Innovazione industriale

Open innovation come approccio collaborativo all’innovazione

Il modello a “innovazione aperta” consente di poter utilizzare competenze e conoscenze distribuite in una serie di domini tecnologici e settori disciplinari anche molto distanti tra loro

Pubblicato il 01 Lug 2020

open innovation


La open innovation fa riferimento a un modello di innovazione in base al quale si afferma che le imprese, per essere competitive sul mercato, possono e devono sempre più collaborare con i diversi attori dell’ecosistema in cui operano, facendo ricorso a idee, conoscenze e competenze, sia esterne che interne, e gestendo opportunamente i flussi di conoscenza attraverso i confini aziendali. Oggi il paradigma della open innovation è consolidato e ampiamente adottato, al punto che per molte organizzazioni la questione non è più se adottare un approccio aperto o chiuso all’innovazione, quanto piuttosto decidere sul grado di apertura ottimale verso l’esterno e con quali ecosistemi o soggetti esterni interagire.

Dalla “closed innovation” alla open innovation

L’approccio tradizionale adottato dalle imprese fino alla fine del XX secolo si basava su un modello chiuso (anche noto come “closed innovation”), in base al quale si riteneva che per innovare con successo fosse fondamentale disporre internamente e controllare tutte le risorse, le competenze, le tecnologie, le idee e le conoscenze per portare avanti il processo di innovazione. Dunque, per innovare di più era necessario investire di più, far crescere i laboratori R&D, e assumere i migliori talenti, tecnici, designer, ingegneri e scienziati che potessero contribuire in maniera efficace colmando così il gap di competenze necessarie.

In questo approccio tutti i progetti di innovazione venivano condotti all’interno dei confini aziendali (figura 1). Alcuni di questi potevano essere interrotti perché, ad esempio non soddisfacevano i requisiti tecnici e commerciali identificati nella fase di concepimento del progetto, mentre altri riuscivano a raggiungere il mercato sotto forma di nuovi prodotti, nuovi servizi o nuovi modelli di business. I profitti generati venivano poi re-investiti nelle attività di ricerca e innovazione, secondo appunto un ciclo chiuso.

Figura 1: modello “closed innovation”

Questo modo di fare innovazione presupponeva che un’impresa al fine di innovare e rimanere competitiva sul mercato, fosse in grado di espandere e approfondire il proprio know-how, come base distintiva delle proprie competenze. Oggi, questo modello non può essere considerato un approccio efficace all’innovazione per le seguenti ragioni. Innanzitutto, il processo di innovazione è diventato molto più complesso e molto più costoso. Per far fronte a delle esigenze dei clienti che cambiano molto frequentemente, a una competizione che è diventata sempre più globale e imprevedibile, le organizzazioni devono innovare incorporando nei loro prodotti e servizi varie tecnologie, spesso di natura digitale, molto di più di quanto accadeva fino a qualche tempo fa. Ma per fare ciò servono delle competenze molto diversificate che le imprese non hanno. E la loro acquisizione e integrazione comporta un notevole costo. Questo fenomeno, anche noto come cross-fertilizzazione dello sviluppo di nuovi prodotti e servizi, è comune a tutti i settori industriali. Rispetto a 20 anni fa, l’innovazione tecnologica può essere considerata al giorno d’oggi come il risultato non tanto della specializzazione delle competenze di un’impresa all’interno di un ben definito ambito tecnologico o di mercato, quanto piuttosto il risultato della combinazione di competenze e tecnologie che appartengono a settori disciplinari diversi. Un altro fenomeno rilevante che ha determinato la crisi del modello chiuso è la riduzione del ciclo di vita dei nuovi prodotti e servizi sul mercato. In alcuni settori industriali si è passati da cicli di 2-3 anni a cicli di un anno, se non addirittura 6 mesi. E questa riduzione del ciclo di vista dei prodotti e servizi si traduce inevitabilmente in un’accelerazione del ciclo di innovazione. Quindi, non solo innovare è molto più complesso ma bisogna farlo anche più velocemente. Cross-fertilizzazione e riduzione del ciclo di vita dei nuovi prodotti e servizi combinati assieme hanno creato un circolo vizioso in base al quale le aziende che vogliono innovare sono costrette a fare ingenti investimenti in R&D, ma poiché dispongono di una finestra temporale sempre più ristretta per ottenere gli eventuali profitti derivanti dalle attività di innovazione, queste stesse aziende sperimentano anche una contrazione del ritorno sugli investimenti di R&D.

Stante, dunque, le riduzioni dei ritorni degli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica, sempre più imprese (soprattutto quelle che sono attive in settori dove la tecnologia gioca un ruolo chiave per garantire e mantenere nel tempo un vantaggio competitivo) si sono rese conto che l’approccio tradizionale chiuso non era più perseguibile. Le imprese che hanno dimostrato di innovare veramente hanno fatto evolvere il loro approccio all’innovazione da una logica chiusa ad una logica aperta, adottando, appunto, un modello basato sul paradigma dell’open innovation.

I principi base della open innovation

La open innovation è un modello molto affascinante nella sua semplicità concettuale ma sfidante nella sua applicazione. Di fatto, oggi, la open innovation sta diventando il modello standard con cui fare innovazione. Tant’è che la questione non è se adottare un modello aperto o chiuso, quanto piuttosto è decidere il grado di apertura che si vuole avere e con quali ecosistemi esterni interagire.

Nel modello di open innovation si riconosce che è meno costoso, meno rischioso, più veloce ed efficace, saper identificare, cercare, utilizzare le idee, le competenze, le tecnologie, il know-how che già esistono fuori dai confini dell’azienda. In questo approccio i confini del processo di innovazione diventano permeabili e le tecnologie, conoscenze, e competenze, necessarie per fare innovazione possono venire acquisite dall’esterno e assorbite all’interno dell’impresa, o possono essere selezionate all’interno dell’impresa stessa e trasferite in contesti esterni (figura 2).

Figura 2: modello open innovation

Alla base del modello di open innovation ci sono due principi fondamentali. Il primo, anche noto come legge di Joy (figura 3), da Bill Joy co-founder della Sun Microsystem, dice testualmente, “non importa chi tu sia (riferendosi alle aziende) di certo le persone più intelligenti non lavorano per te”. E ciò a sottolineare il fatto che per quanto uno possa avere i migliori ingegneri, designer, tecnici e scienziati, ci sono delle competenze e delle conoscenze di cui l’azienda non dispone.

Figura 3: legge di Joy

Il secondo principio è noto come la legge di Linus (figura4) e richiama all’approccio alla base del software open source. Ovvero, dato un numero sufficiente di occhi (alias, persone), tutti gli errori (malfunzionamenti del software) possono essere risolti. E ciò dunque rimanda ad un approccio collaborativo alla risoluzione dei problemi.

Figura 4: legge di Linus

Il modello di innovazione aperta si concretizza, dunque, in un approccio collaborativo all’innovazione tramite il quale è possibile fare leva sulla conoscenza che è distribuita in varie fonti di innovazione. È come se si venisse a creare un mercato dell’innovazione dove la materia di scambio è proprio la conoscenza. E a una domanda di conoscenza corrisponde un’offerta di conoscenza. Pertanto, gestire l’innovazione in un contesto aperto comporterà la gestione dei flussi di conoscenza da e verso l’azienda attraverso meccanismi che potranno essere pecuniari e non pecuniari.

Approccio collaborativo all’innovazione

Il modello di open innovation porta a un cambio di mindset molto importante. Le imprese hanno sempre creduto che per innovare con successo fosse fondamentale disporre di un solido know-how, cioè di un set di competenze, conoscenze e tecnologie distintive che l’impresa presidiava, su cui investiva e che faceva crescere nel tempo. Oggi le imprese che hanno adottato il modello di open innovation hanno capito che il know-how non è più sufficiente e hanno cominciato a sviluppare il know-where, cioè una rete di interconnessione con il mondo esterno e la capacità di trovare velocemente ed efficacemente prima dei competitor le giuste fonti di conoscenza dove stanno le competenze, le tecnologie, le soluzioni che servono per accelerare e rendere più efficace il processo di innovazione. Le aziende più competitive sono proprio quelle che hanno saputo creare le relazioni giuste al momento giusto.

Le fonti di conoscenza possono essere tante e di vario tipo. Oltre ai centri di ricerca e le università, ci sono anche le startup, le pmi innovative, i grandi vendor di tecnologie, gli incubatori e acceleratori di impresa, le organizzazioni pubbliche, i policy maker, i competitor, i clienti, fino addirittura ai dipendenti dell’azienda stessa. Ciascuno di questi attori poterà in dote nella relazione un certo tipo di conoscenza che influenza la natura del contributo di innovazione.

A seconda della direzione del flusso di conoscenza, si distinguono due tipi di approcci all’innovazione aperta: Inbound Open Innovation e Outbound Open Innovation. Nel primo caso l’azienda prova a risolvere il proprio problema di innovazione ricorrendo a dei contributi esterni mediante l’approvvigionamento (meccanismo non pecuniario) di conoscenze esterne attraverso la partecipazione ad esempio a community dell’innovazione, e/o l’acquisizione (meccanismo pecuniario) di licenze di prodotti e servizi esterni, o soluzioni esterne tramite crowdsourcing. Nel secondo caso, invece, l’azienda dispone di elementi di conoscenza e li valorizza indirizzandoli verso l’esterno per essere impiegati da altri attori dell’ecosistema. Questa modalità può includere meccanismi pecuniari come, ad esempio, il rilascio di licenze, vendita di brevetti o l’identificazione di aree di applicazione alternative per commercializzare le tecnologie interne attraverso partnership strategiche, e meccanismi non pecuniari che sostanzialmente si basano sulla libera rivelazione di conoscenza all’ecosistema esterno. Ne è un esempio il caso della condivisione gratuita da parte di Tesla dei suoi brevetti per promuovere la creazione di nuovi mercati (ad es. infrastrutture e domanda) per i veicoli elettrici.

Principali sfide all’adozione di un modello di open innovation

L’open innovation è un approccio strategico all’innovazione tecnologica che vede l’azienda come un nodo di un network di relazioni internazionali attraverso cui fluiscono tecnologie, conoscenza, e know-how in ingresso ed in uscita dai confini aziendali stessi. In quest’ottica, affinché l’approccio di open innovation sia realizzato pienamente, le imprese devono sviluppare le seguenti capacità:

  • capacità di assorbimento, ovvero una capacità di individuare le competenze e le tecnologie potenzialmente utili al processo di innovazione attraverso la collaborazione, la comunicazione e la cross fertilizzazione con gli attori dell’ecosistema esterno all’impresa, e successivamente di assimilarle e integrarle con le proprie competenze distintive, e quindi utilizzarle e valorizzarle per generare nuovi prodotti, servizi e modelli di business;
  • capacità di trasferimento, ovvero una capacità di sfruttamento del network delle relazioni per trasferire in modo efficace ed efficiente parte delle proprie tecnologie magari a oggi inutilizzate valorizzandole così dal punto di vista economico.

L’adozione di un modello Inbound Open Innovation piuttosto che Outbound Open Innovation per risolvere lo specifico problema di innovazione, così come la creazione dei meccanismi e degli strumenti necessari per trasformare i contributi derivanti dall’open innovation in risultati utilizzabili ai fini del processo di innovazione, sono due aspetti fondamentali che le aziende devono considerare per realizzare efficacemente un modello di innovazione aperta e farlo evolvere in una pratica sostenibile.

Per sviluppare capacità di assorbimento e trasferimento le aziende dovranno dotarsi di nuove pratiche organizzative, nuovi processi interni che favoriscano l’accesso, la condivisione e l’esplorazione della conoscenza interna ed esterna, un certo grado di autonomia per i dipendenti affinché attraverso la collaborazione possano perseguire le opportunità, e forme di governance che consentano un’allocazione efficace e flessibile delle risorse, e stabiliscano le policy di condivisione della proprietà intellettuale.

Conclusioni

Il modello di innovazione aperta è la risposta delle aziende al fenomeno della cross fertilizzazione cui abbiamo accennato prima, in quanto consente di poter utilizzare competenze e conoscenze distribuite in una serie di domini tecnologici e settori disciplinari anche molto distanti tra loro. Quando un’impresa di trova ad attivare un progetto di innovazione tecnologica può dunque domandarsi se non esista un’altra organizzazione che non abbia già al proprio interno un bagaglio di conoscenze e tecnologie che possa essere utilizzato nell’ambito del proprio progetto di innovazione. Se la risposta è positiva, l’impresa si adopererà per acquisire o approvvigionarsi di queste tecnologie e competenze con varie forme e strumenti integrandole all’interno in modo da ottimizzare i tempi, ridurre i costi e condividere i rischi del processo di sviluppo del nuovo prodotto/servizio o del nuovo modello di business.

Ma il modello di innovazione aperta presuppone anche che le imprese decidano di trasferire all’esterno alcune delle tecnologie che hanno sviluppato al loro interno, soprattutto quelle che ancora non hanno trovato applicazione in un nuovo prodotto/servizio, dando così una risposta alla crisi della redditività degli investimenti in ricerca e sviluppo di cui abbiamo parlato precedentemente. Queste tecnologie potranno essere valorizzate vendendole o cedendole a organizzazioni esterne, in modo da poter essere utilizzate per produrre nuovi prodotti e servizi da commercializzare sui mercati in cui queste organizzazioni esterne sono attive. Questo orientamento all’innovazione aperta è molto complicato da gestire e ha delle forti implicazioni strategiche. Infatti, vendere o cedere delle competenze e tecnologie proprietarie a organizzazioni esterne espone le imprese al rischio di perdere il proprio vantaggio competitivo. E, dunque, sarà necessario prestare molta attenzione nella scelta del bagaglio di competenze e tecnologie da commercializzare secondo gli scopi del paradigma di open innovation.

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Antonella Chirichiello
Antonella Chirichiello

Innovation Manager. Esperta di innovazione e trasferimento tecnologico, globetrotter, poliglotta e appassionata di serie televisive.

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