure messe in campo dal governo per il sostegno dell’industria con il passaggio da super e iper ammortamento al sistema del credito di imposta: sono stati questi alcuni dei temi chiave trattati nella puntata di questa settimana di Italia 4.0, la trasmissione di Class CNBC. A tracciare il quadro della situazione, assieme al direttore Andrea Cabrini, sono stati Alberto Dal Poz, Presidente di Federmeccanica, Giuliano Busetto, Presidente della Federazione Anie, e Alberto Ribolla, Presidente della Word Manufacturing Foundation.
Indice degli argomenti
Un 2020 ancora difficile, aspettando la ripresa
Una fotografia chiara delle tendenze economiche a breve termine arriva da Anie, la federazione a cui aderiscono 1.400 aziende del settore elettrotecnico ed elettronico, per un tale di 500.000 addetti e un fatturato aggregato, a fine 2018, di 80 miliardi di euro. “Fare una previsione è sicuramente difficile – spiega il presidente Busetto – perché ho visto un calo già nella seconda metà del 2018. Una delle nostre 14 associazioni, Anie Automazione, per fare un esempio, nel 2018 a metà anno era a + 12,7%, mentre a fine anno era scesa a +8% e, nel primo semestre 2019, è arrivata fino a -3%. Stiamo assistendo quindi a un calo drammatico che avrà ripercussioni negative nel 2020 se non ci sarà una chiara ripresa. I nostri settori sono diversificati: nel settore trasporti sappiamo che c’è una fase di consegna di molte commesse acquisite in passato. L’energia comunque reagisce, ma aspettiamo ancora che ci siano chiari segni di investimenti su alcuni ambiti, come quello delle rinnovabili. Il settore delle tecnologie al servizio degli edifici, invece, tutto sommato sta dando una risposta positiva. Ma a preoccupare è l’industria che è decisamente ferma. Nelle previsioni tutti parlano di una ripresa, nella seconda parte del 2020, ma noi forse la vedremo solo nel 2021 e questo ci preoccupa molto”.
Una preoccupazione per i prossimi mesi che arriva anche da Federmeccanica. “Nei primi nove mesi del 2019 abbiamo registrato una significativa decrescita – conclude Dal Poz – e questo è quello che ci aspettiamo anche per l’inizio dell’anno prossimo. Ci sono, però, degli elementi positivi perché siamo assolutamente convinti che la situazione di tensione tra Stati Uniti e Cina prenderà una strada di maggiore stabilità proprio perché sarà un anno di elezioni negli Stati Uniti. In più anche la Brexit in qualche modo troverà una soluzione. In tutto questo le dichiarazioni sugli investimenti svolti da player di grandi dimensioni, prima di tutto sull’industria dell’auto tedesca, porterà una concretizzazione di questi investimenti e, qualora riuscissimo a mantenere il nostro livello di specializzazione di competenza, potremmo essere terreno fertile per attrarli. Potremo di nuovo giocare il nostro ruolo, quindi, in un momento in cui prima di tutto l’industria dell’auto sta vivendo una trasformazione epocale”.
Dall’iperammortamento al credito di imposta, i dubbi delle categorie
Al centro del dibattito, oltre al quadro economico con cui si confrontano le imprese, anche le nuove misure previste dal nuovo piano di incentivi Transizione 4.0, con il passaggio da iperammortamento e superammortamento a un meccanismo basato sul credito d’imposta che, secondo il governo, dovrebbe ampliare la platea delle aziende che possono accedere a questi incentivi del 40%. Un dato, questo, che viene accolto con scetticismo dal Presidente di Federmeccanica: “Francamente, non so questo 40% da quale tipo di calcolo venga – spiega Dal Poz – perché gli strumenti a disposizione, nel piano precedente, erano automatici. L’azienda effettuava degli investimenti e, a seconda del livello di penetrazione digitale, aveva un incentivo fiscale”.
Il governo sostiene che questi provvedimenti sono più vicini alle piccole e medie imprese anche nella modulazione delle aliquote, ma anche su questo non mancano i dubbi. “Aspettiamo la prova dei fatti – continua Dal Poz – ma bisogna capire quanto questo strumento sia coerente con un momento in cui gli investimenti sono in sofferenza. Non è tanto il fatto che ci sarà una transizione tecnologica che è intorno a noi e che è inevitabile, ma è la velocità di questa transizione che è il problema. E, in un momento in cui bisogna essere assolutamente rapidi, serve una politica industriale che punti ad ascoltare immediatamente i bisogni delle filiere, anche delle aziende più piccole, e che cerchi di mettere a disposizione sostegni alla formazione delle persone, per rispondere ai bisogni formativi e soprattutto professionali delle aziende. Se avessero chiesto che cosa ne pensano le piccole e medie imprese, quelle di Federmeccanica sarebbero andate molto volentieri. Invece non c’è stato un dialogo diretto con il ministro Di Maio e non c’è ancora nemmeno con il ministro Patuanelli”.
La preoccupazione è che ci sia stata attenzione sopratutto per le aziende di grandi dimensioni con problematiche, anche sociali, importanti. “Io non le voglio sottovalutare – prosegue Dal Poz – ma per essere pronti alle sfide che ci aspettano sarà compito delle aziende che si trovano nella parte bassa delle filiere mantenere i propri posti di lavoro”.
Ribolla: “Piano Calenda funzionava perché era semplice e valeva per tutti”
“Il piano Calenda andava bene perché era trasversale – spiega Ribolla – per settore e dimensione, non agevolava la meccanica rispetto alla chimica e non aiutava la grande impresa rispetto alla media o alla piccola. Il primo disvalore è stato già cambiare questo: perché modificare uno strumento che funziona? Manteniamolo e andiamo avanti”.
La motivazione del cambiamento, secondo il ministro Patuanelli, è stata quella di un indebolimento della spinta che gli incentivi davano all’industria. “Su questa dichiarazione mi permetto di non essere d’accordo – prosegue Ribolla – anche perché, secondo me, era un sistema che funzionava perché era semplice, automatico e valeva per tutti“.
Per Ribolla, quindi, il cambiamento è stato un “disvalore” al quale si aggiunge anche qualche lacuna in merito ai temi della formazione. “Dobbiamo fare leggi applicabili a tutti quelli che innovano e investono, leggi automatiche e semplici. La seconda cosa – e qua purtroppo anche il piano Calenda era un pochino debole – è che in questa nuova riformulazione non ho visto un ulteriore incentivo alla formazione delle persone. Se pensiamo alle stime del rapporto McKinsey, che prevede, dal 2015 al 2030, un nuovo lavoro, sopratutto nel settore 4.0, per 800 milioni di persone, a fronte di 450 milioni che lo perderanno, dobbiamo far sì che questi nuovi posti vadano esattamente dove si perdono i vecchi. Ma se non investiamo in formazione come facciamo a generare queste nuove professionalità? Su questo tema era già lacunoso il piano Calenda, figuriamoci adesso…”.
Anie, serve continuità delle misure per evitare un clima di incertezza
Il rischio di queste politiche, però, è che le aziende, invece di andare nella direzione della digitalizzazione, possano, una volta raccolto l’incentivo fiscale, non proseguire il percorso di digitalizzazione. “È difficile dare una risposta certa – dice il Presidente Busetto – anche perché credo che siamo molto indietro nell’aspetto legato alla digitalizzazione d’impresa. È per questo che, come Federazione Anie, vogliamo una continuità degli incentivi per 3 anni perché quello che abbiamo visto è che ridiscutere ogni anno se rinnovare o meno gli incentivi determina comunque una forte incertezza nelle imprese. Se è vero che ci sono 7 miliardi di euro di copertura per il primo anno e poi il governo si impegna a continuare a garantire la stessa cifra nel 2021 e 2022, allora siamo favorevoli”.
Sul tema della formazione, invece, la vera domanda è capire se le aziende che si trovano di fronte a tipologie di lavoro come quelle legate all’analisi dei dati nel ciclo produttivo, impensabili solo 10 anni fa, hanno effettivamente investito. “Probabilmente non in modo così evidente – continua Busetto – anche perché la piccola e media impresa italiana, forse, non ha avuto le risorse per capire in che modo implementare la digitalizzazione all’interno del proprio assetto produttivo. Secondo me abbiamo visto solo una prima fase, molto spinta sul ricambio e l’acquisto di nuove macchine, ma ora credo che dobbiamo basare la nostra spinta sulla continuità. Sono questi le osservazioni che noi abbiamo fatto al Ministero dello Sviluppo Economico, per spiegare come oggi quello che è mancato è stato il riportare in primo piano, l’importanza dell’Industria, del manifatturiero in Italia”.
La sfida della formazione, integrare tradizione e nuovi saperi
Punto fondamentale resta quello della formazione delle persone che, nelle imprese manifatturiere, devono trovare un giusto equilibrio tra vecchie e nuove competenze.
“La vera problematica – spiega Dal Poz – è legata al fatto che è necessario far coabitare, all’interno delle nostre aziende, saperi tradizionali in un ambito che si deve sforzare di diventare sempre più digitale, dove il digitale deve essere una caratteristica decisamente fruibile da parte dell’azienda e non solo un elemento che serve per ottenere o non ottenere uno sgravio. L’adeguato mescolarsi di competenze più tradizionali con quelle più attuali, necessarie per i bisogni del mercato di domani, è la prossima sfida e diventa anche un elemento di carattere sociale perché significa poter affiancare competenze forse più facili per i nativi digitali a saperi tradizionali in mano a lavoratori più esperti”.
Una formazione che è anche uno degli elementi fondanti del contratto dell’industria metalmeccanica, che prevede, oltre a un numero base di ore obbligatorie, anche una formazione aggiuntiva rispetto a quella obbligatoria, quale strumento di crescita e di adeguamento ai bisogni del mercato.
“Nel 2020 si entrerà nel vivo di un confronto per il nuovo contratto – sottolinea Dal Poz – e la richiesta da parte del sindacato è stata quella di un aumento dell’8%. Si tratta di un incremento poco coerente con le difficoltà del mercato e con la visione incerta che abbiamo tutti noi imprenditori. Il vero limite è che le aziende che applicavano formazione diffusa continuano a farlo, e lo fanno sempre meglio, ma a noi interessano le aziende che sono rimaste un po’ indietro. Lo sforzo congiunto deve essere avvicinarsi alle aziende che non sono ancora riuscite ad adottare questi strumenti”.
Caso Ilva, Dal Poz: “specchio di una politica anti industriale”
Tra le ipotesi di sviluppo rese possibili dal paradigma Industria 4.0 molti analisti vedono con interesse la possibilità di un reshoring, del ritorno di imprese che avevano delocalizzato e che ora, grazie a un costo del lavoro competitivo, unito a nuove competenze 4.0, potrebbero decidere di rimpatriare alcune produzioni. Il problema, però, sono i segnali che arrivano dalla politica.
“Proviamo un senso di smarrimento nel vedere come, in un periodo in cui la specializzazione resta l’elemento fondante delle nostre filiere e dove la competizione a livello di costi, anche quelli del personale, porterebbe ad avere una posizione di maggior vantaggio per l’Italia, viene svilita da una politica che si è dimostrata assolutamente anti industriale, anti multinazionale e anti sviluppo”, spiega Dal Poz. “Come si può pensare di essere attrattivi se si cambiano le regole del gioco mettendo in discussione alcune scelte fatte da grandi gruppi che avevano investito poco tempo fa?”.
Il riferimento è all’ex Ilva che prefigura uno scenario molto complesso per l’industria meccanica che, senza materia prima a disposizione, rischia di dipendere solo dai mercati esteri: una prospettiva che fa paura a tutti, oltre naturalmente all’impatto di un eventuale ulteriore crisi di Taranto e della sua acciaieria.
“Sono un grande difensore della produzione di acciaio in Italia, perché serve alle nostre filiere, e quindi l’effetto è che il cambiamento delle regole del gioco ha determinato un ulteriore senso di incertezza nei confronti di un grande investitore che si era impegnato a seguire un piano assolutamente ambizioso”, sottolinea Dal Poz. “Il problema delle nostre filiere riguarda, soprattutto, chi farà della disponibilità di acciaio di prossimità, cioè vicino al luogo di utilizzo, un fattore di competitività. Mi ha fatto molto preoccupare vedere le dichiarazioni di big del settore della cantieristica che dicono che sarebbero molto meno competitivi qualora non avessero a disposizione acciaio vicino a loro”.
“Noi siamo già un paese in decrescita – aggiunge Busetto – e siamo la seconda manifattura d’Europa ma, se non ci diamo una mossa, continuo a dire che saremo la terza se non la quarta. Sul caso dell’Ilva non entro nel merito, però abbiamo tecnologie abilitanti anche per l’aspetto ambientale. Auspicavano grandi investimenti e dal punto di vista personale, essendo entrato come giovane neolaureato a fornire tecnologia all’acciaieria, è un peccato vedere un impianto eccezionale dal punto di vista della produttività ridotto in queste condizioni. Abbiamo visto anche in Germania le attività che sono state fatte e ci sono una serie di analisi su tecnologie che, oggi, consentono di produrre acciaio in maniera sostenibile: una cosa che è fondamentale anche per l’industria automobilistica. Abbiamo bisogno, veramente, di un’attenzione da parte dei nostri politici affinché vedano l’industria non come un demonio ma come un fattore positivo, una bella fata che aiuti il paese a crescere”.