le previsioni del CSC

La crisi dell’industria potrebbe diventare strutturale: le analisi e le previsioni del Centro Studi Confindustria

La crisi dell’industria italiana ed europea è caratterizzata da una significativa eterogeneità settoriale: automotive, moda e lavorazione dei metalli sono i settori più colpiti. Mentre alcuni problemi, come la preferenza per i servizi e la debolezza economica europea, dovrebbero risolversi a breve termine, altri, come il costo elevato dell’energia e la crisi economica in Germania, sono destinati a perdurare. L’industria italiana affronta una crisi di produzione, non di valore aggiunto o occupazione, mentre l’Europa è ostacolata da una scarsa competitività e dall’elevata burocrazia che riducono l’attrattività economica e minano la crescita futura. Le previsioni del Centro Studi Confindustria per il biennio 2025-2026.

Pubblicato il 02 Apr 2025

Equipment, cables and piping as found inside of a modern industrial power plant


La crisi dell’industria non riguarda solo l’Italia, ma è internazionale ed è caratterizzata da una forte eterogeneità settoriale. E se per alcuni dei fattori che stanno trainando al ribasso l’andamento dell’industria italiana ed europea si può sperare in una risoluzione nel breve periodo, altri fattori sono destinati a durare più a lungo.

Per quanto non si possa parlare di crisi generalizzata per l’industria italiana – si tratta infatti di una crisi di produzione, ma non di valore aggiunto, investimenti ed esportazioni, e neanche di occupazione – , c’è il rischio che il declino diventi strutturale.

A lanciare questo avvertimento è il Rapporto di previsione del Centro Studi Confindustria “Energia, Green Deal e dazi: gli ostacoli all’economia italiana ed europea” che fornisce un’analisi dettagliata sulle previsioni per il biennio 2025-2026 per quanto concerne l’andamento dell’economia e dell’industria italiana ed europea, oltre ad analizzare il possibile impatto dei dazi imposti dagli Usa.

La crisi dell’industria italiana ed europea

La crisi dell’industria non riguarda solo l’Italia (-8,2% la produzione tra metà del 2022 e fine 2024), ma è internazionale ed è caratterizzata da una forte eterogeneità settoriale.

L’automotive è il settore più colpito in tutti i paesi europei, ma il calo è marcato anche nei settori della moda e nella lavorazione dei metalli: se consideriamo la produzione manifatturiera al netto di tali settori, nel 2024 in Italia si è ridotta in misura moderata (-1,5%), mentre è scesa di più in Germania (-2,6%) e cresciuta in Spagna (1,6%).

A ciò si sommano:

  • la crisi della Germania, come per il resto dell’Eurozona
  • la domanda debole in tutta l’Eurozona dopo anni di alta inflazione e alti tassi
  • la preferenza delle famiglie per i servizi rispetto ai beni che ha contribuito alla debolezza della domanda per l’industria
  • il costo elevato dell’energia in Europa e soprattutto in Italia.

Secondo le previsioni alcuni di tali problemi potrebbero risolversi nel breve-medio termine (preferenza per i servizi, debolezza europea), altri sono destinati a durare più a lungo (costo dell’energia, crisi tedesca, auto, moda).

Va comunque sottolineato che in Italia la crisi dell’industria è una crisi di produzione, molto meno di valore aggiunto (-3,5% nello stesso periodo), investimenti ed esportazioni, sicuramente non di occupazione che invece è aumentata anche nei settori più colpiti.

Diverse possono essere le ragioni dietro a questa anomalia: un decumulo di scorte di beni intermedi; una ricomposizione all’interno del manifatturiero verso comparti a più alto valore aggiunto; un miglioramento della qualità delle produzioni.

Le ragioni dietro la crisi dell’Automotive

La crisi del settore automobilistico in Italia e nell’Unione Europea è un fenomeno complesso, con radici profonde e diverse. Uno dei fattori principali è la trasformazione del concetto di mobilità, con l’emergere di alternative all’acquisto di auto private, come il vehicle-sharing.

Il mercato si è poi spostato verso modelli più costosi e tecnologicamente avanzati, come i SUV compatti, aumentando i prezzi medi delle vetture.

Il mercato delle auto elettriche, pur avendo un grande potenziale, è frenato da diversi ostacoli. I prezzi elevati, dovuti in gran parte al costo delle batterie (che incidono per il 40% sui costi dei materiali), e la carenza di infrastrutture di ricarica scoraggiano gli acquirenti. Inoltre, l’incertezza normativa sui motori a combustione interna contribuisce a rallentare la transizione.

A livello globale la Cina ha guadagnato una posizione dominante nel settore automobilistico. Nel 2023, la Cina ha prodotto il 32% delle auto a livello mondiale e il 58% dei veicoli elettrici, superando di gran lunga l’Unione Europea, che ha prodotto solo il 16% del totale. Questo rappresenta un cambiamento significativo rispetto al passato, quando l’UE era il leader mondiale del settore, con una produzione del 27% tra il 2004 e il 2007.

Tuttavia le politiche di incentivo dei governi europei, che si concentrano principalmente sull’acquisto di auto elettriche, finiscono per favorire i produttori extra-europei, in particolare quelli cinesi, anziché sostenere l’industria automobilistica locale.

I fattori che contribuiscono alla crisi del settore moda

La crisi del settore moda, che ha iniziato a manifestarsi dopo la breve ripresa post-pandemica, è caratterizzata da una contrazione degli ordini, accumulo di merce nei magazzini e conseguente rallentamento della produzione.

Questa tendenza negativa, iniziata nel secondo semestre del 2023, ha colpito nel 2024 tutti e tre i settori chiave: pelletteria, abbigliamento e tessile.

Le cause di questa crisi sono molteplici. Nel breve termine pesano le tensioni geopolitiche in Medio Oriente e il conflitto tra Russia e Ucraina, che raffreddano i mercati chiave per il settore. A ciò si aggiunge il rallentamento dell’economia tedesca e la debolezza dei consumi in Cina. La domanda interna di beni di lusso è inoltre contenuta, a causa dell’aumento dei prezzi durante la fase iper-inflazionistica e degli elevati tassi di risparmio.

Nel lungo termine il settore deve affrontare due sfide principali. Sul fronte dell’offerta vi è la necessità di un consolidamento produttivo per superare l’eccessiva frammentazione del settore, caratterizzato dalla prevalenza di micro, piccole e medie imprese.

Sul fronte della domanda pesano i cambiamenti nelle preferenze dei consumatori, tra cui l’invecchiamento della popolazione – che richiede un riorientamento verso la “Silver Generation” (over 50) –, e la crescente attenzione alla sostenibilità, al riutilizzo e al rapporto qualità/prezzo. Questi fattori stanno alimentando la crescita di segmenti di mercato come l’usato e le repliche di prodotti di alta gamma.

La crisi della Germania

A pesare sull’andamento dell’industria italiana ed europea è anche la crisi che sta affliggendo l’economia tedesca, con un PIL in calo dello 0,2% nel 2024 dopo il -0,3% del 2023 e una produzione manifatturiera in contrazione del 3,3%, ha radici profonde e diverse.

Uno dei fattori principali è il cambiamento del paradigma produttivo tedesco, che si basava fortemente sull’energia russa a basso costo e su settori ad alta intensità energetica. L’aumento dei prezzi dell’energia, in seguito alla crisi ucraina, ha colpito duramente l’industria tedesca.

La Germania è poi particolarmente esposta alle fluttuazioni del commercio internazionale, soprattutto con la Cina. La riduzione delle importazioni cinesi dai paesi occidentali, dovuta sia a ragioni geopolitiche che all’aumento della produzione interna cinese, sta avendo un impatto negativo sull’export tedesco. Con un export pari al 6,3% del totale rispetto al 2,6% dell’Italia.

Un altro fattore di vulnerabilità è la scarsa diversificazione dell’industria tedesca, fortemente concentrata nel settore automobilistico, che rappresenta il 20,6% della manifattura e che sta attraversando una fase di crisi.

La persistenza di queste criticità rappresenta una sfida non solo per la Germania, ma per l’intera economia europea, data l’importanza del paese come principale mercato di destinazione per i prodotti manifatturieri italiani.

Le previsioni per l’economia italiana nel biennio 2025-2026

Le previsioni sull’andamento dell’economia sottolineano un quadro estremamente incerto e complesso, con un possibile rilancio che avverrà, per quanto riguarda l’Italia, solo nel 2026.

Nel 2024, il prodotto italiano è cresciuto del +0,7% annuo, grazie a contributi piuttosto diffusi tra le componenti: i consumi delle famiglie (+0,2%), gli investimenti fissi lordi (+0,1%), i consumi collettivi (+0,2%) e le esportazioni nette (+0,4%), che hanno compensato il decumulo di scorte.

Nel 1° trimestre del 2025, gli indicatori congiunturali fotografano una fase ancora caratterizzata da una debole espansione. Il PIL italiano nel 2025 dovrebbe crescere in linea con quanto osservato nel 2024: +0,6%. Per il 2025 quindi il centro studi ha operato una revisione al ribasso di -0,3 punti percentuali ascrivibile, in larga parte, alla debolezza della seconda metà del 2024 e al peggioramento del quadro macroeconomico nel quale si contrappongono forze di segno opposto.

Nel 2026, invece, dovrebbe riprendere slancio, al +1,0%.

Nel biennio 2025-2026 alcuni fattori agiranno in positivo sulla crescita del PIL, tra cui:

  • il proseguimento del taglio dei tassi da parte della BCE, che entro fine 2025 porterà la politica monetaria al livello neutrale.
  • la risalita del reddito disponibile reale totale delle famiglie, grazie al progressivo recupero delle retribuzioni pro-capite, il buon contributo dei redditi non da lavoro, l’aumento dell’occupazione totale, il calo dell’inflazione, sebbene gli ultimi due fenomeni si attenueranno nel 2025 e 2026. Insieme al calo atteso della propensione al risparmio (da fine 2025 e poi nel 2026) grazie al dipanarsi dell’incertezza, ci si aspetta che l’aumento del reddito continui a dare un buon contributo alla dinamica dei consumi
  • l’implementazione del PNRR: tra il 2025 e il 2026 le risorse programmate ammontano a circa 130 miliardi. Anche se non verranno spese tutte (l’ipotesi è che ne venga spesa la metà, 65 miliardi), daranno un importante contributo al PIL, in particolare agli investimenti in costruzioni, frenati dal venire meno degli incentivi all’edilizia residenziale.

Inciderà invece in negativo la mancanza di sostegno agli investimenti in impianti e macchinari poiché il Piano Transizione 5.0 si è rivelato poco efficace nel 2024 e dovrebbe incidere poco anche nel 2025.

A questo si aggiungerà l’ennesimo rincaro dell’energia, che non tocca i picchi del 2022, ma minaccia la competitività delle imprese italiane e riduce il reddito reale delle famiglie. Ma soprattutto, l’ondata di dazi annunciata dall’Amministrazione Trump, a cui l’economia italiana è particolarmente esposta, visto che gli USA sono il secondo mercato per i nostri beni.

Crisi dell’industria, i dazi pesano come un conflitto commerciale

L’export italiano verso gli USA, che nel 2024 ha raggiunto i 65 miliardi di euro (oltre il 10% del totale), ha infatti giocato un ruolo cruciale nella crescita dell’export totale negli ultimi anni, contribuendo per 4,5 punti percentuali all’aumento del 30% registrato tra il 2019 e il 2023. I settori più esposti a un’eventuale escalation protezionistica sono bevande, farmaceutica, autoveicoli e altri mezzi di trasporto.

La reintroduzione dei dazi USA su acciaio e alluminio, stimata al 25%, porterebbe a un calo medio del 5% dell’export di questi prodotti, con un impatto macroeconomico limitato (-0,02% sull’export totale).

Uno scenario peggiore, con un aumento dell’incertezza dell’80% e l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni USA (e del 60% dalla Cina), insieme a ritorsioni tariffarie sui beni di consumo USA esportati, avrebbe un impatto negativo significativo sul PIL italiano, con una riduzione dello 0,4% nel 2025 e dello 0,6% nel 2026.

La “America First Trade Policy” della seconda amministrazione Trump, più aggressiva e imprevedibile, richiede un’azione immediata. È fondamentale avviare trattative con gli USA per conciliare gli interessi reciproci e, soprattutto, aumentare l’attrattività dell’Europa per prevenire la fuga di capitali verso gli Stati Uniti, un fenomeno che i dazi accelererebbero.

L’incertezza economica e politica, ai massimi storici all’inizio del 2025 a causa dei ripetuti annunci sui dazi, sta già influenzando negativamente le decisioni di investimento e gli scambi globali. L’aumento delle misure protezionistiche a livello mondiale, con oltre 3.400 misure introdotte nel 2022 (rispetto alle poche centinaia prima del 2020), minaccia la struttura stessa del commercio internazionale e il PIL globale.

In diminuzione gli investimenti

Gli investimenti stanno registrando un calo significativo, previsto a -0,8% per quest’anno, seguendo una tendenza negativa iniziata nella seconda metà del 2024.

Si prevede un modesto recupero nel 2026 con un aumento dello 0,9%, mantenendo però una situazione di sostanziale stagnazione. Questo scenario di debolezza è influenzato da vari fattori, tra cui: l’impatto ritardato di una politica monetaria restrittiva, la crisi del settore industriale, e l’elevata incertezza internazionale dovuta a dazi e tensioni geopolitiche.

Inoltre, la riduzione degli incentivi fiscali, che in passato avevano stimolato gli investimenti (come il Superbonus e la Transizione 4.0), ha contribuito a questo calo.

La spesa per impianti e macchinari ha subito una contrazione per tutto il 2024, inizialmente a causa di un “effetto rinvio” in attesa della Transizione 5.0, seguita da una scarsa attrattività della misura dovuta a difficoltà operative, prevedendo che questa tendenza continui nella prima parte del 2025.

Economia europea, il peso di una competitività troppo bassa e una burocrazia troppo onerosa

La competitività europea sta attraversando una fase critica, evidenziata da una crescita del PIL dell’Eurozona prevista a +0,8% nel 2025 e +1,0% nel 2026, dopo un modesto +0,7% nel 2024. Questo ritmo di crescita è insufficiente per superare i freni strutturali che gravano sull’economia (la crisi della Germania e l’alto costo dell’energia, con il prezzo del gas salito a 50 euro/mwh a febbraio 2025).

L’Europa sta perdendo terreno rispetto a Stati Uniti e Cina, con una crescita media annua del +1,6% dal 2007, contro il +4,2% degli USA e il +10,1% della Cina. Questo divario si rispecchia in un accumulo di oltre 70 punti percentuali di PIL rispetto agli Stati Uniti.

L’insufficiente produttività europea è legata a minori investimenti, inferiori di circa 1,1 punti di PIL rispetto agli USA, e un significativo gap negli investimenti in ricerca e sviluppo, che dal 2000 ammonta a oltre 17 punti di PIL.

Il mancato completamento del mercato unico europeo e l’assenza di armonizzazione normativa innalzano i costi di produzione dei beni manifatturieri fino al 44% e dei servizi fino al 110%, secondo stime del FMI. Se l’Europa fosse in grado di ridurre queste barriere al livello degli USA, la produttività potrebbe aumentare del 6,7%.

La burocrazia pesante è un ulteriore freno, con costi elevati che riducono l’attrattività dell’UE. Ne è un esempio il regolamento europeo sulla privacy dei dati, G.D.P.R, la cui compliance ha ridotto i margini di profitto delle aziende dell’8% in media.

A questo si aggiunge la sfida energetica, che rappresenta un nodo critico: nonostante i consumi mondiali di energia siano raddoppiati negli ultimi trent’anni, la quota europea è scesa, mentre le fonti fossili continuano a coprire oltre l’80% del fabbisogno. Le misure attuali, pur sostenibili, compromettono crescita e sicurezza, rendendo urgente una revisione dei meccanismi come ETS e CBAM, che pongono le imprese europee in svantaggio competitivo.

Il rapporto completo

Loading...

Valuta la qualità di questo articolo

C
Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

email Seguimi su

Articoli correlati

Articolo 1 di 5