Lo Scenario

Come stanno cambiando le catene di fornitura: verso un nuovo equilibrio fra globalizzazione e autonomia

Il Rapporto Catene di fornitura di Confindustria evidenzia diversi cambiamenti più o meno evidenti in atto sullo scacchiere internazionale, analizzandone l’impatto soprattutto sulle imprese che operano nel settore manifatturiero

Pubblicato il 23 Set 2023

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La globalizzazione, impetuosa all’inizio del millennio e poi più lenta (detta per questo anche slowbalization), rimane uno dei fenomeni più profondi e complessi, con dinamiche eterogenee lungo le sue molteplici dimensioni. I commerci globali sono ancora una quota importantissima del PIL mondiale ma il Rapporto Catene di fornitura di Confindustria evidenzia diversi cambiamenti più o meno evidenti.

Merci e servizi, una rete globale

Nel rapporto del Centro Studi di Confindustria si nota subito come il volume degli scambi mondiali di beni sia aumentato in rapporto alla produzione industriale ma la stessa cosa non si può dire del PIL. Esso è infatti frenato dalla terziarizzazione dei paesi emergenti e risente delle fluttuazioni nei prezzi delle commodity. In ogni caso il commercio di beni nel 2022 è risalito al 25% del PIL globale, riportandosi ai livelli pre-crisi finanziaria del 2008.

L’importanza dei flussi internazionali di servizi, come quelli professionali alle imprese, cresce avvertibilmente anche grazie agli avanzamenti digitali e alle competenze disponibili nei Paesi emergenti: un esempio per tutti possono essere le imponenti commesse di sviluppo software vinte da paesi come l’India. Nel 2022 gli scambi mondiali di servizi hanno superato il 7% del PIL, una quota raddoppiata rispetto all’inizio degli anni Novanta.

Una geografia sbilanciata a Est

Per quel che riferisce alla struttura geografica degli scambi di beni, il Rapporto Catene di fornitura di Confindustria evidenzia l’esplosione della Cina e dell’Asia emergente come un fattore forte di globalizzazione: la barriera agli scambi intercontinentali si è abbassata. Il CSC ha costruito due indicatori di regionalizzazione degli scambi ma entrambi non evidenziano una chiara tendenza alla regionalizzazione, segnalando una stabilizzazione dell’estensione globale del commercio.

Le macroaree appaiono eterogenee: la Cina rimane il ruolo di primo esportatore mondiale, ha ridotto il peso delle esportazioni rispetto al PIL mentre gli scambi dei Paesi asiatici sono sempre più globalizzati. Viceversa l’industria europea rafforza la propria internazionalizzazione ma punta di più sulla componente regionale degli scambi.

Catene del valore resilienti

Le catene globali del valore (GVC) si sono dimostrate robuste anche in questo difficile triennio. Gli scambi di beni intermedi che entrano in processi produttivi all’estero sono tornati mediamente ai livelli pre-crisi finanziaria del 2008, superandoli nella maggioranza dei Paesi avanzati ed emergenti ma non in Cina.

La struttura geografica dei beni di investimento e intermedi specifici, come parti e componenti, molto integrati nelle GVC, appare globalizzata e stabile nel tempo. Tra le filiere si segnalano come più regionalizzate quelle agro-alimentare e delle costruzioni e più globalizzate quelle della salute e del tessile.

Un WTO da ripensare

L’Unione Europea ha contribuito alla globalizzazione degli scambi grazie ad accordi commerciali tra paesi distanti ma le tensioni negli ultimi anni hanno aumentato le misure protezionistiche, facendo entrare in crisi l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Il suo ruolo non può infatti essere svolto da organismi non-intergovernativi, quali il G7 e il G20, dato che non hanno organi stabili e le loro decisioni non sono vincolanti. Il futuro del sistema delle regole mondiali del commercio richiede quindi una profonda riforma del WTO.

Globalizzazione solo fra Paesi amici?

L’aggressione russa all’Ucraina ha ampliato le distanze politiche tra Stati Uniti e le potenze asiatiche, anche se più con la Cina che con l’India, rendendo la globalizzazione selettiva nel senso che si insaturano legami preferenziali fra Paesi amici. Si inseriscono in questo quadro le politiche per l’autonomia strategica dell’industria europea.

Sono evidenti da tempo segnali di disaccoppiamento (decoupling) delle traiettorie tecnologiche di Stati Uniti e Cina nei settori legati alla transizione verde e digitale e, in effetti, la quota di mercato cinese negli USA si è ridotta di 4 punti percentuali dal 2018. Questo è l’effetto netto di una forte riduzione nell’import di supporti elettronici e un aumento altrettanto forte delle importazioni di batterie al Litio. C’è anche da dire che l’Inflation Reduction Act, che premia le produzioni statunitensi, potrebbe ridurre questa fiammata dell’import delle batterie, strettamente connessa alla riduzione delle emissioni sia dei trasporti sia nella generazione dell’energia.

Il CSC evidenzia che il decoupling USA-Cina si può realizzare solo se è presente almeno una di queste condizioni: una capacità produttiva domestica incrementabile nel breve periodo o fornitori alternativi “amici” specializzati nella stessa tipologia di prodotto.

Politiche diverse nel globo

Il rapporto di Confindustria evidenzia come la UE si sia concentrata sull’analisi e sulla riduzione delle dipendenze nei settori tecnologici e industriali ritenuti strategici: in questo modo il mercato unico dovrebbe essere più resiliente e consentire il dispiegamento del Green Deal e della Strategia Digitale. L’approccio regolatorio, come stabilito dalla Strategia Industriale del 2020, sembra però mancare di un congruo sostegno di strumenti e risorse comunitari, indispensabili per attivare i sostanziosi investimenti necessari, pubblici e privati, necessari.

Da più parti ci si è anche lamentati di un approccio comunitario che sembra privilegiare più l’innovazione che la produzione industriale.

Gli Stati Uniti hanno scelto una strada diversa, rispetto all’approccio europeo, per i 3 provvedimenti sinergici, generosamente finanziati, varati tra il 2021 e il 2022. Essi potenziano la capacità produttiva americana sia direttamente sia tramite il rafforzamento della macroregione, inducendo inoltre un ripensamento della catena dei fornitori in base all’affinità politica.

Il successo globale dell’industria cinese è anche conseguenza del piano Made in China 2025, finalizzato a rendere la Cina potenza tecnologica globale entro il 2049. I progressi cinesi, tecnologici e industriali sembrano però accompagnati dai limiti di 2 importanti iniziative: la Belt & Road Initiative ha reso la Cina il principale creditore internazionale di molti paesi emergenti, non sempre in grado di ripagare i debiti, mentre il Regional Comprehensive Economic Partnership è un estesissimo patto commerciale ma appare poco più di un taglio dei dazi.

Il settore manifatturiero e le catene del valore

La dicotomia fra apertura commerciale e autonomia nazionale è una costante che accompagna da sempre le relazioni economiche fra Stati. Occorre infatti ricordare che il primo nucleo dell’Unione europea è stata la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, nata per assicurare libero accesso a prodotti strategici.

Il modello di sviluppo italiano si è sempre fondato sull’attività manifatturiera, cioè di trasformazione di materie prime e semilavorati, compresi ovviamente quelli importati. Le GVC propagano e amplificano gli effetti degli shock tra nodi produttivi, anche non connessi direttamente, e occorre tener conto che più di un terzo del manifatturiero italiano partecipa alle GVC.

Dipendenze critiche nelle forniture

Anche la UE è in una situazione simile e quindi la Commissione Europea ha avviato uno studio delle vulnerabilità delle catene di approvvigionamento, per elaborare politiche industriali mirate. Il Centro Studi Confindustria, espandendo l’analisi della Commissione, ha identificato, con un fine dettaglio merceologico, le dipendenze critiche dei paesi UE dall’estero anche in confronto con quelle di Stati Uniti e Cina. I criteri per assegnare il tag di prodotto critico riguardano la diversificazione geografica dell’import, la sostituibilità con l’export e, per i paesi UE, la sostituibilità con gli scambi intra-area.

Si è visto che nell’ultimo decennio è risultato critico circa l’8% in valore delle importazioni europee dalle aree extra-UE. Si tratta di circa 380 prodotti, poco meno dell’8% di tutti quelli importati: l’Unione è vulnerabile soprattutto nelle filiere dell’ICT e, in misura minore, nell’agro-alimentare e nel tessile.

È interessante rilevare che le dipendenze europee risultano minori, in numero e valore dei prodotti di quelle evidenziate dagli Stati Uniti e dalla Cina. L’import critico UE è piuttosto stabile nell’ultimo ventennio, a fronte di una crescita di quello sperimentato da Cina e USA ma si segnala come la Cina sia sempre più la fonte principale delle vulnerabilità degli Stati Uniti e, ancor di più, dell’Unione europea.

Offshoring e non solo

La deduzione che se ne fa è che le dipendenze critiche europee sono generalmente il risultato di scelte di lungo periodo di specializzazione e riallocazione delle filiere produttive connesse alla crescita dei paesi emergenti, Cina in testa. Le vulnerabilità italiane nelle forniture concernono il 16% dell’import in valore e il 7% delle varietà di prodotto, percentuali paragonabili a quelle di Germania e Francia.

L’import critico italiano è piuttosto diversificato in termini di origine dei prodotti, a differenza sia di quello tedesco e francese sia di quello dell’intera UE, che vedono una prevalenza della Cina. Le vulnerabilità italiane in valore riguardano perlopiù la filiera delle commodity, della chimica e dell’energia. Quelle di Germania, Francia e attengono soprattutto la filiera dell’ICT, dei media e computer.

Le criticità negli approvvigionamenti industriali

L’analisi alle forniture industriali (input intermedi e beni di investimento) ha indicato 333 prodotti critici rispetto ai quali l’industria italiana è stabilmente vulnerabile negli ultimi anni: essi equivalgono al 9% del valore dell’import italiano, ossia circa 17 miliardi di euro. Si confermano esposti settori quali commodity, chimica ed energia, seguita dai trasporti; come varietà di prodotti si aggiungono anche il tessile e i metalli.

Esaminando i dati dal punto di vista dell’origine la Cina è di gran lunga il maggiore forniture di prodotti critici per l’industria: 25% in valore (principalmente ICT) e 22,5% in varietà, particolarmente nel tessile. A seguire, come numerosità di prodotti, compaiono Stati Uniti, Turchia e India ma la situazione cambia radicalmente considerando il valore, nel quale la Svizzera balza al secondo posto grazie farmaceutica e chimica.

Forniture a rischio

Riorganizzando i dati in base alla strategicità dei prodotti, emerge che i prodotti critici per l’industria italiana considerati strategici sono 148, che valgono sono il 61% dell’import critico in valore. Si tratta principalmente di minerali, metalli o altre materie prime e di prodotti farmaceutici e principi attivi, che riguardano soprattutto le filiere delle commodity-chimica-energia, della salute e dell’ICT.

Considerando invece il fattore geopolitico o climatico si vede che quasi la metà delle forniture critiche dell’industria italiana è ad alto rischio: il 49% in valore e il 46% in varietà. Sono circa 100 i prodotti per i quali l’approvvigionamento avviene in paesi extra-UE con un rischio politico medio-alto: si tratta soprattutto di minerali e prodotti in metallo con in evidenza le filieredei trasporti, del tessile e dell’agroalimentare. Aggiungendo il rischio climatico, la filiera tessile continua a presentare forti criticità insieme a quella dell’ICT, dei media e dei computer.

Le imprese italiane e le loro dipendenze internazionali

Lo studio del CSC analizza ovviamente in dettaglio le mosse delle aziende italiane che, come visto più sopra, sono molto inserite nelle GVC. In effetti far parte di queste catene offre vantaggi: ci si può concentrare nelle attività core, sfruttando una certa divisione internazionale del lavoro; è più facile arrivare alle economie di scala; si gode di un travaso di produttività dai legami con multinazionali innovative e produttive; riduzione dei costi di transazione grazie a una maggiore selezione dei partner commerciali e allo sviluppo dell’innovazione tecnologica.

Il “cigno nero” dell’ultimo triennio ha evidenziato che gestire le interdipendenze globali produttive e di fornitura si è rivelato problematico e questo è ancor più difficile per quelle imprese inserite in una filiera internazionale con scarsa varietà dei fornitori. In questa situazione appare prioritario considerare il trade-off tra lo sfruttamento dei vantaggi competitivi di costo e la vulnerabilità, perché la catena di fornitura non è più forte del suo nodo più debole.

Strategie di resilienza

Queste difficoltà danno quindi un ruolo sempre più rilevante all’aumentare la resilienza delle catene globali del valore, cosa che dà una maggiore la capacità di reagire a eventi imprevisti e imprevedibili salvaguardando l’efficienza dell’azienda. Si può pensare alla rilocalizzazione delle attività – di produzione e/o di fornitura – in un paese diverso così come all’ampliamento (redundancy) o alla diversificazione dei fornitori.

Il reshoring produttivo è in generale più complesso rispetto a quello di fornitura, a causa anche degli elevati investimenti effettuati nel paese di destinazione, praticamente irrecuperabili. Occorre inoltre la presenza di reti di fornitura strutturate e quindi capaci operare nel Paese nel quale si rilocalizza la produzione.

Il rientro di attività produttive nella UE favorirebbe una reindustrializzazione ma richiede risorse umane e competenze specifiche la cui disponibilità immediata è tutt’altro che scontata Il backshoring di produzione potrebbe anche causare un aumento dei prezzi – nel caso che la tecnologia non abbia reso competitiva l’attività inhouse rispetto a quella esternalizzata – e quindi è consigliabile solo nei settori strategici.

In effetti una survey di CSC e Reshoring for Italy del 2021 ha evidenziato un uso limitato del backshoring di produzione (totale o parziale). Le principali motivazioni di chi l’ha effettuato attengono all’aumento dei costi (connessi anche alla crescita dei paesi di offshoring) e ai tempi nella gestione della catena globale di produzione

Le opportunità del reshoring di fornitura sono principalmente un mino costo economico ma esso è attuabile solo in presenza di fornitori idonei nel paese in cui l’impresa vuole rilocalizzare. Un’indagine dell’Economist dell’anno scorso ha evidenziato che è aumentata la quota di imprese che adottano, come strategia primaria, il nearshoring, rilocalizzando le proprie forniture in paesi geograficamente più vicini, o il backshoring, nel paese di origine.

I risultati della survey CSC & Re4It e di una del Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere (aprile 2023) confermano l’importanza del backshoring di fornitura tra le imprese manifatturiere italiane, motivate da maggiore resilienza, minore distanza e miglioramento della qualità dei prodotti.

Avviciniamo i fornitori

Circa il 75% dei rispondenti all’indagine CSC & Re4It ha acquistato forniture totalmente o parzialmente da imprese estere e, fra queste ultime, il 21% ha effettuato un backshoring totale o parziale di fornitura. Fra le imprese intervistate dal Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere l’aumento dei fornitori italiani oscilla tra il 15% (nella stessa regione) e il 20% in Italia ma fuori regione.

È interessante notare che la scelta del backshoring di fornitura è compatibile con l’offshoring di produzione: la rilocalizzazione della catena di fornitura non comporta necessariamente lo spostamento attività produttive all’estero e in certi casi rafforza la catena globale del valore.

Ripensare le catene di approvvigionamento

Secondo il Centro Studi di Confindustria il back/nearshoring dovrebbe essere incentivato non da politiche ad hoc ma da iniziative per l’attrattività del territorio e la competitività delle imprese. Sono ipotizzabili sinergie con le politiche già esistenti per il Green New Deal, la digitalizzazione e lo skill upgrading, ricordando la criticità delle risorse umane in questi processi.

Con riferimento al Green New Deal, l’accorciamento e la regionalizzazione delle catene del valore va nella direzione della sostenibilità, in quanto consente la riduzione delle emissioni e un maggior controllo etico-sociale delle produzioni.

La ricerca di Confindustria evidenzia inoltre come l’accorciamento delle filiere globali sarebbe sinergico all’adozione di modelli alternativi a quello lineare della produzione, come ad esempio l’economia circolare. Questa modalità è più attuabile in un contesto nazionale o europeo, avvantaggiato inoltre da normative e moneta comuni e minori costi di transazione.

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Nicodemo Angì

Metà etrusco e metà magno-greco, interessato alle onde (sonore, elettriche, luminose e… del mare) e di ingranaggi, motori e circuiti. Da sempre appassionato di auto e moto, nasco con i veicoli “analogici” a carburatore e mi interesso delle automobili connesse, elettriche e digitali.

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