Al concetto di servitizzazione e a come sta modificando i modelli di business tradizionali delle aziende sono stati dedicati finora numerosi articoli. Nell’ambito dell’automotive, segmento dell’industria manifatturiera che in Italia annovera diverse eccellenze, la servitizzazione sta prendendo piede soprattutto grazie alla capacità di raccogliere dati dalle auto connesse. Il mercato italiano della Connected Car, secondo quanto riporta l’omonimo Osservatorio del Politecnico di Milano, nel 2020 ha raggiunto un valore pari a 1,8 miliardi di euro. A fronte del crollo del mercato complessivo dell’auto, che ha registrato perdite nell’ordine del 27,9% e 535 mila veicoli venduti in meno, le auto connesse e “intelligenti” alla fine dell’anno scorso erano 17,3 milioni, cioè il 45% del parco circolante nel nostro Paese. Non bisogna pensare che le tecnologie che interessano questo mondo siano particolarmente recenti, visto che le soluzioni più diffuse sono soprattutto i box GPS e GPRS per la localizzazione e la registrazione dei parametri di guida con finalità assicurative. Quella che, semmai, risulta davvero innovativa è la strategia per valorizzare i dati raccolti dai veicoli che si focalizzano su nuovi modelli di pricing che prevedono ad esempio l’acquisto di servizi smart a corredo dell’utilizzo dell’auto e che spesso adottano modalità pay-per-use.
Indice degli argomenti
La crescita del mercato della Connected Car
La servitizzazione nell’automotive, in sostanza, fa leva sul fatto che nei prossimi anni le auto tenderanno a diventare il volano per portare al cliente servizi innovativi e funzionalità di prodotto aggiuntive che si riferiscono all’impiego del veicolo nella sua interezza, a quello delle parti meccaniche ed elettriche o ai servizi associati (assicurazione, parcheggi, ingressi in aree cittadine specifiche ecc.). Tutto questo implica un ridisegno dei processi produttivi sia negli OEM (original equipment manufacturer) di auto sia in tutta la filiera che si occupa di componentistica, apparecchiature e accessori all’interno del comparto. Lo si capisce ponendo attenzione al grande fermento che attualmente accompagna i sistemi di driverless car. La mobilità del futuro, in cui veicoli a guida autonoma e robo-taxi rappresenteranno la norma, dovrà necessariamente fondarsi su una rete logistica altamente automatizzata. Le tecnologie digitali inerenti, come già avviene, comprenderanno una sensoristica IoT per la trasmissione dei dati delle macchine tra di loro (V2V, Vehicle to Vehicle), con le infrastrutture a bordo strada come segnaletica e semafori (V2I, Vehicle to Infrastructure) e con i pedoni (V2P, Vehicle to Pedestrian). L’elevata complessità di queste architetture spingerà inevitabilmente verso una ristrutturazione dei modelli di business e delle relazioni fra costruttori e fornitori nell’industria dell’automotive.
L’automotive verso un modello data-driven
Sebbene il robo-taxi e la self-driving car possano sembrare innovazioni di là da venire, l’esigenza che i produttori cooperino all’interno di una supply chain estesa e integrata appartiene già al contesto odierno. La servitizzazione, come offerta di servizi a corredo del prodotto o come offerta di servizi di cui il prodotto stesso è un elemento insieme agli altri, richiede che le dinamiche di produzione tengano conto di quale sarà l’utilizzo finale del veicolo o di un suo pezzo. Se, ad esempio, il tempo di usura di un determinato componente è suscettibile di una proposta commerciale variabile, l’azienda deve realizzarlo in base ai criteri dettati dall’OEM committente, criteri che possono cambiare in maniera repentina. E lo stesso OEM non può esimersi dal disegnare e costruire auto il cui valore aggiunto non si limita alla qualità dell’oggetto in sé, ma è legato anche ai dati che sarà in grado di generare. In entrambi i casi, quella dei dati è la vera rivoluzione che sta a monte e a valle della servitizzazione nell’automotive, poiché interviene nei cicli produttivi e nella supply chain ben prima che il veicolo sia immesso nei suoi canali di vendita. Un approccio data-driven, in altri termini, è ciò che occorre affinché le aziende del settore possano adattarsi continuamente a un mercato in cui servizio e prodotto sono sempre più inscindibili.
Digitalizzazione dei processi, l’esempio di Intesa
C’è un presupposto alla conversione data-driven delle imprese dell’automotive e si chiama digitalizzazione dei processi. In assenza, non è possibile attingere a tutti quei dati provenienti dalle varie aree aziendali quali operation, finance, marketing e vendita, ricerca e sviluppo. In genere, per ciascuna di queste aree esistono software specifici che abilitano il flusso digitale delle informazioni e che tendono ormai a confluire in una vista unica. Intesa, società del gruppo IBM, ha sperimentato con successo come soluzioni collaborative basate sulla tecnologia EDI (Electronic Data Interchange) contribuiscano a ottimizzare la pianificazione e il controllo dell’avanzamento ordini nella catena di produzione. O, ancora, in che modo i sistemi TMS (Transportation Management System) permettano una tracciabilità in tempo reale di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Ma ciò che trasforma il singolo miglioramento di un’area funzionale o di una linea di produzione nel tassello di una più ampia visione data-driven è un ecosistema in cui convergono tutte le fonti di dati. Intesa Platform ha proprio questo scopo, poiché si pone come hub che, da una parte, raduna tutte le informazioni da sorgenti disparate, dall’altra le restituisce in forma aumentata come insight, suggerimenti automatici e indicazioni operative. Per gli OEM presenti nell’automotive e per tutte le altre aziende della filiera, che nel complesso devono fare i conti con meccanismi di servitizzazione sempre più pervasivi, uno strumento come Intesa Platform fornisce perciò quella interconnessione globale che serve a coprire tutti i processi, modulandoli di volta in volta in funzione di una domanda di mercato mutevole.
Articolo originariamente pubblicato il 26 Ott 2021