L’avvio delle ostilità belliche tra Russia e Ucraina è destinato a lasciare una traccia profonda nell’economia dell’Italia (e dell’UE). Ne sono convinti gli analisti dell’istituto indipendente per la ricerca economica Prometeia.
Secondo gli analisti ci sono diverse dimensioni economiche su cui la crisi generata dalla guerra in Ucraina ha avuto un impatto forte, che avrà conseguenze di lungo termine:
- L’inflazione, prevista al 5% in Italia nel 2022, agirà comprimendo la spesa di famiglie e imprese
- Le catene globali di fornitura potrebbero subire nuovi arresti
- Le banche centrali dovranno cambiare il proprio approccio
- I mercati finanziari temono l’incertezza
- Le politiche di bilancio sono orientate ad attenuare gli impatti degli aumenti nel breve periodo, ma non appaiono in grado di far recuperare il rallentamento del Pil.
“Se fino a poche settimane fa c’erano tutte le condizioni per lasciarsi alle spalle gli ultimi due anni di pandemia, l’invasione dell’Ucraina ha cambiato la prospettiva, non solo per i suoi drammatici risvolti, ma anche in termini geopolitici ed economici”, spiega l’istituto nella nota che accompagna lo studio. Ma “a differenza di quanto avvenuto in occasione di altre crisi, stavolta la cesura con il passato è molto più forte, tanto da aprire una nuova era per l’economia”.
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L’inflazione
L’aumento dei prezzi dei beni energetici su base annua è balzato, in questi primi mesi dell’anno, al 124% per i prezzi alla produzione, al 46% per i prezzi al consumo, al 96% per le tariffe di gas ed energia elettrica per le famiglie.
In contemporanea, però, l’aumento dei costi delle imprese si sta scaricando a valle su tutta la filiera dei prezzi: quelli alla produzione dei manufatti hanno raggiunto il 12% e l’inflazione core è salita all’1,8% dallo 0,8 di un anno fa.
Prometeia rivede al rialzo la stima per l’inflazione, che salirebbe al 5% quest’anno, un livello che non si registra dagli anni ‘80, per poi scendere all’1,8% in media l’anno prossimo.
La fiammata dei prezzi avrà come conseguenza diretta la riduzione della spesa di famiglie e imprese, minate nel potere d’acquisto e nella fiducia.
Gli interventi messi in campo dal governo, benché importanti, non sono al momento sufficienti a compensare tali effetti. Se la spesa nominale rimarrà nel complesso invariata (essendo frutto del prodotto tra prezzi in aumento e volumi in riduzione), il suo corrispettivo in termini di beni e servizi acquistati sarà per due punti percentuali assorbito dalla maggiore inflazione.
Anche per le imprese gli effetti saranno molto differenziati a seconda dell’intensità energetica delle produzioni, ma in media peseranno sia l’aumento dei costi sia il deterioramento delle attese di domanda interna ed estera.
Le catene globali di fornitura
Se appena l’1,6% delle esportazioni totali italiane va in Russia e lo 0,6% in Ucraina, l’impatto non è equamente distribuito tra i vari settori economici. Alcuni comparti specifici, come i macchinari, la moda, l’abbigliamento e calzature, i prodotti farmaceutici, ne risentiranno maggiormente, così come alcune aree territoriali: basti pensare che oltre il 75% dell’export italiano in Russia proviene da Lombardia, Emilia Romagna e Veneto; inoltre in alcuni distretti, come il calzaturiero marchigiano, il mercato russo rappresenta una quota importante del fatturato.
Altrettanto rilevante è il problema dei rifornimenti di alcune materie prime e semilavorati di cui Russia e Ucraina detengono una quota di mercato significativa e che rappresentano importanti input per alcune produzioni meccaniche (auto innanzitutto) e l’industria ceramica ma anche per i fertilizzanti e la filiera agroalimentare.
Ma in un mondo interconnesso, con catene del valore complesse, gli effetti sulle economie potrebbero andare al di là di quello che suggeriscono i dati sull’interscambio diretto. Le catene globali di fornitura che, dopo le difficoltà incontrate lo scorso anno, sembravano essersi avviate alla normalizzazione, potrebbero dunque subire un’altra battuta di arresto, mettendo in seria difficoltà la ripresa della produzione.
La soluzione di “regionalizzare” gli scambi e ridurre le catene di fornitura può avere indubbi vantaggi in situazioni come quelle vissute durante i due anni di pandemia e ora con la guerra, ma per un settore manifatturiero aperto agli scambi come quello italiano si traduce inevitabilmente in maggiori costi di produzione e minori mercati di riferimento (e relativo potere d’acquisto per le famiglie).
L’approccio delle banche centrali
La Bce nell’incontro di marzo ha mandato un segnale restrittivo, anticipando la chiusura del programma di acquisti APP. La Fed deve affrontare un’inflazione che a febbraio ha raggiunto quasi l’8% e, con un’economia in forte espansione, le attese dei mercati al momento sono per aumenti complessivi di 200 punti base entro la fine dell’anno. La postura più restrittiva peserà sull’andamento dell’attività economica, dei mercati finanziari e dei climi di fiducia.
Per contro si profila una risposta espansiva della politica di bilancio in Europa e un’ulteriore sospensione delle regole di bilancio europee (si pensi a quanto fatto con il nuovo quadro temporaneo degli aiuti di Stato); inoltre si potrebbe arrivare a spese comuni per la difesa, per ridurre la dipendenza energetica e per accogliere i profughi ucraini.
Quanto ai tassi di interesse, secondo Prometeia nell’area Euro si vedranno i primi rialzi solo a inizio 2023, nonostante un’inflazione che a fine anno potrà attestarsi tra il 3,5% e il 4% (ricordiamo che in teoria i tasis di interesse seguono l’andamento dell’inflazione).
La crescita del Pil dell’eurozona per quest’anno è prevista al 2,2%, una cifra che “sottende una sostanziale stagnazione una volta depurata dall’effetto trascinamento (1.9pp), pur con significative differenze tra i principali Paesi dell’area”.
Non va sottovalutato il rischio che la pandemia possa poi frenare ulteriormente la crescita. Lo scenario preso in esame dall’analisi considera una crescente incertezza per la guerra e per i più alti prezzi delle materie prime e dell’energia “che esercitano effetti deflativi non trascurabili soprattutto nei Paesi più esposti al mercato russo dei beni (Germania e Italia) e finanziario (Austria e Olanda), a causa della minore crescita dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese”.
Il peso dell’incertezza sui mercati finanziari
Le relazioni finanziarie con la Russia (e le relative sanzioni) coinvolgono fortunatamente in misura limitata le istituzioni finanziarie italiane, anche se le nostre banche appaiono fra le più presenti su quel mercato.
Il sistema bancario europeo è esposto verso la Russia per circa cento miliardi di euro tra crediti e altre attività in valuta estera e valuta locale, pari allo 0,7% del Pil europeo (l’Italia per circa 30 miliardi, pari a circa 1,5% del Pil). L’esposizione verso l’Ucraina è molto più contenuta.
Tuttavia gli effetti sono amplificati dall’incertezza: le condizioni nei mercati finanziari di tutto il mondo si sono irrigidite, con premi al rischio più elevati che non hanno tardato a essere richiesti anche sul nostro debito sovrano, con un aumento dello spread rispetto al Bund tedesco (nonostante la Germania abbia una maggiore esposizione dell’Italia all’economia russa). A fine gennaio lo spread era a quota 130, è poi risalito fino a superare i 170 punti per poi ripiegare intorno a quota 150.
A questo va aggiunto che, in uno scenario in cui il conflitto sia protratto, la Russia potrebbe decidere di fare default sul debito estero.
Le politiche di bilancio
La crisi Ucraina ha modificato anche le prospettive per la politica di bilancio, impegnata nel 2022 anche ad attenuarne l’impatto su famiglie e imprese degli aumenti dell’energia e per accogliere i rifugiati dall’Ucraina.
Per mitigare gli effetti dei rincari, il governo è già intervenuto e per l’anno in corso le misure deliberate ammontano a oltre 10 miliardi di euro. Dato il perdurare degli alti prezzi energetici, Prometeia ipotizza che tali interventi, al momento relativi solo ai primi due trimestri, saranno replicati anche per la seconda metà dell’anno. Nel complesso, le misure di sostegno inserite nello scenario saranno compatibili con un disavanzo che si attesterebbe al 5,8% del Pil. Per il 2022, inoltre, viene mantenuta l’ipotesi che l’implementazione del PNRR contribuirà alla crescita del Pil per circa lo 0,4%, come stimato in precedenza.
Nelle stime Prometeia il prodotto interno lordo del nostro Paese per il 2022 segnerà +2,2% (dal 4% di dicembre). Una revisione basata sull’ipotesi che i fattori di traino della crescita non siano venuti meno e riprendano il sopravvento a partire dall’estate, riportando in crescita l’economia italiana, dopo un primo trimestre dell’anno in contrazione. Tale percorso tuttavia rimarrebbe frenato da prezzi dell’energia costantemente più alti e che quindi non recupera, nell’orizzonte di previsione, i livelli che prevedevamo a dicembre, configurando quindi un livello di attività minore.