Competence center: una questione di nome (e di fatto)

A breve un decreto del Mise istituirà i Competence Center presso alcune università. Ma il modello italiano sembra distaccarsi da quello europeo.

Pubblicato il 21 Apr 2017

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Questione di nome o di sostanza? La versione italiana dei Competence Center, prevista dal piano industria 4.0 del governo, pur avendo lo stesso nome dei Competence Center promossi dall’Europa, potrebbe in verità essere qualcosa di molto diverso. Un’operazione che mette al centro più il profilo dell’organizzazione territoriale che quello della ricerca.

A porre il problema è Elena Prodi, apprendista di ricerca di Adapt, l’Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e le relazioni industriali fondata da Marco Biagi. Con un intervento pubblicato sull’ultimo bollettino dell’associazione, la ricercatrice osserva che il profilo dei Competence Center che emergerebbe dalla relazione illustrativa che accompagna la bozza di decreto con cui il Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) istituirà questi enti nei prossimi giorni ha poco in comune con lo statuto comunitario.

Mentre per l’Italia si delinea di fatto un modello di enti partecipati dal pubblico e dai privati e insediati presso le università per fare ricerca comune, l’Europa si immagina network estesi, che non convivono necessariamente sotto lo stesso tetto e a cui partecipa chi ha specifiche competenze settoriali, per formare le PMI. L’Italia, secondo la dottoressa Prodi, darebbe quindi una lettura “ristretta” del Competence Center e più attento all’aspetto fisico di domiciliazione (presso le università) che al senso finale dell’operazione.

Competence Center e Digital Innovation Hub

Il prossimo provvedimento ministeriale, che dovrà dare attuazione a quanto previsto dalla Legge di Bilancio, che ha stanziato 30 milioni di euro per il biennio 2017-2018, dovrebbe delineare i Competence Center come “centri di competenza ad alta specializzazione aventi lo scopo di promuovere e realizzare progetti di ricerca applicata, di trasferimento tecnologico e di formazione su tecnologie avanzate”, riporta Prodi.

La Commissione europea, però, ha un’altra idea di ciò che chiama Competence Center. Nel dicembre dello scorso anno un documento comunitario lega a doppio filo l’attività di questi enti a quella dei Digital Innovation Hub.

Elena Prodi di Adapt

Questi ultimi, osserva Prodi, “non sono solamente un luogo fisico ma un più ampio concetto che descrive il network di attori regionali che, offrendo alle PMI servizi di orientamento, formazione e nuove strategie di business rispetto alle tecnologie abilitanti la quarta rivoluzione industriale, concorrono alla realizzazione di un vero e proprio hub, un ecosistema volto a favorire l’innovazione connessa al digitale”. Il Competence Center funge da regista tecnico scientifico per i Digital Innovation Hub. Se una piccola impresa vuole sperimentare tecnologie 4.0 o fare ricerca applicata, si rivolge al Competence Center, che alla lunga, scrive Prodi, diventa l’hub territoriale di questi saperi.

Competence Center o Research Campus?

Per Prodi l’applicazione più cristallina di questo sistema si osserva in Germania, dove già esistono Competence Center, anche privati. Berlino ha stabilito che ogni Land ne dovrà aprire uno. Sedici in tutto, quindi, con l’obiettivo di offrire alle PMI assistenza allo sviluppo digitale. Il governo federale ha pubblicato un bando a cui possono aderire tutti i soggetti che dimostrano di avere le capacità di costituire centri di questi tipo, e già cinque Competence center sono all’opera.

La bozza del Mise, secondo Prodi, ricorda invece di più i Research campus tedeschi . “Si tratta di un programma lanciato nel 2011 che stanzia generosi finanziamenti per promuovere la collaborazione tra università e imprese nell’ambito di progetti di ricerca a medio-lungo termine – scrive la studiosa -. Centrale, per poter beneficiare della somma erogata, è la realizzazione delle attività di ricerca “sotto lo stesso tetto”: la partnership deve essere fisicamente insediata presso una università o un centro di ricerca”. Nel caso del Competence Center alla tedesca, che richiama le linee guida europee, questo non è necessario. Il centro può sorgere in qualunque luogo, senza che spetti necessariamente a un ateneo farsi carico del compito, e non si deve occupare solo di progetti pratici di ricerca in ottica 4.0, ma di affiancamento alle imprese nella formazione del personale o nella ricerca di finanziamenti.

Punti da chiarire

Per Prodi, “il Piano Nazionale Industria 4.0 sembra quindi non chiarire la natura complementare e la continuità, tanto concettuale quanto funzionale, esistente tra Competence Center e Digital Innovation Hub”. In più, “sembrerebbe che la configurazione italiana dei Competence Center, in ragione del forte coinvolgimento dei poli di eccellenza universitari, dei meccanismi di co-finanziamento e della gestione pubblico-privata, evochi invero l’esperienza dei Research Campus tedeschi”. Infine Prodi si domanda “se e come verranno coinvolti nel piano i parchi scientifici, i poli tecnologici, i distretti e i cluster”. “Il rischio – conclude la ricercatrice – è continuare a moltiplicare esperienze del passato che, pure con nomi meno evocativi e diversa veste giuridica, nella sostanza sono state spesso talvolta descritte come “operazioni immobiliari” rispetto alle quali sono state investite generose somme di denaro pubblico per finanziarne le attività, i cui risultati hanno però in parte tradito le aspettative”.

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Luca Zorloni

Cronaca ed economia mi sono sembrate per anni mondi distanti dal mio futuro. E poi mi sono ritrovato cronista economico. Prima i fatti, poi le opinioni. Collaboro con Il Giorno e Wired e, da qualche mese, con Innovation Post.

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