Dopo tre mesi di ripresa, tra febbraio e aprile, la produzione industriale ha fatto registrare un nuovo stop. I dati Istat relativi al mese di maggio 2022 vedono infatti una diminuzione dell’indice dell’1,1% rispetto ad aprile 2022, a quota 106,7 – lo stesso livello di novembre 2021. Si tratta di un dato che in tempi normali sarebbe considerata una normale oscillazione congiunturale e non desterebbe preoccupazione, ma che in tempi caratterizzati da grande incertezza e da una crescita del PIL che pare aver perso slancio può essere un segnale anticipatore di una possibile stagflazione.
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Che cos’è la stagflazione
Forse vale la pena ricordare che cos’è la stagflazione: mentre normalmente l’inflazione (cioè l’aumento dell’indice dei prezzi) accompagna cicli di crescita economica, la stagflazione è una situazione anomala che si verifica quando i prezzi crescono (e quindi l’inflazione aumenta), ma il Paese non cresce ed entra in stagnazione (di qui stagflazione: stagnazione e inflazione allo stesso tempo).
Il PIL italiano è cresciuto significativamente nel 2021 (+6,6%), come rimbalzo rispetto all’annus horribilis della pandemia, il 2020, e sotto la prima spinta dei 222 miliardi del PNRR. Ma per il 2022 le più recenti stime contenute nel Documento di Economia e Finanza (DEF) di aprile prevedevano una forte riduzione della crescita attesa: +2,9% invece del +4,7% ipotizzato a settembre 2021. Il Governo ha comunque previsto di migliorare questo dato (dal 2,9% al 3,1%) grazie ad alcuni interventi straordinari.
Quanto all’inflazione, l’indice nazionale dei prezzi al consumo (NIC) a giugno ha registrato un aumento dell’8% su base annua: valori che non si registravano dal 1986. Ma se nei periodi di crescita l’aumento dei prezzi è determinato dalla domanda, la situazione di questo 2022 è profondamente diversa.
Lo scenario
Più ancora delle cifre ufficiali dell’Istat preoccupano infatti proprio le dinamiche relative allo scenario, con l’azione contemporanea di una crisi pandemica in piena recrudescenza, una crisi geopolitica senza precedenti negli ultimi trent’anni, carenza di materie prime, rialzo dei prezzi dell’energia.
Un mix potenzialmente esplosivo che potrebbe avviare un circolo vizioso in cui l’inflazione generata dall’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime si trasmette a catena sui prezzi al consumo (lo stiamo già vedendo), deprimendo in tal modo la domanda.
L’effetto combinato di questi fattori potrebbe quindi portare a un ulteriore rallentamento della crescita fino al suo azzeramento, nonostante le politiche fiscali espansive messe in atto dal Governo.
La spinta del PNRR
Attualmente – vale la pena sottolinearlo – la spinta degli investimenti e degli incentivi finanziati dal PNRR sta giocando un ruolo cruciale a sostegno della domanda. Basti pensare all’effetto del superbonus al 110% sull’edilizia e a quella del piano Transizione 4.0 sugli investimenti in macchinari. Si tratta di interventi che allo Stato costano relativamente poco: ricordiamo che il PNRR prevede una parte di risorse a fondo perduto e una parte di finanziamenti a tassi molto bassi. Ma proprio per questo si tratta di un pacchetto straordinario e non ripetibile.
Si aggiunga che questa “spinta” potrebbe non essere più sufficiente laddove la spirale inflazionistica erodesse sostanzialmente il potere di acquisto dei consumatori, il cui valore è determinato in gran parte dal salario reale (cioè il rapporto tra il salario nominale e il livello dei prezzi). In parole semplici, se gli stipendi non aumentano di pari passo con l’inflazione, come accade normalmente in periodi di crescita economica, i consumatori si troveranno a poter acquistare meno beni con il proprio stipendio.
Le prospettive per i consumatori
Se i consumatori possono reagire alla riduzione del potere di acquisto contraendo la spesa (e quindi involontariamente contribuendo alla riduzione del PIL), più difficile sarà difendersi dall’attacco portato dall’inflazione ai loro risparmi.
Fino al 2021 la scelta di risparmio preferita è stato il deposito bancario: secondo un report della Federazione Autonoma Bancari Italiani oltre 1.600 miliardi (equivalenti a oltre il 90% del PIL) dormono tra conti correnti e contanti, con una crescita del 10% nel biennio pandemico.
Questa strategia, che poteva funzionare in un periodo caratterizzato da rendimenti nulli, ma anche da un’inflazione ridottissima, non funziona più oggi: in presenza di una spinta inflazionistica che non trovi immediato riscontro nell’aumento dei tassi di interesse bancari, oltre agli stipendi anche il patrimonio degli Italiani è destinato a impoverirsi.
Il sostegno della domanda e il taglio del cuneo
Ecco perché è di grande importanza il dibattito che si è acceso in queste settimane sul cuneo fiscale. Il cuneo fiscale descrive la differenza tra il costo del lavoro per l’azienda e lo stipendio che effettivamente entra in tasca ai lavoratori. Questa differenza, per semplificare, è determinate da tasse e contributi sul lavoro. Si può tagliare il cuneo agendo sia sulla parte a carico dei datori di lavoro sia su quella a carico del lavoratore.
Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha recentemente chiesto un maxi taglio del cuneo per gli stipendi fino a 35.000 euro lordi i cui vantaggi vadano per due terzi ai lavoratori e per un terzo alle imprese.
Questo sarebbe un modo per aumentare la disponibilità di denaro dei lavoratori senza aumentare i costi per le imprese e quindi senza peggiorare la spirale inflazionistica. Naturalmente l’operazione ha un costo per le casse dello stato – valutato in circa 16 miliardi che, secondo Bonomi, potrebbero arrivare dall’extragettito in arrivo nelle casse dell’Erario.
Il Governo al momento ha deciso di rimandare alla prossima legge di bilancio l’intervento sul cuneo fiscale e – nonostante le pressioni degli industriali – non sembra orientato a un intervento di questa portata.