Tecnologie e applicazioni software, data scientist, cyber-security, intelligenza artificiale e blockchain; advanced computing, biotech, IoT e nano-sensori, manifattura additiva. Sono solo alcune delle competenze e delle capacità professionali sempre più richieste nel mondo del lavoro. Molte di queste dieci anni fa semplicemente non esistevano. O erano molto diverse. E tra altri dieci anni lo saranno ancora di più.
Spesso non si trovano, o non si trovano abbastanza, figure specializzate nelle attività tecniche e tecnologiche cercate dalle imprese. Il sistema formativo tradizionale in molti casi non è in grado di generare le skill attese dal mercato. Bisogna cambiare, adeguare le capacità umane a quelle sempre più straordinarie delle macchine. E bisogna farlo in fretta.
A questi temi e prospettive è stato dedicato un Workshop online, organizzato dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) in collaborazione con ERIA Economic Research Institue for ASEAN and East Asia, che ha messo a confronto esperti e protagonisti di questi cambiamenti, collegati in streaming da Italia, Germania, Francia, Canada, e altri Paesi. Con una partecipante collegata anche dal Cile.
E su molti punti tutti sono d’accordo: tutto sta accelerando e diventando più veloce. Bisogna connettere formazione e business. Occorrono nuovi metodi e nuovi sistemi formativi. Oltre alle competenze digitali, ci vuole creatività, flessibilità, adattabilità. Spesso anche capacità di team leadership e project management. Occorre poi assimilare le competenze tecnologiche non solo dal punto di vista teorico ma anche pratico e concreto.
“La scuola, il mondo della formazione, deve diventare ‘agile’ come il mondo delle aziende per cui prepara”, taglia corto Olivier Crouzet, direttore della formazione alla École 42 di Parigi, istituto nato 7 anni fa proprio per creare figure professionali specializzate nelle nuove tecnologie. Che sottolinea: “dobbiamo incontrare e se possibile anche anticipare la domanda del mercato del lavoro, ascoltiamo ciò che il mondo esterno richiede per adattare la nostra formazione”.
Ecco il metodo alla École 42 parigina, che ha succursali anche in altre parti del mondo: “cerchiamo e puntiamo a sviluppare talenti Ict, ma la nostra scuola è aperta a curricula di ogni provenienza, per un’ampia gamma di background, anche da parte di chi in precedenza ha avuto una formazione umanistica e non solo in materie scientifiche. Nel corso della preparazione, impegniamo gli studenti anche in Challenge, in sfide nello sviluppo di progetti, ad esempio con l’obiettivo di realizzare parti di software e altre applicazioni operative”.
E poi, spiega Crouzet: “puntiamo a ricreare le stesse condizioni di lavoro che si trovano all’interno delle aziende, ad esempio in termini di velocità e tempi serrati per svolgere le attività e portare a termine i progetti assegnati”. Come? “chiediamo creatività nel trovare soluzioni, vogliamo favorire un approccio problem solving“, e inoltre “cerchiamo di favorire la ‘collaboration’ anche tra gli stessi studenti, per dibattere e confrontarsi tra loro, scambiare esperienze e informazioni”.
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“Le skill digitali oggi sono come l’Inglese di 20 anni fa”
Il colosso automobilistico Audi sta sviluppando 3 Hub per il reclutamento di personale specializzato nelle digital skills in Cina, Stati Uniti e Israele. Tra Paesi che già da tempo hanno puntato tutto sulla formazione più tecnologica, pratica e aggiornata.
E l’italiano Luigi Torlai, Project leader per il reclutamento internazionale di Audi, con una battuta fa notare: “le competenze tecnologiche e digitali sono oggi un po’ ciò che era la lingua inglese 20 anni fa: stanno diventando assolutamente fondamentali e indispensabili nel mondo del lavoro, ancora di più da qui in avanti e nel futuro”, dato che “in tutti i settori di attività c’è grande spazio e ci sono grandi opportunità per le competenze digitali, ma anche gli ingegneri, che sono già tecnici molto specializzati nel loro settore, devono avere digital skills”.
Cambiare lo status quo
Tutto questo mentre lo spazio fisico dei luoghi di lavoro cambia di importanza e caratteristiche. Lo stiamo vedendo ancora di più in questo periodo quando la pandemia del Covid 19 ha portato a uno sviluppo veloce ed esponenziale dello smart working. Che esisteva anche prima, potenzialmente da qualche decennio, ma gli schemi di lavoro tradizionali erano troppo consolidati per essere messi davvero in discussione. Ci voleva un’emergenza sanitaria per far saltare lo Status quo. In Italia e in ogni altra parte del mondo.
Dal Canada Marc-Etienne Ouimette, responsabile delle politiche pubbliche e delle relazioni con il governo di Element AI, società canadese specializzata nello sviluppo di soluzioni di intelligenza artificiale, rimarca: “cambiare lo Status quo è spesso la cosa più difficile da fare, non sono certo le tecnologie a essere conservative”. E aggiunge: “è importante la capacità di capire il contesto in cui si opera e nel quale ci si muove, al di là del prodotto o del cliente specifico. I nuovi lavoratori non devono avere competenze in tutto, dal marketing ai servizi alla clientela, ma devono avere mente aperta e connessione con il team di lavoro”.
Connettere formazione e pratica in azienda
In Germania da decenni per la formazione superiore viene applicato il cosiddetto ‘sistema duale’, che unisce attività e specializzazioni teoriche in aula insieme a quelle pratiche sul campo, cioè in azienda. Un sistema che viene visto con sempre maggiore interesse da diversi Paesi, non solo europei, ma soprattutto asiatici. E dalla Germania Tim Ackermann, responsabile dell’acquisizione dei talenti di Tui Group, colosso specializzato nel settore del turismo, sottolinea che “le Digital skills trovano ampia applicazione in settori molto diversi, dalle attività di analisi, calcolo, economiche, alla biologia, medicina e altre attività scientifiche, fino al settore turistico, e ovunque si applichino le potenzialità delle nuove tecnologie”.
Secondo Ackermann, mondo della formazione e mondo del business devono connettersi “ad esempio attraverso iniziative di cooperazione dedicate sia agli Entry level, i neo-laureati alla prima esperienza d’impiego in azienda, sia per coloro che hanno compiuto una formazione da Executive, e che quindi vanno inseriti in contesti di Top management”. E per favorire queste iniziative, e il passaggio dalla fine della formazione all’inizio della carriera d’impresa, “ci possono essere anche delle sponsorship da parte delle aziende“, che finanziano le borse di studio o di specializzazione dei migliori talenti trovati in aula.
L’Italia prova a tenere il passo
Un recente studio dell’Ocse dedicato alle nuove skills, e focalizzato sull’Italia, dal titolo Supporting Entrepreneurship and Innovation in Higher Education in Italy, indica che occorre incentivare le Università a “includere lo scambio di conoscenze e la collaborazione nella loro visione a lungo termine, per l’insegnamento e per le attività di ricerca”. Questi incentivi possono richiedere l’integrazione con le politiche attuate dai diversi ministeri competenti, come Miur, Mise, e altri ancora.
Gli interlocutori non accademici, comprese le imprese, i governi regionali e locali, gli enti di ricerca, le Ong, dovrebbero “contribuire alla definizione di questa visione a lungo termine sul ruolo dell’istruzione superiore per l’imprenditorialità in Italia”. I contributi esterni possono rafforzare la visione strategica e “renderla più resistente ai cambiamenti della politica nazionale”. Vale a dire, far prevalere gli interessi formativi e di conoscenza, che hanno uno spettro ampio nel tempo, alle logiche politiche di corto respiro. Che spesso durano il tempo di una legislatura. O anche meno.
Rafforzare il sistema incentrato sullo studente
Secondo gli esperti dell’Ocse, l’interazione del mondo della formazione superiore con gli stakeholder esterni è importante anche per “chiarire cosa possono fare i centri di formazione nel consegnare diplomati e laureati ai loro ecosistemi e alle loro comunità e ciò che, al contrario, è fuori dal loro scopo o mandato”.
Sarebbe utile, poi, rafforzare il sistema incentrato sullo studente. Vale a dire, coinvolgere gli studenti, a tutti i livelli, in collaborazione con gli stakeholder esterni. “L’economia italiana ha sete di competenze“, rimarca l’analisi dell’Ocse, “le università devono mobilitare tutto il loro potenziale per fornire al Paese studenti di tutti i livelli, tra cui lauree professionalizzanti, programmi di master e dottorati di ricerca, competenze disciplinari e trasversali, che possono operare sul mercato del lavoro e promuovere la competitività dell’economia italiana nel suo complesso”.
Formazione superiore: serve più autocritica
Secondo lo studio su sistema formativo e nuove skill nel Belpaese, “ci sono molti aspetti che devono essere affrontati in modo più efficace; per esempio, l’internazionalizzazione dovrebbe ricevere maggiore attenzione da parte dei leader del sistema formativo. L’impressione è che la percezione della situazione attuale, da parte degli addetti ai lavori, è più positiva di quanto non lo sia effettivamente, soprattutto rispetto ad altri Paesi europei. Un cambiamento importante è quindi l’adozione di un atteggiamento più autocritico sull’attuale posizionamento della formazione superiore italiana in Europa e nel mondo. E questo può essere fatto attraverso un benchmarking sistematico“.
In pratica, il mondo accademico e della formazione superiore non deve essere di manica troppo larga nel dare buoni voti ai propri risultati, in maniera autoreferenziale. Perché spesso il raffronto con altre realtà straniere ridimensiona i voti in pagella.