La globalizzazione dei mercati e la tecnologia resa accessibile da internet pongono nuovi problemi alle imprese e alle organizzazioni, nuovi scenari in cui competere e in cui e non è possibile pensare di essere autosufficienti. L’Open innovation può essere considerata uno degli approcci privilegiati per innovare il business o l’organizzazione, poiché permette di introdurre cambiamento coinvolgendo una platea di stakeholder molto più ampia di quella dei board societari, promuovendo effetti positivi e un circolo virtuoso non solo in azienda, ma su tutto il territorio coinvolto. Per poter sposare questo approccio, è necessario avere la giusta mentalità e un’esigenza di innovazione.
Clienti sempre più esigenti e utenti sempre più informati, insieme a una rivoluzione tecnologica veloce e irreversibile, si traducono in mercati in continua evoluzione in cui non è possibile operare affidandosi solo ai vecchi paradigmi. La tecnologia e un approccio orientato alla cultura del cambiamento possono aiutare le imprese a competere, ma in che modo?
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Open innovation, la cultura prima della tecnologia
Nel saggio “The era of open innovation”, scritto dal professore universitario Henry W. Chesbrough e pubblicato sul MIT Sloan Management Review nel 2003, troviamo l’origine della Open innovation. Quindi, prima il mindset o prima la tecnologia? Capita spesso di incrociare imprenditori e professionisti che tentano di innovare il proprio business chiedendosi quale possa essere la tecnologia migliore, magari al minor prezzo possibile. Vero è che bisogna fare di necessità virtù, in un periodo in cui molte micro, piccole e medie imprese italiane fanno i conti con anni di crisi economica in uno scenario globale in continua evoluzione; ma è anche vero che la tecnologia – paradossalmente – non dovrebbe essere la priorità.
Il motivo è che, prima di introdurre la tecnologia in azienda, occorre occuparsi della cultura del cambiamento e del digitale, da favorire soprattutto in quelle strutture organizzative che non hanno le competenze o la volontà per evolversi o sono troppo grandi per avviare un cambiamento che coinvolga tutta l’organizzazione aziendale. C’è un fattore di resistenza, che in molti casi proviene dalla forza operativa delle organizzazioni: i dipendenti, spesso restii ad adottare nuovi modelli o processi o tecnologie. La tecnologia cambia in modo troppo veloce; ciò che serve è la capacità di “starle dietro”, vale a dire la cultura aziendale e la gestione dei processi.
Appurato questo, lì dove il problema della cultura del digitale è stato superato, le organizzazioni cominciano a mostrarsi sensibili a alla possibilità di coinvolgere stakeholder e professionisti esterni all’azienda per individuare le migliori soluzioni innovative. In un certo senso, prima di definire e “imporre” un cambiamento dall’alto, alcune realtà preferiscono un approccio bottom up, dal basso verso l’alto. L’impresa espone la propria esigenza: dagli stakeholder (fornitori, start up, cittadini, programmatori, professionisti, ecc.) provengono le proposte di soluzione. L’Open innovation è quindi un modo per introdurre la tecnologia, o un cambiamento che risponde a un’esigenza di innovazione, nell’organizzazione promuovendo però innanzitutto un’apertura, una cultura aziendale favorevole alla contaminazione e, quindi, al cambiamento, tra l’altro con grandi ripercussioni (positive) in termini di immagine e brand reputation. Un approccio, questo, che potrebbe essere replicato e applicato anche dalle pubbliche amministrazioni, per restituire ai cittadini servizi più efficienti e democratizzare i processi decisionali.
Hackathon: il perché delle maratone digitali
Risultato della fusione tra “hacker” e “marathon”, gli hackathon sono una delle forme privilegiate per fare Open Innovation: maratone digitali, della durata variabile, in cui sviluppatori, informatici, professionisti e marketer, organizzati in gruppi di lavoro, mettono a disposizione le proprie competenze ed esperienze per giungere alla individuazione di una soluzione tecnologica (un progetto, un prodotto, un servizio, ecc.) che risponda all’esigenza dell’organizzazione promotrice.
La “maratona” può essere promossa da organizzazioni interessate ad aprire le proprie porte a professionisti esterni, al fine di coinvolgerli nella definizione di proposte innovative. In genere, al termine della fase di lavoro in gruppo, segue la presentazione della proposta nel corso di una pitch session alla presenza di una giuria di esperti e alla squadra vincitrice è corrisposto un premio in denaro, oltre alla possibilità di sviluppare la proposta in azienda. Appurato che per le aziende si tratta di un’occasione importante per introdurre idee, processi, metodi e anche risorse umane dotate di spiccate competenze tecniche e trasversali, perché gli hackathon stanno diventando così popolari soprattutto tra i giovani?
Tante sono le ragioni. Innanzitutto, le generazioni che partecipano a questo tipo di eventi hanno una propensione al tema della “contaminazione” e del digitale di certo molto più spiccata dei profili “senior”; molto spesso, si vince un premio in denaro che – per uno studente o neolaureato – costituisce la possibilità di avere risorse in più per studiare, seguire un master, avviare una start up, comprarsi Arduino o qualche altra “nerdata” o, perché no, farsi una vacanza. Soprattutto, queste maratone rappresentano una grandissima opportunità per: migliorare le proprie soft skill, tra cui il lavoro di gruppo o le doti di leadership, l’orientamento al risultato, la gestione del tempo e dello stress; fare networking e conoscere altri professionisti; entrare in contatto con HR e dirigenti di grandi aziende e organizzazioni interessate a introdurre nuove risorse umane nei propri team.
Open Innovation: cos’è e come si fa
Ma cosa si intende per Open Innovation? Non è uno strumento o una tecnologia; trattasi più che altro di un modello per fare business, un approccio che investe la cultura e la strategia di un’organizzazione che decide di aprire i suoi confini ad altri operatori economici e non, al fine di individuare una soluzione a un’esigenza di innovazione o cambiamento. È un modo di creazione del valore non circoscritto alla struttura organizzativa intesa in senso verticale, ma che favorisce uno scambio orizzontale tra imprese e professionisti, trasformando gli input (idee, progetti, soluzioni) che arrivano dall’esterno in output di prodotto, di innovazione, di processo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito, per esempio, alla contaminazione di grandi aziende con start up, in una logica win-win: l’azienda si apre alla possibilità di ricevere idee e proposte innovative da menti fresche e preparate come gli startupper; le start up si avvalgono dell’esperienza e del know-how imprenditoriale delle grandi aziende per migliorare i propri processi di business e crescere attraverso processi di incubazione o accelerazione. Un aspetto positivo di questo fenomeno è l’aver assistito alla diffusione di questo approccio un po’ su tutto il territorio nazionale, da Nord a Sud, complice il moltiplicarsi di incubatori di start-up, fablab, ecc.
Altri strumenti per fare Open Innovation sono i contest aperti a cittadini, le call for proposal e gli hackathon, tutte forme per introdurre novità in azienda coinvolgendo soggetti esterni all’organizzazione, in particolare studenti universitari, informatici, programmatori, ma anche esperti di marketing e comunicazione digitale. Cosa succede in questi casi? È plausibile che l’Open Innovation permetta di “democratizzare” i processi decisionali, visto che molto spesso i fruitori dei beni e dei servizi prodotti sono proprio i cittadini; ma, soprattutto, queste forme di contaminazione si traducono spesso in grandi momenti di aggregazione, di scambio di conoscenze e di networking tra professionisti, capaci di promuovere una nuova cultura ben oltre i tre/quattro giorni di un hackathon, creando un circolo virtuoso di relazioni, scambio di competenze, nuove occasioni di business.
I vantaggi dell’Open innovation per le aziende
In realtà, i vantaggi di questo approccio sono già emersi. L’organizzazione che sposa l’Open Innovation riconosce di non poter operare da sola se vuole continuare a competere sul mercato e che, quindi, ha bisogno di “aprirsi al nuovo” interagendo proprio con coloro che si fanno portatori e promotori di novità: gli studenti universitari, gli startupper, professionisti del digitale e, in genere, tutti coloro che vogliono condividere le proprie idee e competenze.
Ma c’è di più. L’organizzazione di un hackathon, per esempio, significa anche introdurre elementi di innovazione nella propria strategia di comunicazione e di marketing, oltre che di gestione dei processi, con un notevole risultato in termini di immagine; significa entrare in contatto con università, politecnici, altre aziende o istituzioni (pensiamo alle richieste di patrocinio) e media che innescano un proficuo networking tra diversi soggetti e, in molti casi, l’avvio di progetti di ricerca, spin off e start up, migliorando o promuovendo la propria brand reputation. Insomma, fare Open Innovation vuol dire provare a cambiare innanzitutto il contesto, per poi avere le risorse – tecnologiche, culturali e umane – per gestire tutte le innovazioni di cui l’organizzazione ha bisogno.