Un’analisi dettagliata dell’industria italiana in tre atti: gli ultimi vent’anni, il presente (totalmente influenzato dalla crisi connessa all’emergenza da Covid-19) e il futuro. È quanto contiene l’articolato studio realizzato da The European House – Ambrosetti per Fondazione Fiera Milano in occasione della tradizionale tre giorni dedicata al mondo dell’economia che si sta svolgendo a Cernobbio, nella suggestiva cornice del Lago di Como.
Nello Studio Strategico 2020, dal titolo “Il futuro dell’industria italiana tra resilienza, rilancio dopo la crisi sanitaria globale e competitività di lungo periodo” (disponibile in PDF in fondo all’articolo), emerge uno scatto che evidenzia punti di forza e limiti del tessuto produttivo del nostro Paese, caratterizzato da numerosi elementi di crescita e leadership ma anche da altrettante “zavorre”, come vengono definite nel report, che ne rallentano il progresso.
Si scopre così che “per ogni euro investito nella manifattura italiana, l’impatto totale sul sistema economico è di 2,1 euro di Pil”, oppure che l’Italia è al quinto posto mondiale per surplus del settore manifatturiero. Guardando invece al tema dell’innovazione (ampiamente trattato nel report), si può scoprire che ben 369 categorie di prodotti dell’Automazione (fiore all’occhiello dell’eccellenza industriale italiana) rientrano nelle prime 3 posizioni al mondo per capacità di generare surplus commerciale.
Accanto a queste “belle scoperte” (o per lo meno conferme), non mancano però come si è detto le critiche su tutti i punti deboli su cui serve una forte accelerazione nel nostro Paese: dal rallentamento della produttività al funzionamento poco efficace della Pubblica Amministrazione, da un ecosistema dell’innovazione poco dinamico alla necessità di formare i lavoratori italiani ancora inadeguati alle richieste di competenze sempre più specialistiche delle imprese.
Indice degli argomenti
I punti di forza dell’industria italiana
Lo studio parte dalla fotografia dell’industria italiana nel 2019, prima che l’emergenza del Covid-19 ne compromettesse l’andamento. La manifattura del nostro Paese si configura come un “asset fondamentale” per lo sviluppo socio-economico, a cui ha contribuito in modo importante negli ultimi 20 anni: se si guarda al Valore Aggiunto, infatti, dal 2000 al 2019 questo settore ha rappresentato in media quasi un quinto (17%) del valore nazionale. Ma soprattutto, come si diceva, l’effetto positivo indiretto e indotto sul resto dell’economia da parte del settore manifatturiero si traduce in un effetto moltiplicativo sul Pil nazionale: in particolare, si legge nello studio di The Ambrosetti Group, “per ogni euro investito nella manifattura italiana, l’impatto totale sul sistema economico è di 2,1 euro di Pil”.
Il settore coinvolge più di 479.200 imprese, per quasi 4 milioni di occupati e una produzione complessiva pari a 961 miliardi di euro (267 miliardi di Valore Aggiunto, con una crescita dello 0,6% rispetto al 2018). L’ammontare del Valore Aggiunto ci colloca al secondo posto in Europa (dopo la Germania) per la sua generazione, pari al 12% del totale europeo.
Gli investimenti dell’industria italiana nel 2019 sono stati pari al 21% del totale nel nostro Paese, per una somma di 67 miliardi di euro. Proprio questo tema evidenzia uno degli elementi di vitalità del comparti, dato che negli ultimi vent’anni solo la manifattura ha visto crescere gli investimenti (+12,3%), mentre il bilancio è negativo per servizi, agricoltura e le altre attività del settore secondario. Una conferma dello slogan ideato da Ambrosetti: “senza investimenti non c’è lavoro, senza lavoro non c’è crescita, senza crescita non c’è futuro”.
L’export dell’industria italiana nel 2019 valeva 445 miliardi di euro. Negli ultimi 20 anni questo comparto ha contribuito al 96% delle esportazioni italiane: il tasso medio annuo di crescita è del 3%. Il report evidenzia come in questo aspetto sia visibile soprattutto lo squilibrio industriale verso la Cina, Paese che fornisce il 10% delle nostre importazioni (35 miliardi di euro) ma che assorbe solo il 3,2% del nostro export industriale.
Fermandosi alla fine del 2019, quindi appena prima dell’inizio della crisi connessa all’emergenza da Covid-19, l’Italia è al quinto posto mondiale per surplus del settore manifatturiero: la bilancia commerciale è in attivo di 111 miliardi di dollari. Meglio di noi hanno fatto solo Cina (1.091 miliardi), Germania (393 miliardi), Corea del Sud (216 miliardi) e Giappone (212 miliardi).
Ma non solo: la manifattura italiana si caratterizza anche per l’alto grado di specializzazione delle sue imprese. Ben 922 categorie di prodotti italiani (su 5.206) rientrano infatti nelle prime 3 posizioni al mondo per capacità di generare surplus commerciale. La maggior parte di queste rientrano nel settore dell’automazione (369) e, complessivamente, 770 rientrano nelle quattro categorie tipiche del Made in Italy: all’automazione si aggiungono infatti alimenti (80), arredo (44) e abbigliamento (277).
I punti deboli dell’industria italiana
L’analisi del Gruppo Ambrosetti non si limita però ad elencare i punti di forza del nostro sistema industriale ma, prima di suggerire le azioni necessarie a costruire l’industria del futuro, ne individua le “grandi questioni di fondo che zavorrano il potenziale”.
Queste sono:
- rallentamento della produttività, che produce un “continuo ampliamento del divario di competitività ed attrattività tra il nostro Paese e i nostri competitor”
- funzionamento poco efficace della Pubblica Amministrazione
- ecosistema dell’innovazione poco dinamico
- diffusione di una cultura antindustriale
- impoverimento delle relazioni tra l’industria e le parti sociali
In particolare, per quanto riguarda la produttività (intesa come rapporto tra Valore Aggiunto prodotto e lavoro/capitale) dal 2000 ad oggi l’Italia è cresciuta solo dell’1% rispetto ad una media del 20,7% dei principali competitor internazionali. Secondo il report di Ambrosetti questo si traduce nella limitazione dello sviluppo del Pil, con cui è costante il gap negl ultimi 20 anni (eccetto nel periodo 2012-2016).
Per aumentare la competitività del tessuto industriale italiano (il cui “principale freno” resta la scarsa produttività), i ricercatori suggeriscono di intervenire su quattro dimensioni, ribattezzate le “energie del sistema”:
- Energie Digitali: “in un contesto economico come quello attuale, ancor più dopo la recente crisi, è fondamentale investire nella modernizzazione delle imprese partendo dall’applicazione delle tecnologie digitali”
- Energie dei talenti: per facilitare il ricambio generazionale e la valorizzazione delle competenze, superando i principali punti aperti (divario nord-sud; giovani inattivi; occupazione femminile; difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro da parte dei neolaureati; bassa spesa pubblica per istruzione; minor ritorno economico rispetto ai competitor; skills mismatch)
- Energie manageriali: “troppo spesso nelle imprese familiari, di cui il tessuto industriale italiano è fortemente caratterizzato, sono assenti la cultura della governance e i rapporti azionista-amministratore-manager non sono chiari e non sono disciplinati da regole ben definite”
- Energia delle dimensioni: “la produttività del lavoro cresce al crescere della dimensione d’impresa”, ma l’Italia è il 1° Paese UE per numero di PMI manifatturiere (403.000), il doppio rispetto a Francia e Germania e quasi il doppio della somma di Spagna e Regno Unito. In Italia le imprese fino a 200 milioni di euro di fatturato hanno un peso sul sistema industriale complessivo di circa il 50%, mentre Regno Unito e Germania si attestano attorno al 20%
Per quanto riguarda la PA italiana, lo studio evidenzia come le imprese che operano in Italia siano le meno soddisfatte d’Europa per qualità della PA: l’80% si dichiara abbastanza insoddisfatto o molto insoddisfatto (23 punti percentuali al di sopra della media europea, pari al 57%), mentre solo il 14% si dichiara molto soddisfatto o abbastanza soddisfatto (25 punti percentuali al di sotto della media europea, pari al 39%). I punti deboli della Pubblica Amministrazione sono identificati in:
- mancanza di una visione di lungo termine e di una strategia-Paese
- non chiara ripartizione delle competenze tra enti, che genera incertezza ed eccessiva burocrazia
- scarsa permeabilità della PA con il settore privato e sistema di formazione inadeguato
- mancato utilizzo della digitalizzazione come strumento di effettiva semplificazione dei processi
- criticità legate alla sovraproduzione normativa e all’affastellamento di leggi concorrenti
- calo generale del prestigio del pubblico funzionario
Concludendo, tra i punti deboli dell’industria italiana i ricercatori aggiungono la “diffusione di una cultura antindustriale”, in cui “troppo spesso il profitto viene considerato non come un indice di successo, ma come una sorta di appropriazione indebita”, e la diminuzione del tasso di sindacalizzazione che produce un impoverimento delle relazioni tra lavoratori e parti sociali.
Industria italiana e innovazione
Il report del Gruppo Ambrosetti si concentra anche sullo sviluppo della capacità innovativa del Paese, partendo dall’analisi della situazione italiana attuale e alla luce degli ultimi anni. In particolare la manifattura, negli ultimi 10 anni, ha dato il maggior contributo nella spesa in Ricerca & Sviluppo: è cresciuta del 54% dal 2010 a oggi, superando i 10,2 miliardi di euro nel 2017 (con una crescita del 3,3% rispetto al 2016). Questo valore supera i 9 miliardi che rappresentano la spesa di istituzioni pubbliche, enti no-profit e università. Se si pensa che il nostro Paese investe solo l’1,4% del Pil in R&S (in Europa la media è del 2,2%) il contributo della manifattura italiana è evidente e confermato da un ulteriore dato: 7 dei primi 10 settori con il maggior numero di richieste di brevetti nel 2019, che contano per il 44% del totale delle richieste di brevetto, sono manifatturieri: trasporti, magazzinaggio, macchinari speciali, tecnologie mediche, macchinari elettrici, apparecchi ed energia, macchine utensili ed elementi meccanici. Inoltre, guardando alla forza lavoro impiegata nel nostro Paese, si evidenzia come il 40% degli occupati nazionali in R&S lavori per la manifattura.
A fronte di questi numeri importanti per l’industria del nostro Paese, nel report si spiega chiaramente che “l’Italia non investe ancora abbastanza in Ricerca & Sviluppo, dedicando a questi investimenti l’1,39% del Pil, il 34% in meno rispetto alla media europea e 2,5 volte in meno rispetto alla Svezia, best performer europeo, con il 3,32% del Pil nazionale dedicato alla Ricerca & Sviluppo”.
In questo campo va quindi rivisto il contributo dello Stato in termini di innovazione, “considerevolmente al di sotto dei principali player internazionali”. La proposta per superare questa concezione formulata dai ricercatori consiste nell'”immaginare uno Stato innovatore che affianchi, e non si sostituisca, all’iniziativa privata e che guidi il tessuto industriale verso uno sviluppo continuo”, ovvero uno Stato inteso “come vero motore dell’innovazione di un Paese”. In Italia infatti il problema non sono le risorse (che non mancano) ma la scarsa “capacità di decisione e volontà di intraprendere un percorso in cui lo Stato possa svolgere, definitivamente, il ruolo di guida nel progresso tecnologico (specie in settori chiave e altamente innovativi)”.
Anche sul lato privato, gli investimenti in innovazione scarseggiano. Questo perché, si legge nel report, “le imprese italiane coinvolgono poco i profili orientati alla ricerca”, causando un duplice problema:
scarsi investimenti e, quindi, scarsi risultati in ricerca e innovazione per il tessuto industriale italiano
perdita di know-how e capitale umano, formato nelle eccellenze universitarie italiane, che migra all’estero
Si nota infatti che il numero di ricercatori sul totale degli occupati nel settore privato in Italia è decisamente al di sotto della media europea. Il dato in Germania (0,69%) è quasi due volte migliore del nostro (0,37%). Si tratta soprattutto di un’occasione persa perché, analizzando sia la nostra spesa in R&S rispetto al Pil, sia il Valore Aggiunto sempre in relazione al Pil, si nota che “l’Italia, pur spendendo meno in R&S rispetto alla media europea, si collochi al di sopra di essa per quanto riguarda la variazione che questa spesa genera in termini di Valore Aggiunto della manifattura”.
Gli effetti del Covid-19 sull’industria italiana
L’emergenza causata dal Covid-19 si è inserita in questo contesto modificando rapidamente e, per certi versi, drasticamente l’andamento di tutte le componenti che caratterizzano il comparto industriale italiano e, più in generale, lo stato di salute dell’economia globale.
Questo si traduce infatti da un calo del tasso di crescita del Pil globale del 4,9%, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. In questo contesto vi sono molti fattori instabili che non permettono di stimare con esattezza quando e come avverrà la ripresa economica nel 2021. Molto dipenderà, si sottolinea nello studio del Gruppo Ambrosetti, dall’evoluzione dei contagi, dall’efficacia delle politiche di supporto al reddito e alla liquidità delle imprese, e dall’evoluzione delle abitudini di lavoro e di consumo.
Secondo la Commissione Europea, l’Italia subirà la contrazione più grave in termini di crescita nel continente (-11,2% nel 2020), a fronte di una ripresa nel 2021 pari a +6,1%. Lo studio, che si avvale del modello di stima del Pil elaborato da The European House – Ambrosetti, prevede una contrazione pari a -10,8% per il 2020 (sarebbe così il terzo anno peggiore per contrazione del Pil da oltre 150 anni di storia d’Italia), che nella manifattura si traduce in un crollo pari a -21,4%. Anche il rapporto tra debito e Pil, atteso al di sopra del 150%, si avvicinerebbe a quello registrato nella Prima Guerra Mondiale (160%).
Il Covid-19 ha colpito un tessuto imprenditoriale, quello italiano, che nel 2018 vedeva già il 53,8% delle aziende in una situazione di fragilità. Durante il lockdown (tra il 9 marzo e il 4 maggio 2020), circa il 45% di esse ha dovuto sospendere l’attività. Una situazione che si è tradotta nella forte contrazione della produzione industriale (-29% a marzo, -43,7% ad aprile e -26,8% a maggio).
Oltre ad analizzare l’impatti dell’emergenza da Covid-19 sulle varie componenti del settore industriale italiano, il report del Gruppo Ambrosetti, analizza quali siano le categorie di prodotto maggiormente impattate, con un quadro completo riferito al mese di marzo 2020. In generale, i settori più colpiti sono quelli più integrati nelle catene del valore globali: impiantistica e macchinari, automotive, macchinari elettrici ed elettromeccanici, cantieristica navale e mobili. In particolare, il comparto della meccanica industriale e quello dell’automotive hanno registrato insieme una contrazione di 3,2 miliardi di euro, pari a circa il 54% del totale del calo dei volumi di export.
I suggerimenti dei ricercatori per far ripartire l’economia italiana includono alcune misure di rinnovamento del Paese e di modernizzazione del tessuto imprenditoriale, con “azioni urgenti e mirate” come:
- politiche di reshoring
- misure per incentivare il rafforzamento dimensionale delle imprese (come incentivi all’aggregazione di imprese)
- politiche di defiscalizzazione degli investimenti
- garanzia di accesso al credito
- misure di fiscalità generale (come la sospensione dei versamenti fiscali dei prossimi mesi)
- ricorso agli ammortizzatori sociali per i settori più colpiti
- introduzione di misure per la flessibilità del lavoro (come l’allentamento di norme sul part-time e sul lavoro a termine)
- meccanismi di governance orientati al “crisi management”
- rapida conversione del modello di business (attraverso l’e-commerce, servizi in formato digitale, riconversione della produzione ecc.)
L’industria di domani
Nell’ultima parte del report del Gruppo Ambrosetti si identificano le caratteristiche che dovrà avere l’industria del futuro.
Si parte ad esempio dalla “sostenibilità delle produzioni”: per il 60% delle aziende italiane la sostenibilità e l’Economia Circolare saranno i principali ambiti di intervento verso i quali saranno indirizzati gli sforzi e gli investimenti nel medio-lungo periodo, soprattutto per raggiungere una maggiore efficienza e ridurre i costi, ma anche per migliorare la reputazione dei brend e attrarre più talenti.
A questo tema direttamente collegato è quello della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica: “due fattori abilitanti fondamentali” che saranno, rispettivamente per il 90% e il 67% delle aziende, gli ambiti di intervento principali verso cui indirizzare gli sforzi in una prospettiva di medio-lungo periodo (2025-2030). Le motivazioni principali, per le aziende intervistate da Ambrosetti, risiedono nella diversificazione dell’offerta (58%) e nella riduzione dei costi (54%).
Proseguendo su questo discorso, le aziende dell’industria italiana non hanno dubbi su un punto: tra le principali tecnologie che caratterizzano l’industria del dopodomani rientrano tutte quelle legate a Industria 4.0. In particolare si citano: Big Data, Intelligenza Artificiale, Cloud Computing, Machine Learning, Blockchain, Lean Production e Robotica avanzata. Si tratta di infrastrutture tecnologiche in grado di aumentare non solo la produttività e la competitività, ma anche la resilienza delle imprese manifatturiere. Basti pensare a chi, si legge nel report “in questi mesi ha potuto proseguire le proprie attività grazie a sistemi di monitoraggio e controllo da remoto basati sull’interconnessione degli impianti: la combinazione di Internet of Things (IoT), cloud, Big Data e robot avanzati permette infatti di avviare e modificare i processi di gestione da remoto, monitorandone in tempo reale lo stato di funzionamento”.
Per tutti questi motivi le imprese italiane chiedono di completare il processo di infrastrutturazione digitale del Paese e di “destinare crescenti risorse finanziarie per il sostegno degli investimenti in Ricerca & Sviliuppo”. Su questo secondo aspetto, le strategie di innovazione dell’industria italiana si evolveranno avendo due grandi alternative a disposizione: processi di R&S interni all’azienda o ecosistemi dell’innovazione “open” e integrati, con l’attivazione di meccanismi di collaborazione e partnership esterni all’azienda. Nel sondaggio condotto dal Gruppo Ambrosetti emerge che nel medio-lungo periodo (2025-2030) la maggioranza delle aziende adotterà ancora il primo modello, con la prevalenza di processi di R&S interni alle singole aziende (53%). Tuttavia, anche gli ecosistemi dell’innovazione open e integrati avranno un peso rilevante, con il 47% dell’industria italiana che prevede di adottare dei modelli di innovazione di open innovation.
Alla luce della crisi in atto, anche la vulnerabilità delle catene del valore globali si traduce in un “problema da affrontare”, per rimuovere l'”elevata interdipendenza tra player globali e locali”. Oggi infatti quasi 1 azienda su 4 prevede di aumentare le proprie politiche di reshoring e nearshoring, riportando in Italia oppure nel territorio europeo le attività produttive precedentemente delocalizzate in aree extra europee. Le tendenze di oggi vanno verso l’affermazione di cluster regionali, con l’identificazione di alcuni hub territoriali (Unione Europea, Stati Uniti, Cina) per avvicinare i punti di approvvigionamento delle risorse, produzione e consumo.
In conclusine, i ricercatori individuano le vie d’uscita dal “circolo vizioso” italiano “dove bassi livelli di produttività, crescita, mobilità sociale e capitale umano si alimentano a vicenda”. Servirà pertanto perseguire le due “condizioni abilitanti fondamentali”:
- l’evoluzione e l’adeguamento delle competenze e del sistema della formazione
- l’evoluzione tecnologica, anche a supporto dello sviluppo innovativo nei settori ad alto potenziale per l’industria italiana
Per quanto riguarda il primo punto, nel report si ricorda che “investire sulla formazione non significa soltanto creare nuove competenze, ma anche valorizzare quelle già esistenti: complessivamente, gli squilibri nell’allocazione delle competenze riguardano in Italia il 70% dei lavoratori” (generati prevalentemente dalla mancanza di competenze necessarie e dallo skill mismatch).
Emerge quindi la necessità di rivedere a fondo il sistema della governance universitaria, “superando a livello sistemico l’approccio verticale e burocratico attuale e potenziando l’autonomia del singolo Ateneo”, oltre che di potenziare la didattica in una chiave più multidisciplinare, “rafforzando il rapporto Università-impresa”. Bisogna poi migliorare la capacità del sistema-Paese di attrarre finanziamenti pubblici alla ricerca in ambito universitario.
Di fronte all’aumento de Digital Divide, è necessario “adeguare la formazione degli studenti e lavoratori alle richieste di un mondo del lavoro sempre più skill-intensive”. Questo attraverso percorsi di “life long learning” e formando sempre più lavoratori altamente qualificati (richiesti nei settori tecnologici e scientifici innovativi).
Il report integrale
Di seguito è possibile consultare e scaricare in PDF lo Studio Strategico 2020 realizzato da The European House – Ambrosetti per Fondazione Fiera Milano dal titolo “Il futuro dell’industria italiana tra resilienza, rilancio dopo la crisi sanitaria globale e competitività di lungo periodo”.
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