Di Industria 5.0 si parla ormai da diversi anni, ma il termine non ha ancora smesso di generare controversie. Da un lato, vi è chi individua nel focus su sostenibilità, resilienza e umanocentrismo un cambio di paradigma nell’industria tale da giustificare l’utilizzo di un terminologia che, in passato, ha descritto salti tecnologici e cambiamenti produttivi importanti. Dall’altro, c’è chi sottolinea come il termine sia impropriamente utilizzato per individuare come una nuova fase quella che invece non è che una maturazione di Industria 4.0.
Sull’argomento si è espressa anche la Commissione europea, in un policy briefing dove delinea i contorni di una nuova fase industriale incentrata proprio su resilienza, sostenibilità e umanocentrismo e che spiega cos’è l’Industria 5.0 e qual è il suo rapporto con Industria 4.0.
Tuttavia, sono gli stessi autori del briefing a specificare che “Industria 5.0 non dovrebbe essere intesa come una continuazione cronologica o un’alternativa al paradigma esistente di Industria 4.0. È il risultato di un esercizio lungimirante, un modo di inquadrare come l’industria europea e le tendenze e i bisogni emergenti della società coesisteranno. Come tale, Industria 5.0 integra ed estende le caratteristiche distintive di Industria 4.0.”.
Ma, come diceva Nanni Moretti nel film Palombella rossa, “le parole sono importanti”. È quindi giusto parlare di Industria 5.0? Sulla questione non ha alcun dubbio Marco Taisch, professore di Sustainable Manufacturing e Operations Management del Politecnico di Milano, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Transizione 4.0 del Polimi, Scientific chairman della World Manufacturing Foundation, nonché uno dei membri dell’Advisory Board che contribuì alla nascita del Piano Industria 4.0. Lo abbiamo incontrato per parlare dell’argomento.
“Ribattezzare questo momento come Quinta Rivoluzione Industriale è un errore che rischia di creare confusione nelle imprese”, dice il professore. E lo fa spiegando perché proprio quelli che sono riconosciuti come i pillar di Industria 5.0 (umanocentrismo, resilienza e sostenibilità) siano in realtà temi su cui le imprese sono impegnate da tempo.
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Industria 4.0, l’automazione a servizio dell’uomo
“Il termine Industria 4.0 nacque perché parlavamo di una nuova rivoluzione industriale. Le rivoluzioni industriali nascono nel momento in cui una serie di tecnologie arrivano a maturità e vengono adottate nel mondo nel mondo dell’industria. Dire oggi che il semplice fatto – dico semplice anche se è importante – di considerare l’uomo al centro di un nuovo paradigma faccia nascere una nuova Rivoluzione Industriale lo ritengo un errore per diversi motivi“, spiega.
In primo luogo, il professore spiega come l’umanocentrismo sia un valore che caratterizza già l’Industria 4.0. “L’impressione qui è che si confonda l’Industria 4.0 con l’Industria 3.0, quella degli anni Settanta in cui l’automazione aveva il compito di sostituire i lavoratori”, dice.
È proprio nell’Industria 4.0 invece che l’automazione assume una dimensione diversa, non più in sostituzione dell’uomo, ma come “alleato” che gli permette di svincolarsi da quelle task pericolose e di routine in favore di compiti di più alto valore.
“Il 4.0 ha sempre – lavorando proprio sui dati e sull’intelligenza – messo l’uomo, in quanto decisore, al centro di questo paradigma. Sentir dire, quindi, che questo prima non venisse fatto vuol dire non aver capito cosa sia Industria 4.0″.
Il focus sulla sostenibilità? Una rivoluzione culturale e non industriale
Lo stesso discorso si può applicare alla sostenibilità. Un impegno che, spiega il professore, le imprese portavano avanti da tempo, ancor prima di Industria 4.0.
E, del resto, di sviluppo sostenibile si parlava già nel 1987, anno in cui il rapporto Brundtland introduce per la prima volta il concetto. E anche guardando agli sviluppi sul tema che si ebbero proprio in quegli anni (che abbiamo ripercorso in questo articolo), si nota come le azioni a supporto del concetto siano le stesse di cui si parla in questi anni.
Un esempio è nella teoria dell’economista Herman Daly e che riguarda le tre regole di un sistema sostenibile, ovvero:
- un uso sostenibile delle risorse rinnovabili, che comporta un ritmo di utilizzo inferiore alla velocità con cui le risorse sono in grado di rigenerarsi
- uso sostenibile delle risorse non rinnovabili, vale a dire che il loro esaurimento deve essere compensato dal passaggio a risorse rinnovabili
- un tasso di emissione sostenibile per l’inquinamento e i rifiuti. Secondo questo principio, il ritmo della produzione di emissioni e di rifiuti non dovrebbe essere più veloce del ritmo al quale i sistemi naturali possono assorbirli, riciclarli o renderli innocui
Tutti concetti che ora guidano le politiche europee di sostenibilità, tra cui il Green Deal e il pacchetto “Fit for 55”.
E anche per quanto riguarda la responsabilità sociale dell’industria, la si ritrova già negli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, formulata nel 2015.
“Stiamo parlando di sostenibilità da sempre. È giusto dare a importanza a questi temi, alla sostenibilità intesa come sostenibilità ambientale e responsabilità sociale. Sono temi importantissimi, lo sono oggi ancora più di prima, ma dire che siamo di fronte a una rivoluzione o a un nuovo paradigma credo che sia un grandissimo errore di comunicazione che crea confusione nelle nostre imprese”.
“È altrettanto vero – precisa Taisch –, che su questi temi vi è oggi un’attenzione maggiore rispetto al passato, ma è il frutto di una rivoluzione culturale, piuttosto che industriale“.
Un processo lento che ha visto la sostenibilità entrare nelle scuole già dall’inizio del percorso educativo dei giovanissimi e che ha portato a una generazione di consumatori più attenta ai valori della sostenibilità – intesa nell’accezione più ampia – e che, proprio sulla base di questi valori, orienta le proprie decisioni di acquisto.
La resilienza come reazione ai cambiamenti degli equilibri di mercato
Di resilienza, terzo pilastro della cosiddetta “Industria 5.0”, si è iniziato a parlare con insistenza nel contesto della pandemia, quando le imprese hanno dovuto riorganizzare le proprie attività sia per far fronte alle limitazioni imposte per arginare i contagi che per far fronte all’interruzione delle catene di fornitura, che è poi perdurata oltre la fase emergenziale e che si è aggravata dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino.
Anche questo termine, tuttavia, non rappresenta niente di nuovo per l’industria ed è frutto, spiega il professore, di un cambio negli equilibri di mercato che in altri periodi storici abbiamo ribattezzato con diversi termini.
“La resilienza è un’evoluzione degli equilibri dinamici che si creano. Se ne parlava già in qualche modo negli anni 2000 nel contesto della globalizzazione e allora voleva dire portare le produzioni lontano da casa e riportare i prodotti dentro i propri mercati. Abbiamo poi lavorato sull’ottimizzazione di questa globalizzazione, rendendo le filiere funzionali con scorte sempre più basse”.
Uno scenario, quello dell’iperglobalizzazione, che ha funzionato “finché i mercati sono stati stabili, ma momento in cui i mercati sono diventati turbolenti a causa dei diversi shock che si sono susseguiti – dai protezionismi alla pandemia, dall’interruzione delle catene di approvvigionamento alla crisi energetica – è parso chiaro che le imprese devono creare dei fattori di buffer che in qualche modo consentano loro di assorbire queste incertezze”. Che cosa vuol dire in pratica? “Che o l’impresa crea più scorte o deve essere più veloce a cambiare. Oggi la chiamiamo resilienza, 20 anni fa la chiamavamo flessibilità, ma il concetto è sempre lo stesso”, chiosa il professore.
Una buzz word utilizzata impropriamente
Le osservazioni fatte dal professor Taisch aprono la strada a un’altra domanda: qual è il rischio di utilizzare sempre più spesso il termine Industria 5.0 come una “buzz word”, un termine di tendenza? Non è lo stesso che si è già fatto dal 2016 con il 4.0?
Il rischio, stavolta, è almeno triplice: vediamo le sue tre dimensioni.
In primis si mortificano quelle realtà che hanno appena avviato il processo di trasformazione digitale nel segno del paradigma 4.0, facendole sentire da subito già inadeguate, non al passo con i tempi. Come quando, dopo aver messo da parte i risparmi di una vita, si acquista l’auto dei propri sogni e il giorno dopo si scopre che viene messa fuori produzione in favore del nuovo modello. La prima cosa che sorge nella mente di chi ha investito è il dubbio: “Avrò seguito la strada giusta?”. E, come abbiamo visto, questa è una domanda che le aziende non dovrebbero nemmeno porsi perché l’Industria 4.0 è una risposta efficace alle esigenze delle imprese anche e soprattutto negli uncertain times che contraddistinguono l’era contemporanea.
Il secondo punto è che parlare di Industria 5.0 dà per scontato che l’Industria 4.0 sia un dato acquisito: la normalità per un’industria che invece proprio ora sta iniziando a trasformare la consapevolezza acquisita negli ultimi anni in decisioni di investimento. Questo è un dato lontanissimo dalla realtà che, se arrivasse al decisore politico, rischierebbe di giustificare il freno agli incentivi e di sviare le future scelte di politica industriale.
Da ultimo, come ha rilevato Taisch, anche dal punto di vista comunicativo si rischia di generare confusione per le imprese e, conseguentemente, disaffezione nei confronti dei paradigmi dell’innovazione su cui si è faticosamente costruita la consapevolezza.
Industria 5.0, l’opinione dei top player dell’Automazione
In questo articolo abbiamo raccolto l’opinione dei top player dell’Automazione.
L’indagine
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