La “politica dei fattori e non dei settori” era il mantra di Confindustria della prima metà del mandato di Vincenzo Boccia. Una visione nata nell’ormai lontano 2016 che ben si sposò con le idee del Ministero dello Sviluppo Economico guidato da Carlo Calenda: un matrimonio da cui nacque il piano Industria 4.0, un sistema di incentivi automatici per incentivare l’adozione di tecnologie abilitanti, chiave per la digital transformation delle imprese nell’industria manifatturiera (e non solo). Alle Assise di Verona, nel febbraio 2018, lo stesso Boccia annunciò il passaggio “dalla politica dei fattori alla politica dei fini”: un cambiamento di paradigma che metteva in primo piano le finalità dell’azione politica, per poi scegliere gli strumenti adeguati al loro perseguimento. Mai però avrebbe immaginato che tornasse di moda invece proprio quella “politica dei settori” da lui tanto avversata.
Da qualche giorno infatti sul principale quotidiano economico italiano, Il Sole 24 Ore, di proprietà tra l’altro proprio di Confindustria, vengono proposti dei contributi da parte degli esperti sulla strategia che l’Italia dovrebbe seguire per non disperdere le risorse del Recovery Fund. Dibattito interessante nello scopo, che però lascia perplessi nel merito.
In sintesi, questi contributi dicono che per l’Italia è il momento delle scelte e che, per non perdere l’opportunità offerta dalle risorse del Recovery, il Belpaese deve imboccare la via della specializzazione, focalizzandosi sui settori nei quali ha maggiori chance e abbandonando gli altri. Ma sentiamolo dalla “voce” di due dei professori intervenuti questo fine settimana.
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Onida e Bertoldi, gli alfieri della specializzazione
Sabato 26 settembre Fabrizio Onida, professore della Bocconi, nel suo pezzo intitolato “Fondi Ue per politiche industriali selettive” scrive che “va superata la logica dei fondi distribuiti a pioggia per accontentare tutti, in nome di una cosiddetta neutralità del governo rispetto alle “libere scelte del mercato”. Una voce autorevole come l’ex-commissario per l’Agenda Digitale Diego Piacentini, intervistato da Federico Fubini sul Corriere Economia del 21 settembre, invita ad usare i fondi UE per sostenere i settori di industria e servizi già forti che possono crescere, non solo sopravvivere”.
Il giorno dopo, domenica 27 settembre, Bernardo Bertoldi, docente di Family Business Strategy dell’Università di Torino, scrive un pezzo intitolato “Quattro punti di forza per tornare competitivi”. Il primo punto, proprio come nel contributo di Onida, è molto diretto: “la dotazione dei fattori deve essere specializzata per fornire pochi settori chiave”. Ma quali saranno? Lo spiega poco dopo dicendo che “i settori industriali su cui decideremo di specializzarci avranno bisogno di una presenza locale di sistemi industriali e di servizi di supporto. Questi ultimi cambiano velocemente a seconda dei trend tecnologici e di consumo, bisognerà quindi essere pronti a vederne sparire alcuni e nascere altri avendo come unico criterio il loro contributo ai settori chiave in cui abbiamo deciso di eccellere. Dovremo essere meno nostalgici e non perdere giorni a piangere sull’aver perso, ad esempio, la chimica di base ma chiederci cosa altro serve”.
Più che una scelta un azzardo
Ora, è giusto scegliere dei settori su cui puntare? Prima di scendere nel merito, proviamo a farci una domanda molto semplice: che cosa sarebbe successo se, qualche decennio fa, avessimo dato retta a quelli che dicevano che l’Italia doveva puntare sui servizi e sul turismo, facendo a meno della manifattura? I servizi sarebbero stati in grado di sostenere l’occupazione di circa 6 milioni di lavoratori? La domanda è ovviamente retorica.
E oggi siamo sicuri che scegliere tra i settori industriali da sostenere non sia concettualmente la stessa cosa? Tutti siamo d’accordo che bisogna puntare su aerospaziale, biomedicale e meccanica. Ma siamo sicuri, seguendo l’esempio di Bertoldi, che sia una buona idea dire addio alla “chimica di base”, che è invece fondamentale, per esempio, per non restare indietro sui nuovi materiali? E che, per esempio, sia una buona idea abbandonare l’industria della carta, sulla quale l’Italia non è certo tra i leader mondiali, ma dove ha le sue eccellenze (si pensi a Fabriano e al distretto di Lucca)? Con quale diritto decideremmo che, per esempio, il Tessile non è una priorità, quando le fibre di nuova generazione potrebbero diventare i dispositivi elettronici indossabili di domani? Più che una scelta, puntare oggi solo su alcuni settori sarebbe un vero e proprio azzardo.
Manuelli: “Si punti su competenze e open innovation”
Evidentemente la questione è mal posta. Ne è convinto, per esempio, Luca Manuelli, presidente del Cluster Fabbrica Intelligente, nato nel 2012 proprio per aiutare il Governo a capire come seguire la strada della specializzazione intelligente.
“A mio avviso – dice Manuelli – la questione non può essere posta in termini di bianco e nero: la manifattura è un patrimonio del Paese che va riletto in chiave digitale e sostenibile, puntando su un grande investimento in competenze e open innovation per riportare in Italia una capacità di sviluppare tecnologie e non dipendere da altri. Penso all’energia, alla meccanica, alle biotecnologie e allo spazio, ma anche all’agricoltura 4.0. Il compito dello Stato deve essere aiutare le imprese a fare sistema e scegliere le priorità strategiche, non i settori o le aziende strategiche”.
Taisch: “Mettere le imprese in condizione di essere veloci e resilienti”
La pensa così anche Marco Taisch, professore del Politecnico di Milano, uno dei padri di Industria 4.0 in Italia, nonché presidente del Made, il Competence Center capitanato dall’ateneo milanese.
“In questo delicato momento storico il compito della politica è garantire alle imprese i fattori che consentano loro di acquisire velocità e resilienza. Per questo occorre lavorare sia a politiche di breve periodo che a politiche di medio-lungo termine”, racconta ai nostri microfoni. E vediamo come.
“Per aiutare le imprese ad affrontare le sfide della ripartenza bisogna lavorare sulla diffusione delle tecnologie digitali ormai mature, l’automazione e l’IT, e sulle best practice esistenti. Questo è fondamentale per rendere le imprese più competitive e in grado di rispondere alle mutevoli esigenze della domanda dopo la crisi legata alla pandemia. Se le imprese non saranno preparate, ci saranno altri competitor internazionali pronti a soddisfare quelle esigenze. Questo obiettivo di breve termine si raggiunge continuando a offrire alle imprese gli strumenti attuali, gli inventivi per l’acquisto di beni strumentali e i crediti d’imposta per la ricerca e l’innovazione, magari potenziati“, spiega il professore.
Per essere pronti ad affrontare invece le sfide di medio lungo periodo, invece, “bisogna puntare sulle competenze di base che serviranno e sulle tecnologie che oggi non sono ancora mature, ma che domani saranno determinanti. Penso all’intelligenza artificiale, alla blockchain, all’high performance computing, alla cyber security. E queste – mi preme precisarlo – sono tutti abilitatori trasversali rispetto ai settori. All’Italia infatti, a mio avviso, non serve una scelta tra i settori, ma un potenziamento degli strumenti che permettono alle imprese che operano in tutti i settori di essere più competitive. Scegliere di puntare solo su alcuni settori rischia solo di aumentare la dipendenza da Supply Chain che – come dimostra la recente crisi – sono tutt’altro che resilienti”.
L’importanza del trasferimento tecnologico
E sempre parlando di settori da rafforzare, Taisch lancia un’idea: “Bisogna potenziare il sistema di trasferimento tecnologico, cioè quella rete di soggetti che non fanno ricerca, ma la trasferiscono, grazie al know how dei soggetti che ne fanno parte, al mondo industriale. E’ il caso dei Competence Center, che però non sono pensati per creare delle verticalizzazioni verso un settore. Di qui mi chiedo: perché non facciamo delle strutture che si occupino di trasferimento tecnologico specifico per i settori che ne hanno più bisogno? La Lombardia, per esempio, avrebbe bisogno di un soggetto in grado di declinare l’innovazione al servizio dell’Agricoltura 4.0, per fare un esempio”.
Proprio sul tema del trasferimento tecnologico Taisch torna sul tema del bando per gli European Digital Innovation Hubs, appena conclusosi con la raccolta di oltre 60 candidature tra le quali ne saranno scelte una ventina. “Non so quante di queste aggregazioni siano realmente pronte per rispondere ai requisiti posti da Bruxelles – commenta Taisch -, ma averle raccolte è un fatto importante che va al di là del tema dei DIH europei. Proprio da qui infatti potrebbero nascere in futuro delle nuove realtà che si aggiungano ai Competence Center, magari pensate proprio per rispondere all’esigenza di territori o settori specifici”.