Istat: sull’innovazione le aziende italiane fanno ancora fatica

Pubblicato il 16 Mag 2018

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Poche risorse per l’innovazione e scarsa propensione alla cooperazione, soprattutto tra le PMI. In sintesi è questa l’istantanea consegnata dal Rapporto Annuale dell’Istat, presentato questa mattina a Roma, sul sistema produttivo italiano. La ricerca ha focalizzato le sue attenzioni sulle relazioni che le aziende intrattengono con soggetti pubblici e privati per la gestione e lo sviluppo del proprio business. In particolare dal Rapporto Istat emerge che, in Italia, l’innovazione è limitata agli scambi di know how che le aziende hanno con fornitori di attrezzature e materiali, dunque altri soggetti privati.  Mentre rimane secondario l’apporto che viene fornito dalle Università italiane al sistema produttivo del Paese.

Innovazione condizionata dalla dimensione delle imprese

Se da un lato si può spiegare questa poca propensione alla cooperazione per l’innovazione con la prolungata crisi economica degli scorsi anni e con le risorse limitate a disposizione degli investimenti, allo stesso tempo dal Rapporto emerge che la particolare conformazione del tessuto produttivo italiano, composto prevalentemente da piccole e medie imprese, condiziona la cooperazione e l’innovazione.

Al netto delle relazioni informali che si possono creare tra aziende, per quanto riguarda quelle formali, vale a dire regolate da accordi o contratti, si evidenzia che soprattutto le grandi industrie, dotate di dipartimenti di ricerca e sviluppo, stringono accordi di collaborazione con soggetti esterni. Secondo la rilevazione europea sull’innovazione 2012-2014, nell’Ue tra il 60 e il 70 per cento delle imprese innovatrici sviluppa nuovi prodotti o processi esclusivamente al proprio interno. Lo spazio per l’interazione con soggetti esterni nello sviluppo di innovazioni è quindi limitato, ma vi sono comunque differenze significative, tra paesi e settori, sulle modalità con cui le imprese si relazionano con l’esterno per le loro attività innovative.

Le collaborazioni con le Università e i soggetti istituzionali di ricerca, pur alla presenza di casi di eccellenza, rimangono limitate, certificando la distanza tra formazione e sistema produttivo.

Impresa 4.0 tra formazione e digital divide

Nel suo Rapporto l’Istat pone attenzione anche sul sistema industriale italiano alle prese con le trasformazioni tecnologiche. L’adozione delle tecnologie che caratterizzano la “quarta rivoluzione industriale”: automazione e fabbrica intelligente; tecniche di produzione additive; simulazione e realtà aumentata; tecnologie cloud e gestione integrata dei dati di produzione; digitalizzazione dei processi interni. Sono tutti aspetti fortemente influenzati da un ritardo su diversi ambiti. In particolare, nell’immediato futuro, ci sarà bisogno di intervenire sulla formazione di personale specializzato per la transizione digitale, su una rete di consulenza e assistenza adeguata ai bisogni dell’industria del futuro e sull’adeguamento delle reti di comunicazione in grado di accoglie flussi crescenti di dati.

Lo standard che si sta imponendo per le imprese 4.0 è infatti quello di una velocità di internet sino a 100 Mbps che garantisca la funzionalità di tutte le applicazioni online operanti in un’impresa. In questa prospettiva, l’Italia sta recuperando terreno rispetto al conseguimento degli obiettivi europei: a nel 2017 un quinto dei comuni italiani aveva già un’ampia diffusione di una connessione in rete fissa ad almeno 30 Mbps.

Il ruolo del sistema-scuola

I processi di emigrazione di giovani con qualifiche terziarie rischiano di rendere insufficiente l’offerta attuale di personale qualificato, in una fase di crescita e ristrutturazione sostenuta dai processi di digitalizzazione. Rispetto alla necessità delle imprese di colmare il divario digitale, una risposta risiede nei nuovi Istituti tecnici superiori (ITS), creati nel 2010 con il fine di colmare il deficit del sistema nazionale d’istruzione nella formazione di quadri intermedi ad alta specializzazione. Purtroppo al momento i 2.000 diplomati che ogni anno concludono il ciclo di studi rischia di non essere sufficiente per far fronte alla domanda di competenze attesa già nei prossimi anni.

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Massimo Gallo
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