Marco Bentivogli, classe 1970, segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (Fim Cisl), è considerato uno dei leader più moderni di un sindacato che non ci sta a vestire i panni del Signor No a tutti i costi. Fermo quando si tratta di difendere i diritti dei lavoratori – e altrettanto determinato a combattere i “privilegi” – Bentivogli segue da tempo con competenza e passione il tema dell’evoluzione del lavoro (e del lavoratore) nell’era della quarta rivoluzione industriale.
Lo abbiamo intervistato per chiedergli un suo parere sui due grandi temi – formazione e welfare – su cui la legge di bilancio 2018 intende agire per migliorare competenze e prospettive dei lavoratori, ma anche sulla situazione del nostro Mezzogiorno.
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Formazione a catalogo? No grazie
Anche se non nella misura che ci si aspettava, il DDL di Bilancio introduce un incentivo per la formazione delle competenze sulle tecnologie 4.0. La norma – tra le altre cose – richiede che le attività siano “pattuite attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali” e prevede la possibilità di fare formazione ad ampio spettro, anche per esempio per marketing e vendite.
E proprio ieri Bentivogli è intervenuto per contestare gli emendamenti che vorrebbero scollegare il credito d’imposta per la formazione dagli accordi sindacali. A lui abbiamo chiesto se lo strumento del credito d’imposta sia adeguato a sostenere le necessità di aziende e lavoratori per affrontare le sfide della digital transformation e perché sia così importante che le spese siano, appunto, concordate con il sindacato.
“Il credito d’imposta previsto dalla legge di Bilancio rappresenta il secondo pilastro del Piano Calenda dopo gli incentivi concessi per gli investimenti sui macchinari”, dice Bentivogli. “La formazione è un driver fondamentale per affrontare la digital trasformation in atto, è il diritto al futuro, per questo l’introduzione di tali misure è positiva e va nella direzione che abbiamo tracciato con il Contratto dei metalmeccanici attraverso l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione”.
Ma c’è un rischio dietro l’angolo: “Ora bisogna evitare, come è accaduto fino ad oggi, di fare “formazione a catalogo”. Cioè di fare formazione basandosi sulle offerte presenti nei cataloghi delle agenzie formative e non sulle reali esigenze che nascono da una mappatura delle skills necessarie ai lavoratori e all’azienda per affrontare il cambiamento”, spiega Bentivogli. Che spiega quindi il ruolo degli accordi sindacali. “In questo la contrattazione decentrata, sia aziendale che territoriale, assume un ruolo rilevante. Specie in un tessuto industriale come il nostro, dove le PMI sono la maggioranza, la contrattazione territoriale sul tema della digital innovation è fondamentale per costruire una cultura della formazione. E’ solo così che è possibile costruire quell’ecosistema formativo di cui abbiamo bisogno, un ambiente cioè in grado di coinvolgere tutti gli attori: lavoratori, imprese, scuola, istituzioni. Certo, la sfida è complessa e riguarda anche, forse soprattutto, una cultura del lavoro in ritardo sui nostri tempi, troppo ripiegata sul passato”.
Respingere benaltrismo e tecnofobia
Un esempio? “Pensiamo all’inquadramento nel contratto dei metalmeccanici: il fatto che si resti fermi ad un accordo del 1973 significa che non c’è stata finora da parte delle imprese la volontà di adeguare la visione d’impresa, di mettere le mansioni e oggi i ruoli dei lavoratori, dunque l’organizzazione del lavoro, al passo con l’evoluzione tecnologica e il lavoro. Un altro esempio che rende bene l’idea dell’arretratezza di cui parlo è testimoniato poi dalle recenti polemiche sull’alternanza scuola – lavoro. Eppure è evidente che oggi un sistema educativo organizzato a compartimenti stagni è incompatibile con le dinamiche dell’economia e del lavoro. Al fondo vedo due grandi mali che inquinano la discussione pubblica su questi temi: il benaltrismo e la tecnofobia. E’ il fardello dell’Italia sempre scettica e che trova la sua zona comfort nel “non fare” di un passato di cui non riusciamo a liberarci”.
Welfare 4.0, sulla buona strada
Il Disegno di Legge di Bilancio prevede alcune misure in favore della ricollocazione dei lavoratori delle imprese in crisi. Tra queste un’ulteriore proroga della cassa integrazione da 24 a 36 mesi per aziende considerate di “rilevanza economica strategica” con oltre 100 dipendenti. A Bentivogli abbiamo chiesto se ritiene che sia un buon inizio per parlare di un vero “Welfare 4.0”.
“E’ chiaro che i cambiamenti che sta introducendo la quarta rivoluzione industriale necessitano di un approccio completamente diverso rispetto al passato. E’ fondamentale non lasciare sole e senza reddito le persone che restano senza lavoro. La cassa integrazione straordinaria resta in questo senso uno strumento importante, in particolare nelle fasi di crisi aziendali (anche se ci sono stati degli abusi in quella in deroga… vedi studi notarli e avvocati). E’ chiaro che laddove non ci sono più le condizioni bisogna lavorare affinché le persone possano essere ricollocate evitando di alimentare la cultura dello scarto“.
Ma di che cosa hanno bisgono realmente i lavoratori? “Nella mia esperienza personale le posso dire che in tutte le vertenze di cui mi sono occupato le persone non ci chiedono sussidi ma lavoro, quindi è assolutamente fondamentale lavorare – e anche in questo la formazione è fondamentale – ad una ricollocazione il più veloce possibile. Certo che la mancata riforma del Titolo V non aiuta. L’Anpal, l’agenzia sulle politiche attive introdotta dal Jobs Act, deve faticare non poco in questo contesto, mentre le Regioni hanno mantenuto le loro competenze concorrenti sulla formazione, perpetuando una condizione di frammentazione delle politiche che non fa bene al lavoro. Bisogna in questo senso trovare strumenti in grado di garantire anche chi lavora nelle aziende con meno di 100 dipendenti, che in caso di crisi sono quelle meno tutelate”.
Al Sud serve più fiducia in se stesso
Oltre al rifinanziamento del Bonus Sud per gli investimenti in beni strumentali, per il Mezzogiorno la manovra 2018 prevede incentivi rafforzati per le assunzioni di giovani (e meno giovani). Qui però a fronte di territori che mostrano importanti segni di ripresa (la Campania, per esempio), altri continuano a ristagnare. Il recente rapporto Svimez è piuttosto chiaro nel dire che – a fronte di diversi segnali positivi – permangono preoccupanti zone d’ombra, come il continuo esodo dei talenti. A Bentivogli abbiamo chiesto se il Sud ha ancora delle concrete possibilità di evitare una diagnosi da terreno inaridito, prossimo alla desertificazione.
“Il Sud rappresenta da sempre un territorio ricco di potenzialità. Affacciato sul bacino del Mediterraneo e quindi naturale hub per i traffici commerciali che ne hanno fatto nei secoli territorio di cultura e bellezza, il nostro Sud necessita di una rinnovata fiducia in se stesso. E’ ovvio che la storia pesa. I ritardi infrastrutturali accumulati negli anni trascorsi dall’unità d’Italia a oggi, sommati al cancro della criminalità organizzata, sono stati un freno pesantissimo, cui ora si somma lo spopolamento del territorio. Oggi grazie al digitale si possono colmare molti gap, ma non bisogna disperdere le energie; vanno bene allora gli incentivi alle assunzioni dei giovani purché restino strutturali e a questi segua una politica che punti non solo ad accaparrarsi gli sgravi, ma ad un reale sviluppo dell’industria nel territorio“.
Uno sviluppo che è in ripresa ma fatica a recuperare il terreno perduto. “Che da soli gli incentivi non bastano, lo dimostrano anche i dati raccolti dalla Svimez sugli investimenti in tecnologie 4.0, che vedono il Mezzogiorno nettamente staccato dal Centro-Nord. Questo a causa di una serie di problemi “strutturali”: bassi livelli di innovatività, più bassa diffusione delle tecnologie Ict e assimilabili e dimensioni aziendali comparativamente inferiori. Fatto sta che, sempre secondo i calcoli della Svimez, in valore assoluto le agevolazioni erogate alle imprese del Sud dovrebbero attestarsi intorno ai 650 milioni di euro – da ripartire nel periodo 2018-2027 – contro i circa 8,6 miliardi del Centro-Nord. Il caso della Tap in Puglia, a cui si somma l’Ilva di Taranto, solo per citare due esempi di cronaca, ci dice come spesso la politica invece di favorire lo sviluppo, di conciliare lavoro, territorio e ambiente, lavori per frenarlo”.
Se la politica frena, il sindacato che cosa ha fatto? “Abbiamo dato un importante contributo affinché l’industria dell’auto restasse nel sud del paese: da Cassino, scendendo a Pomigliano e Melfi, si producono auto che vengono vendute in tutto il mondo, in stabilimenti che erano a rischio di chiusura o, come Pomigliano, di fatto già chiusi. In Campania abbiamo sottoscritto un importante accordo con Whirlpool che ha permesso il reshoring della produzione di elettrodomestici dall’est Europa, ma non basta. Penso che il Sud abbia tutte le caratteristiche e le potenzialità per uscire dal torpore in cui si trova. Però oltre agli incentivi serve un riscatto forte della gente del sud che veda in figure come Angelo Vassallo, don Pino Puglisi, Don Peppe Diana o come le ragazze e i ragazzi del Rione Sanità a Napoli e quelli della Nuova Cooperazione Organizzata o del Gruppo Cooperativo di Goel, l’humus su cui poter coltivare la rinascita. Si evoca spesso l’assenza dello Stato quando in zone come queste gli esempi di riscatto e cittadinanza attiva sono illuminanti per tutto il paese”.