La Germania entro il 2020 investirà 600 milioni di euro per l’introduzione dell’intelligenza artificiale nei processi di produzione. L’Italia invece è soltanto all’inizio: nei prossimi due anni prevede di investire 70 milioni di euro.
A evidenziare l’enorme divario esistente tra i due Paesi sono i dati contenuti nello studio “Ricerca, sviluppo e innovazione: Italia e Germania a confronto”, realizzato recentemente da AHK Italien (la Camera di Commercio Italo-Germanica) e Deloitte. L’indagine, realizzata in collaborazione con Aldai-Federmanger, Assolombarda e l’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, è stata condotta su un campione di circa 100 aziende tra Italia e Germania.
I numeri in sintesi
Una delle sostanziali differenze tra Italia e Germania nell’applicazione e nelle scelte d’investimento in ambito di intelligenza artificiale risiede nella profonda diversità del tessuto produttivo. Quello italiano, dove le aziende con meno di 9 dipendenti sono l’82% mentre in Germania il 61%, è un sistema di microimprese meno propenso a collaborare con il mondo della ricerca. Infatti, le grandi aziende italiane che entrano in relazione con le istituzioni di ricerca sono soltanto il 28% rispetto al 44% di quelle tedesche.
Non è la sola ragione che giustifica il divario esistente tra i due Paesi. Un altro gap riguarda le competenze professionali: in Germania gli adulti sopra i 15 anni con skill di ICT rappresentano il 35%, in Italia il 26%; quattro facoltà tedesche di It figurano tra le prime 50 nel ranking mondiale, mentre l’Italia non ne conta nemmeno una.
Inoltre, il tasso medio di prelievo fiscale e contributivo sulle startup è pari al 59% in Germania, mentre nel nostro Paese è del 53%.
Per comprendere più nel dettaglio i dati emersi dallo studio ‘Ricerca, sviluppo e innovazione: Italia e Germania a confronto’, Innovation Post ha rivolto alcune domande di approfondimento a Jörg Buck, Consigliere Delegato Camera di Commercio Italo-Germanica (AHK Italien).
Che cosa limita lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in Italia? E cosa ha invece favorito la crescita dell’AI in Germania?
Come si evince dallo studio, il tessuto imprenditoriale italiano, dominato dalle microimprese, è meno propenso a interfacciarsi con università e istituti di ricerca. Diversa è la situazione in Germania dove, anche a fronte di una presenza fondamentale di PMI (per quanto mediamente più grandi di quelle italiane), sono presenti molti dei principali gruppi europei in termini di investimenti in R&D, secondo quanto emerge dallo Scoreboard che la Commissione europea redige su base annuale.
Il Paese è anche sede di eccellenze europee e mondiali della ricerca quali la Fraunhofer-Gesellschaft e il clima che contraddistingue il contesto tedesco è dunque di grande apertura verso lo sviluppo di soluzioni innovative e la loro implementazione. A questo fattore, che riguarda gli investimenti privati, si somma il livello degli investimenti pubblici, quasi dieci volte inferiore a quello della Germania (70 vs. 600 milioni di euro entro il 2020).
In aggiunta a quanto indicato nello studio, è utile anche osservare una peculiarità del sistema tedesco: a livello dei Länder, le imprese e gli istituti di ricerca possono contare su una rete di cluster regionali di rilievo internazionale, sostenuti dal programma ‘go-cluster’ del governo federale. Basti pensare a it’s OWL (Intelligent Technical Systems OstWestfalenLippe), un cluster all’avanguardia situato nella fascia orientale della Renania Settentrionale-Vestfalia.
Quali strategie dovrebbe adottare l’Italia per imporsi concretamente nel mercato dell’intelligenza artificiale? Quali azioni dovrebbe attuare la politica italiana per favorirne lo sviluppo?
Emerge chiaramente la necessità di aumentare gli investimenti pubblici, in modo tale che servano da stimolo per quelli privati: il modello è il successo del Piano Industria 4.0, che ha alimentato in modo inedito l’acquisto di macchinari da parte delle PMI italiane.
A un livello più strutturale, si pone anche un problema di competenze: se le imprese sono chiamate a stare al passo con i più recenti modelli di business, devono poter trovare sul mercato profili professionali adeguati a tutti i livelli, da operai specializzati nel 4.0 a dirigenti in grado di gestire la complessità delle nuove strutture produttive.
Occorrono quindi riforme del nostro sistema di istruzione che lo avvicinino al mercato del lavoro, ad esempio seguendo il modello della formazione duale tedesca.
Nei prossimi anni il fronte europeo, in tema di AI, potrà realmente diventare competitivo in rapporto agli Stati Uniti e alla Cina?
Il mercato unico dell’UE è il più grande al mondo. È tuttavia vero che, anche in presenza di un fronte comune europeo in materia di AI, rimangono ancora differenze anche importanti tra i vari stati membri. È sufficiente osservare le difficoltà di creazione di un mercato unico digitale.
Il vero punto in questo caso è che, al di là di qualsiasi riserva si possa sollevare, i Paesi europei non hanno altre alternative realistiche: davanti ai volumi di investimenti messi in campo da USA e Cina, è evidente che la competitività si ottiene facendo fronte comune, anche se ciò nel breve o nel medio termine non dovesse tradursi in uno sforzo paragonabile a quello dei due colossi dell’economia globale.
Quali sono i rischi dello sviluppo dell’AI per il mondo del lavoro in Italia e in Germania?
“Come nel caso dell’Industria 4.0, evoluzioni sostanziali nei modelli di business comportano cambiamenti altrettanto importanti nelle competenze richieste da parte della forza lavoro. Emergono così tre aspetti relativi al mercato del lavoro ai quali occorre prestare grande attenzione.
Il primo è il tema dell’adeguamento delle competenze e dell’offerta formativa già sollevato. Il secondo aspetto riguarda i tempi del cambiamento: l’innovazione si concretizza oggi molto più rapidamente rispetto al passato e così, in tempi relativamente brevi, nuove professioni nascono, altre gradualmente vengono meno e, in ogni caso, tutte le professioni già esistenti cambiano in modo anche sostanziale.
È proprio alla luce di questa rapidità dell’innovazione che emerge con forza l’urgenza di riallineare il mercato del lavoro alle necessità delle aziende. Il terzo e ultimo aspetto riguarda la produttività: l’innovazione genera benessere e occupazione se è in grado di determinare un aumento della produttività e del volume di affari. L’AI promette molto bene in tal senso: la previsione formulata nello studio è di un aumento della produttività del lavoro pari all’1,2%”.