Innovazione, sostenibilità, robotica, Intelligenza artificiale, leadership. Sono alcuni dei principali motori delle trasformazioni in corso, nelle aziende come nel lavoro di tutti i giorni. E sono anche i temi di alcuni libri e saggi che vogliono inquadrare e interpretare questi cambiamenti, le nuove tendenze e necessità.
L’innovazione vera non si fa solo con le nuove tecnologie, ma anche con le nuove conoscenze e competenze per farle funzionare al meglio. Servono visione del futuro e capacità tecniche, insieme. Allo stesso tempo, la diversità dei gruppi di lavoro può consentire a piccole aziende e organizzazioni di raggiungere risultati che sono preclusi anche a realtà e associazioni più grandi e organizzate. Vediamo perché e come.
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L’alfabeto della sostenibilità
La Sostenibilità va di moda, anche troppo, almeno a parole. Il termine si ritrova sempre più spesso nelle dichiarazioni dei politici, nelle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, nel PNRR, nella pubblicità di molti prodotti. Tutto questo ha indotto molti a ritenere che la parola sia così tanto abusata da essersi anche ‘bruciata’ sul piano culturale. Se invece si indaga più a fondo, si scopre che il concetto è stato preso molto seriamente da soggetti abituati alla concretezza e alla lungimiranza, come le imprese di successo.
Le storie raccontate in ‘L’alfabeto della sostenibilità’, di Francesco Morace e Marzia Tomasin, pubblicato da Egea – Bocconi University Press, con ’26 modi per essere sostenibili’ come indica il sottotitolo, dimostrano senza ombra di dubbio che la scelta della sostenibilità, inizialmente costosa, procura poi grandi vantaggi. Il costo è legato non tanto e non solo alle spese che bisogna sostenere per modificare i processi produttivi e organizzativi, ma soprattutto al cambiamento di paradigma culturale che questa nuova dimensione comporta.
Vengono approfonditi e analizzati i casi, ad esempio, di Enel, Samsung, Toyota, Guzzini, Lavazza, Olivetti, Alce Nero, e altri ancora. E, come evidenziano gli autori, le recenti sentenze e gli interventi “che tendono ad arginare lo strapotere delle Big Tech cominciano a indicare la strada”, così come il lavoro sempre più serio e approfondito di molti imprenditori, top manager e operatori che considerano i 17 obiettivi dell’Agenda ONU 2030 come parte integrante della vision e della mission aziendali. Nei loro bilanci di sostenibilità e spesso anche nei loro siti produttivi questi obiettivi green “sono considerati la pietra miliare del paradigma ‘Smart and sustainable’. E su questa strada occorre proseguire”.
Energia Arcobaleno
Per un mondo, un Paese e un’economia più green, l’obiettivo principale a cui ora dobbiamo tendere è la decarbonizzazione. In questo scenario l’idrogeno, insieme ad altre soluzioni e fonti energetiche sostenibili, può rappresentare uno strumento valido per raggiungere questo scopo. Impiegando tecnologie innovative, ci stanno già lavorando, ad esempio, anche molte aziende a partecipazione pubblica, come Snam, Italgas, Enel, A2A. Insieme a tante imprese di medie e grandi dimensioni, tra cui, per fare qualche nome tra i tanti, Edison, Engie, Rina, Baker Hughes, oltre a Università e centri di ricerca.
Tuttavia, “l’idrogeno da solo non può essere considerato come la panacea di tutti i guai energetici che ci affliggono e, soprattutto, non ci esonera dal dover attuare una politica molto attenta al controllo delle emissioni e all’efficientamento energetico riducendo parallelamente l’uso delle fonti fossili”. È quanto rimarca Alessandro Lanza nel suo ‘Energia Arcobaleno’, edito da Il Mulino.
Idrogeno sì, dunque, ma con giudizio, evitando di credere che sarà la ‘bacchetta magica’ dei guai che ci affliggono. “Solo se riusciremo a inserire il tema dell’idrogeno in questo contesto”, fa notare Lanza, “solo se riusciremo a capire che l’idrogeno è un piccolo mattoncino di una costruzione ben più complicata, riusciremo forse nell’arco dei prossimi dieci o vent’anni a impattare meno sul nostro pianeta, riservando a noi e ai nostri figli e nipoti un futuro meno drammatico dal punto di vista ambientale”.
Etica dell’intelligenza artificiale
Proprio perché la rivoluzione digitale è appena iniziata, “abbiamo la possibilità di plasmarla in modi positivi che possono fare progredire sia l’umanità sia il nostro pianeta”, sottolinea Luciano Floridi in ‘Etica dell’intelligenza artificiale’, pubblicato da Raffaello Cortina Editore. Perché, come disse una volta Winston Churchill, “prima siamo noi a dare forma agli edifici; poi sono questi a dare forma a noi”. Ora siamo noi a dover dare forma all’Artificial intelligence e, nel farlo, l’aspetto dell’etica e delle regole (a monte, fondanti) è ovviamente primario. Siamo nella primissima fase di costruzione delle nostre realtà digitali. Possiamo costruirle bene, prima che inizino a influenzare e modellare noi e le generazioni future nel modo sbagliato. “La discussione sul bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno è inutile perché la questione davvero interessante è come possiamo riempirlo”, rileva Floridi.
Che fa anche notare: la ‘vecchia IA’ era per lo più simbolica e poteva essere interpretata come una branca della logica matematica, ma la ‘nuova IA’ è principalmente connessionista, e potrebbe essere interpretata come una branca della statistica. Il principale cavallo di battaglia dell’IA non è più, quindi, la deduzione logica ma l’inferenza e la correlazione statistica.
Un futuro proficuo e sostenibile per l’Intelligenza artificiale “è possibile, ma”, sottolinea Floridi, “tutti gli attori coinvolti devono lavorare insieme per creare un domani in cui gli algoritmi possano prosperare senza compromettere il benessere della società e la stabilità del nostro sistema democratico”.
L’intelligenza non è artificiale
L’AI non è solo Machine learning e Deep learning, ma “si compone di tante altre discipline, anche con più storia alle spalle”, spiega Rita Cucchiara, nel suo ‘L’intelligenza non è artificiale’ (Mondadori).
Un esempio è dato “dagli studi sugli ‘agenti’ mobili e intelligenti, ossia su elementi semplici che sono in grado di prendere decisioni e di agire, in relazione all’ambiente e a un dato obiettivo. Con tanti agenti semplici che cooperano si possono realizzare sistemi complessi estremamente intelligenti, emulando, per esempio, il comportamento di formiche o di api. Sono una grandissima forma di intelligenza collettiva. Non siamo i soli esseri intelligenti al mondo!”. Tutti i simulatori che abbiamo oggi si basano sugli agenti con cui possiamo emulare comportamenti reali, per esempio le auto nel traffico, per insegnare sia agli uomini, sia a sistemi artificiali. Sono agenti cooperativi i cui modelli mettono assieme l’Intelligenza artificiale e un’altra disciplina per noi fondamentale: l’ingegneria del software.
“Il futuro sarà del Deep learning, ma di un Deep learning evoluto”, rileva Cucchiara, anche se “dove andrà l’AI non lo so. Non c’è un obiettivo unico. So che migliora giorno dopo giorno con il lavoro di tutti”. Certo il lavoro cambierà, e “per stare sulla giostra bisognerà studiare molto e progettare tantissimo”, fa notare l’autrice: “studiare richiede fatica e passione, progettare e produrre AI richiede molto denaro, e adeguati investimenti pubblici e privati”.
La cultura del dato
In quali settori industriali dati e AI saranno più pervasivi nei prossimi dieci anni? A questo interrogativo Stefano Gatti e Alberto Danese provano a dare una risposta in ‘La cultura del dato’, pubblicato lo scorso anno da FrancoAngeli. E anticipano “due sono i settori su cui ‘scommettiamo’: il primo è quello economico-finanziario, e il secondo è quello medico”, visto come convergenza tra scienze della vita (Lifescience) e assistenza sanitaria (Healthcare).
La capacità degli algoritmi di facilitare il processo decisionale degli operatori è cresciuta in maniera molto forte e veloce, e lo sta continuando a fare, sia in termini di accuratezza sia di modalità di interazione. L’invecchiamento della popolazione umana, soprattutto nei Paesi ad alto reddito, “in aggiunta alla mancanza di operatori sanitari, sta sempre più accelerando l’utilizzo di metodologie di medicina a distanza e assistita”, osservano gli autori, “che sta trovando in dati e algoritmi, per esempio interfacce vocali intelligenti, un acceleratore importante. E se possiamo auspicare un altro ambito dove il binomio dati e algoritmi ci potrà regalare un futuro più sereno e meno caldo, pensiamo che possano essere di grande aiuto nella lotta al cambiamento climatico e in tutto il settore energetico in genere”.
Ma anche nel mondo della Manifattura e dell’Industria le strategie, scelte, attività sono sempre più orientate e guidate dai dati di produzione, vendita, mercato. Per agire con processi più flessibili, personalizzati, adattivi ai cambiamenti della domanda e di scenario.
Vivere il Metaverso
Un mondo nuovo, veloce, mutevole e governato da algoritmi, che pure governano chi vi migra, dove la tecnologia immersiva cambia il modo in cui interagiamo con qualsiasi cosa, dagli altri alle macchine, dal lavoro ai viaggi, dallo sport alla medicina. È il Metaverso per come ci è stato presentato e per come si sta sviluppando. E non sta solo trasformando il modo in cui vediamo il mondo, bensì il modo in cui partecipiamo al mondo. Non sostituirà Internet, ma si appoggerà a esso fino a trasformarlo. Possiamo pensarlo “come una rete tridimensionale in cui ogni utente, con il proprio alter ego digitale, può creare mondi paralleli e immaginari, anche fatti su misura per lui”, anticipa Alessio Carciofi in ‘Vivere il Metaverso’, pubblicato da Roi Edizioni.
Una grande rete di mondi virtuali, fatta funzionare dagli algoritmi dell’AI, in cui immergersi e muoversi “per vivere una realtà desiderabile che si adatta ai nostri desideri e ai nostri comandi”. E la sfida più grande e più che mai necessaria in questa transizione epocale rimane quella di “non perdere l’umanità, tenendo alta l’attenzione sulle tematiche del benessere, dell’inclusione e della sostenibilità”. Anche perché “in questo mondo virtuale la dimensione spazio-temporale si dilata in un non-tempo e in un non-luogo, che mette in discussione tutte le leggi sociali stratificate nei secoli”.
Anche gli investimenti iniziano a essere importanti e influenti: secondo una ricerca di ReportLink, il mercato del Metaverso potrebbe valere 750 miliardi di dollari nel 2026. Microsoft, Nvidia, Apple stanno investendo e continueranno a farlo, Airbnb già̀ immagina di affittare case in questa mixed reality. Bloomberg calcola che entro fine decennio si raggiungerà̀ un miliardo di utenti.
Se queste previsioni verranno rispettate, o superate, il Metaverso sarà un nuovo mondo e una nuova dimensione dove intrecciare e (possibilmente) far funzionare insieme intelligenza umana e artificiale.
Le città dell’universo
L’accelerazione tecnologica che ha portato negli ultimi 30 anni ad aumentare a dismisura ad esempio la necessità di microchip sempre più evoluti e reti sempre più veloci, unita alla transizione ecologica che punta a ridurre drasticamente la dipendenza dalle fonti fossili, “produce una sempre maggiore richiesta di alcuni elementi e materie prime come litio, cobalto e le cosiddette ‘terre rare’, e di conseguenza genera una sorta di grande Risiko geopolitico tra le potenze industriali”, sottolineano Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro nel loro ‘Le città dell’universo’ (Il Saggiatore), che dalle nostre latitudini getta uno sguardo verso il futuro, anche al di fuori dell’orbita terrestre.
I grandi cambiamenti del mondo, che passano dal carretto trainato dal bue ai treni a levitazione magnetica e agli aeroplani supersonici, “alimentano una quantità enorme di visioni, anche su quelli che saranno i panorami abitativi delle nuove città”.
E mentre inizia a prendere forma l’idea di una vita possibile al di fuori della Terra, Jules Verne nel 1865 inaugura un genere, poi definito ‘fantascienza’, con il romanzo ‘Dalla Terra alla Luna’, che subito diventa un successo editoriale. Una specie di grande sogno collettivo che non smetterà mai di crescere e influenzare il pensiero e le arti, perché come sostiene Nolan Kay Bushnell, padre dei moderni videogames, la fantascienza ha una particolarità: prima o poi si avvera.
Leadership
La leadership e l’importanza di scegliere i propri collaboratori. Quante più decisioni vengono prese da una sola persona, “tanto meno tempo questa stessa persona ha a disposizione per pensare alle soluzioni migliori e scegliere tra le diverse opzioni”, rileva Gianluca Giansante nel suo saggio ‘Leadership’, stampato da Carocci Editore.
Come osserva il politologo americano Archie Brown, “anche il migliore dei leader ha solo 24 ore nel corso della giornata, quindi i suoi collaboratori si trovano – con loro grande soddisfazione – a prendere decisioni per conto del capo”. Mettere pieni poteri nelle mani di un leader, per quanto possa essere capace e preparato, significa quindi, comunque, mettere il potere nelle mani dei suoi assistenti. Per questo costruire Team formati da persone con diverse esperienze è fondamentale.
Come sottolinea Marshall Ganz, docente all’Università di Harvard, la diversità dei gruppi è un elemento strategico: “quanta più diversità c’è nelle esperienze di vita e di lavoro tra i membri del Team, tanto più è possibile accedere a conoscenze rilevanti. E maggiore sarà la diversità delle identità, più innovativo sarà l’approccio alla soluzione dei problemi”.
In pratica, la diversità dei gruppi (di lavoro) può consentire a piccole organizzazioni di raggiungere risultati che sono preclusi anche a realtà e associazioni più grandi e organizzate. Allo stesso tempo, è anche evidente che la presenza di persone con profili diversi non serve a molto se non c’è partecipazione, se tutte le decisioni vengono prese unicamente dal leader.