Nel 2023 in Italia si sono investiti oltre 127 miliardi di euro per favorire la decarbonizzazione, cioè un quarto di tutti gli investimenti realizzati nel Paese: è quanto si evidenzia dall’edizione 2024 dello Zero Carbon Policy Agenda, redatto dall’E&S della School of Management del Politecnico di Milano.
Nonostante questi numeri importanti e il trend in crescita rispetto alle precedenti rilevazioni, gli obiettivi al 2030 restano lontani: dal 2005 la riduzione è stata di circa 12 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti l’anno (-36% in 20 anni) ma per raggiungere i target europei questo valore va raddoppiato, passando a 21 Mt CO2 eq/anno.
Quanto agli interventi privati, l’ESG e la finanza sostenibile stanno trasformando il mondo degli investimenti, ma c’è molta differenza tra le aziende quotate, sempre più attente alle tematiche green, e quelle che non lo sono, dove l’impegno diminuisce con il calare della dimensione aziendale.
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Settori chiave e investimenti: sfide e opportunità della decarbonizzazione in Italia
Per accelerare il percorso, sottolinea il rapporto, maggiori sforzi devono inoltre essere rivolti a quei settori sono rimasti più indietro – e che sono anche quelli maggiormente responsabili delle emissioni –, come trasporti (28%), produzione di energia e calore (20%), consumi residenziali e commerciali (16%).
Perché se è vero che il trend a lungo termine è positivo – con una riduzione delle emissioni proporzionalmente maggiore rispetto all’Europa grazie al calo dei consumi energetici –, a una maggiore efficienza e alla crescita delle rinnovabili, il nostro PIL dal 2005 al 2023 è cresciuto solo del 18%, contro l’85% della media UE.
Anche guardando ai fondi investiti nella decarbonizzazione si nota una differenza tra Italia e il resto dell’UE. Se si guarda ai fondi del PNRR, ad esempio, l’Italia ha ottenuto oltre 194 miliardi di euro, più di ogni altro Stato europeo, ma ha destinato alle misure climatiche poco più del minimo previsto dall’Europa (41%, contro il 50% della Francia, che ha avuto un quinto dei nostri fondi, e il 47% della Germania) e gli interventi stanno andando a rilento, con solo il 36% realizzato nel terzo trimestre 2024 contro il 64% previsto.
Lo stesso dicasi per i fondi REPowerEU che hanno assegnato all’Italia la cifra più alta, ma solamente il 68% è servito per obiettivi climatici, contro una media europea dell’85%.
“Va sicuramente meglio il quadro delle riforme, ormai completo, ma sarà necessario attendere perché possa produrre effetti concreti”, commenta Vittorio Chiesa, direttore di E&S.
“Noi siamo convinti che il cambio di passo sia ancora possibile, soprattutto se si considera il grande potenziale inespresso, da parte sia del pubblico che del privato”, aggiunge.
L’impatto dell’ESG e della finanza sostenibile sugli investimenti privati in Italia
Venendo poi alle azioni messe in campo dai privati, è indubbio che l’ESG e la finanza sostenibile stiano trasformando il mondo degli investimenti, integrando criteri ambientali, sociali e di governance nelle decisioni finanziarie per promuovere uno sviluppo economico responsabile e duraturo.
“Gli indicatori ESG hanno spinto le imprese a decarbonizzare – spiega Davide Chiaroni, vicedirettore di E&S e curatore dello studio – nonostante la valutazione delle performance sia frammentata e manchi di una standardizzazione universale, creando una notevole eterogeneità tra i diversi provider. Tuttavia, vi è una grande differenza tra le aziende quotate, molto esposte al giudizio del mercato in termini ambientali, e quelle che non lo sono: più si scende lungo le filiere e cala la dimensione aziendale, più l’attenzione verso le tematiche green si abbassa”.
Infatti, in base all’indicatore che E&S ha chiamato Emission Intensity, e che mette in relazione le emissioni di CO2 e il business delle aziende, le prime 40 imprese italiane per capitalizzazione di Borsa (tutte dotate di almeno un rating ESG) sono scese dagli 0,62 kton CO2/mln di euro di valore aggiunto del 2018 agli 0,39 del 2022 (ultimi dati disponibili).
Se però si allarga lo sguardo alle principali imprese italiane per fatturato, ma non quotate in Borsa, la fotografia cambia radicalmente: il 70% non adotta nemmeno una valutazione ESG, indistintamente dal settore di riferimento, e la riduzione dell’Emission Intensity (limitato alle sole aziende che riportano i dati emissivi) è decisamente meno marcata, con 0,77 kton CO2/mln di euro di valore aggiunto contro 0,39 delle quotate. Anche il CAGR si ferma a -8% nel periodo considerato, contro -12%.
Occorrerebbe invece sviluppare il potenziale delle imprese di taglia minore in materia di decarbonizzazione, favorito dall’evoluzione di un quadro regolatorio europeo ad hoc. Purtroppo in Italia permangono diverse criticità.
Ad esempio, già oggi sono 4.150 le aziende coinvolte dai nuovi obblighi imposti dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), che comporterà sforzi in termini organizzativi e costi significativi per la sua implementazione.
Sfide future e incertezze normative per le aziende italiane nella decarbonizzazione
Dal 2027, poi, circa 740 grandi aziende nazionali – per la maggior parte manifatturiere o di servizi finanziari e assicurativi, con sede al Nord – dovranno integrare le pratiche di due diligence di sostenibilità nella loro operatività: la loro responsabilità non si limiterà alle sole attività dirette, ma si estenderà a quelle delle filiazioni e dei partner commerciali lungo l’intera catena del valore. Un cambio normativo decisamente gravoso che preoccupa molto il tessuto imprenditoriale.
“Durante l’ultima legislatura dell’Europarlamento l’Italia non si è distinta per l’appoggio alle principali proposte per la decarbonizzazione, come i Paesi più virtuosi – aggiunge Chiaroni -. Anzi, si è meritata la coda della classifica, alla pari con la Repubblica Ceca e meglio solo dell’Ungheria e della Polonia, lo Stato meno green in assoluto.
“Inoltre il nuovo assetto del Parlamento UE non vede più la presenza della maggioranza che aveva garantito l’entrata in vigore dei principali provvedimenti negli ultimi cinque anni, mettendo un’ipoteca sul futuro: la situazione di attesa che si è creata potrebbe portare a un ulteriore stallo nel processo di decarbonizzazione, con il rischio di bloccare gli investimenti”, conclude Chiaroni.