“Impresa, lavoro e democrazia: la strada della Costituzione” è stato il tema centrale dell’Assemblea di Confindustria 2023, presieduta per l’ultima volta da Carlo Bonomi, il cui mandato scade nel 2024. Un incontro su temi alti, che hanno spaziato dalla politica internazionale alla Costituzione italiana e che, volutamente, non ha toccato nessuno degli elementi di attualità, eccezion fatta per il salario minimo, su cui Bonomi si è espresso a chiare lettere, dicendo che salario minimo legale non è sinonimo si salario giusto, che è invece quello che emerge dalla contrattazione collettiva.
Tra le istituzioni presenti in sala a Roma anche l’applauditissimo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è intervenuto dopo Bonomi.
Indice degli argomenti
Imprese e democrazia
Nel suo discorso, Bonomi ha sottolineato il contributo fondamentale delle imprese al rafforzamento della democrazia e, di converso, il ruolo “abilitante” della democrazia per l’economia.
Democrazia e impresa sono concetti più vicini di quanto si pensi, ha detto il presidente di Confindustria. Il concetto chiave espresso da Bonomi, e poi richiamato anche da Mattarella, è che “senza democrazia non ci sono né mercato, né impresa, né lavoro, né progresso economico e sociale”.
Un messaggio che trova concorde il Presidente Mattarella, che ha ricordato che “In alcune situazioni europee, com’è noto, la crisi dell’economia concorse alla crisi della democrazia ed ecco perché, al contrario, una economia in salute contribuisce al bene del sistema democratico e della libertà, alla coesione della nostra comunità”.
In Italia
In Italia il ruolo dell’impresa nella società è sancito nella Costituzione nello stesso titolo in cui si parla anche di lavoro (il Titolo III dedicato ai rapporti economici).
Per questo secondo Bonomi è necessario sviluppare politiche industriali e per il lavoro che mettano le imprese nelle condizioni di operare al meglio.
Senza scendere nel dettaglio, Bonomi si è espresso sul tema delle riforme istituzionali, sottolineando l’importanza di unire governabilità e rappresentanza.
L’Europa
Le industrie devono essere considerate “fabbriche di coesione sociale, libertà e diritti”.
La doppia transizione digitale e green richiede uno sforzo “impari”. Bonomi ha sottolineato come l’Italia e l’Unione Europea da sole non possano far fronte a queste sfide.
Strumenti agili e politiche attive per il lavoro sono necessari per governare le transizioni e gestire l’inverno demografico, ma il welfare state deve essere sostenibile.
La situazione a livello globale: l’importanza di uno sforzo condiviso
Nel mondo – ha ricordato il presidente di Confindustria citando i dati dell’indagine annuale del The Economist – “la democrazia sta regredendo: su 167 Paesi, solo 24 sono democrazie piene e 48 democrazie imperfette”.
Urge quindi uno sforzo collettivo a tutela dell’economia e della democrazia: dopo la crisi del Covid, il mondo sembrav avviato alla crescita, ma poi l’invasione russa, la crisi energetica, la scarsità di chip e l’emergenza alimentare in Africa hanno creato nuovi ostacoli.
A livello globale, bisogna evitare la polarizzazione sociale e dei redditi ed è necessario un impegno collettivo per sostenere, oltre all’Ucraina, anche il Maghreb e il Centro Africa.
Restando in ambito internazionale, Confindustria ha chiesto il coordinamento dei lavori del gruppo di imprese G7.
Bonomi ha poi sollevato la questione della Minimum Global Tax, sottolineando che l’UE e gli USA non possono lavorare senza un approccio condiviso.
L’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Qui di seguito vi lasciamo all’interessante lettura del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Se c’è qualcosa che una democrazia non può permettersi è di ispirare i propri comportamenti, quelli delle autorità, quelli dei cittadini, a sentimenti puramente congiunturali. Con il prevalere di inerzia ovvero di impulsi di ansia, di paura.
Con due possibili errori: una reazione fatta di ripetizione ossessiva di argomenti secondo i quali, a fronte delle sfide che quotidianamente la vita ci propone, basta denunziarle senza adeguata e coraggiosa ricerca di soluzioni. Quasi che i problemi possano risolversi da sé, senza l’impegno necessario ad affrontarli.
Oppure – ancor peggio – cedere alle paure, quando non alla tentazione cinica di cavalcarle, incentivando – anche contro i fatti – l’esasperazione delle percezioni suscitate.
Sono questioni ben presenti alle persone raccolte qui questa mattina che, giorno dopo giorno, sono chiamate ad assumere decisioni, ad agire con razionalità e concretezza, a guardare e progettare il futuro delle imprese che si trovano a guidare. In una espressione: a evitare fatui irenismi e credere, invece, nella forza delle istituzioni, nella solidità delle proprie imprese, nel valore dell’iniziativa e dell’innovazione nel mondo che cambia velocemente.
È il senso del messaggio che Luigi Einaudi – primo presidente della Repubblica eletto dal Parlamento – consegnava il 31 marzo del 1947, nelle Considerazioni finali da Governatore della Banca d’Italia, a poche settimane dall’assumere le funzioni di vice presidente del Consiglio e ministro del Bilancio del Governo De Gasperi.
A proposito della situazione economica, scriveva: «È necessario che gli italiani non credano di dover la salvezza a nessun altro fuorché se stessi».
Oggi diremmo: a noi stessi e agli altri popoli coi quali abbiamo deciso di raccoglierci nell’Unione Europea.
Ringrazio Confindustria di questa occasione di riflessione, e rivolgo un saluto cordiale a tutti voi qui riuniti.
Nel discorso con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza degli Stati Uniti – giusto novant’anni fa – utilizzò una locuzione divenuta, giustamente, famosa, che calza a proposito: «la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, l’irragionevole ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in progresso». Si era nell’ambito della Grande depressione economica del 1929 e si fu capaci di passare al New Deal, al «nuovo patto» che vide gli Stati Uniti affrontare i drammatici problemi economici e occupazionali che li avevano devastati, assumendo la leadership del mondo libero.
Oggi siamo in una condizione, fortunatamente, ben diversa, che ci conduce, comunque, a richiamare il legame, per quanto possa a molti apparire scontato, tra economia e democrazia.
La crisi del capitalismo, in quegli anni, mise in discussione anche gli ordini politici esistenti, registrando un diffuso malcontento verso la democrazia, ritenuta noiosa e inefficace rispetto ai totalitarismi che si erano affacciati e che si stavano consolidando.
Gli argomenti non erano nuovi, qualche studioso li indicava nella ricerca di un sentimento di unità perduto, che fosse incentrato sulla autenticità culturale, sulla originalità delle proposte di comunismo e fascismo, sulla creazione di «uno spazio affrancato dalle pressioni della mercificazione e dalle grigie logiche dei mercati». Così sottolinea lo storico americano Harry Harootunian.
Le idee dovevano essere davvero confuse se una casa automobilistica americana, la Studebaker, sia pure con intenti diversi, denominava un suo prodotto di punta «Dictator», dittatore. L’ascesa di Hitler in Germania avrebbe dato poi un decisivo colpo alla produzione di quel modello.
In alcune situazioni europee, com’è noto, la crisi dell’economia concorse alla crisi della democrazia ed ecco perché, al contrario, una economia in salute contribuisce al bene del sistema democratico e della libertà, alla coesione della nostra comunità.
Il presidente Bonomi ha fatto riferimento a un panorama di democrazie in regresso a livello mondiale, affermando, opportunamente, che «senza democrazia non possono esserci né mercato, né impresa, né lavoro, né progresso economico e sociale».
È rilevante raccogliere questi stimoli in un ambito così qualificato. È di grande valore che il mondo dell’industria italiana, così centrale nella vita del Paese e prezioso nell’ambito dell’Unione Europea, sappia di contribuire, con il suo impegno e il suo lavoro, al rafforzamento della Repubblica e delle sue istituzioni, secondo l’importante enunciato che «la Costituzione esprime anche l’anima delle imprese italiane».
Nel dibattito pubblico del dopoguerra italiano si è, spesso, lamentato che la Costituzione non poteva fermarsi ai cancelli delle fabbriche, segnalando, con questo, una sofferenza del sindacato dei lavoratori per molti temi che hanno trovato poi riscontro nella contrattazione tra le parti sociali.
La definizione prospettata poc’anzi secondo cui «L’impresa è lo spazio democratico in cui i valori del bene comune e della responsabilità sociale devono manifestarsi nella loro concretezza, così come è accaduto nei mesi durissimi della pandemia», unitamente all’intento di proporre un mercato del lavoro «inclusivo», specialmente per i giovani e le donne – che renda quindi effettivo il diritto al lavoro – induce alla consapevolezza che i luoghi di vita, le persone, i cittadini che li animano, sono parte, irrinunciabile, del progetto di coesione sociale, libertà, diritti e democrazia della Repubblica.
La democrazia si incarna nei mille luoghi di lavoro e studio.
Nel lavoro e nella riflessione dei corpi sociali intermedi della Repubblica. Nel riconoscimento dei diritti sociali.
Nella libertà d’intraprendere dei cittadini.
Prima di ogni altro fattore, a muovere il progresso è, infatti, il «capitale sociale» di cui un Paese dispone. Un capitale che non possiamo impoverire.
È una responsabilità che interpella anche il mondo delle imprese: troppi giovani cercano lavoro all’estero, per la povertà delle offerte retributive disponibili.
Permettetemi di ricordare, per un momento, un gran lombardo, un patriota, fautore delle autonomie e portatore di una visione lungimirante, Carlo Cattaneo.
Già nel 1864 ammoniva: «Prima di ogni lavoro, prima di ogni capitale, quando le cose sono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera e imprime in esse, per la prima volta il carattere della ricchezza».
Le aziende sono al centro di un sistema di valori, non solo economici. Siete voi, a ricordare – anche a me – che l’impresa ha responsabilità che superano i confini delle sue donne e dei suoi uomini; e, aggiungo, dei suoi mercati. Le imprese sono veicoli di crescita, innovazione, formazione, cultura, integrazione, moltiplicazione di influenza, fattore di soft- power. E sono, anche, agenti di libertà.
Generare ricchezza è una rilevante funzione sociale. È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive. Non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco.
Il principio non è quella della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione. Il modello lo conosciamo: è quello che ha fatto crescere l’Italia e l’Europa. Il bilancio che ne va tratto non interpella i singoli stake-holder aziendali ma si rapporta all’intero sistema economico e sociale. È quel concetto ampio di «economia civile» che trova nella lezione dell’illuminismo settecentesco napoletano e, puntualmente, in Antonio Genovesi, un solido riferimento.
Qual è un principio fondamentale della democrazia? Evitare la concentrazione del potere, a garanzia della libertà di tutti. Vale per le istituzioni. Vale per le imprese, a proposito delle quali possiamo parlare di concorrenza all’interno di un mercato libero. E la lotta ai monopoli ne rappresenta capitolo importante. L’impresa è una formazione intermedia nella nostra società, un corpo sociale di quelli richiamati dalla Costituzione che contribuiscono alle finalità da questa definite, concorrendo al soddisfacimento di bisogni. Lo Stato coordina gli interessi e le necessità di ciascuno degli interlocutori, orientandoli al soddisfacimento delle istanze delle comunità.
Ho poc’anzi richiamato il tema del rapporto sostanziale tra economia e istituzioni. L’impresa, non a caso – è stato ricordato – è normata nella Parte I della Costituzione: quella sui Diritti e i doveri dei cittadini. L’art. 41 scandisce che l’iniziativa economica privata è libera. Che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Cosa significa libera? Significa che non occorrono più «regie patenti», come ai tempi medievali, per esercitare una professione, un’attività, un’impresa. Significa che la Repubblica ha spostato dal Sovrano al cittadino il potere di scegliere, di decidere. significa evadere dal dirigismo economico e dal protezionismo tipico delle esperienze autoritarie. Significa trasferire sul terreno dell’economia il principio di libertà. La Costituzione opta decisamente per un’economia di mercato in cui la libertà politica è il quadro entro cui si inserisce la libertà 7 economica, le attività con le quali le imprese partecipano, come si è detto, a raggiungere le finalità delineate nella Prima parte della Carta.
Ma attenzione: in quali condizioni si attua il precetto costituzionale? Quando i poteri pubblici assicurano qualità nei servizi; efficacia, efficienza e chiarezza del sistema normativo; quando viene garantita sicurezza contro le forme assunte dalla criminalità; quando l’efficacia sanzionatoria verso comportamenti scorretti è equa e incisiva. Sono temi che conoscete bene e che richiedono ancora impegno per il loro pieno perseguimento. Si è discusso a lungo sull’esistenza di una «Costituzione economica» separabile dal resto della nostra Costituzione. Sarebbe davvero singolare immaginare percorsi separati per lo sviluppo dei rapporti economici, quelli politici, quelli sociali.
Al centro della Costituzione vi sono, infatti, i diritti della persona umana non quelli del presunto «homo oeconomicus». Ecco, quindi, il riferimento all’utilità sociale. Era l’Abate Galiani a dirci – anche lui nel ‘700 – che «la tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice». Il crescere delle disuguaglianze rischia di rendere attuale questo scenario. Le imprese non sono estranee all’art.3 della Carta che ricorda come sia «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L’Italia progredisce e si sviluppa con il dialogo tra le parti sociali. Vanno tenuti ben presenti – sempre e da tutti, in ogni ambito – i doveri descritti all’articolo 2, dove si esige «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
L’economia di mercato, cioè, non pone in discussione valori costituzionalmente rilevanti, quali il rispetto della dignità umana e il dovere di solidarietà. O l’art. 35, relativo alla tutela del lavoro, il 36, sulle condizioni di lavoro, o il 37 sulla donna lavoratrice. È anzitutto il tema della sicurezza sul lavoro che interpella, prima di ogni altra cosa, la coscienza di ciascuno. Democrazia è rispetto delle regole, a partire da quelle sul lavoro.
Indipendentemente dall’ovvio rispetto delle norme, sarebbero incomprensibili imprese che – contro il loro interesse – non si curassero, nel processo produttivo, della salute dei propri dipendenti. Incomprensibili se non si curassero di eventuali danni provocati all’ambiente, in cui vivono e vivranno. Incomprensibili – e di breve durata – se non sapessero guardare al futuro. Fuor di logica se pensassero di non dover rispondere ad alcuna autorità o all’opinione pubblica, in merito a eventuali conseguenze di proprie azioni.
Con eguale determinazione vanno rifiutate spinte di ingiustificate egemonie delle istituzioni nella gestione delle regole o, all’opposto, di pseudo-assolutismo imprenditoriale, magari veicolato dai nuovi giganti degli «Over the top» che si pretendono, spesso, «legibus soluti». Democrazia e mercato – scrive, nel suo ultimo libro, Martin Wolf – hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione.
Non c’è bisogno di particolare acume per osservare che gli imprenditori sono attori sociali essenziali nella nostra società. Basta pensare anche soltanto alla crisi della pandemia che abbiamo attraversato quando, insieme ad altre categorie, avete evitato che l’Italia si fermasse. Ne dà testimonianza il filmato che abbiamo visto, dimostrando che non siete, non siamo, un Paese senza memoria.
Ho ringraziato più volte quanti negli ospedali, nei servizi, nelle aziende, nelle catene della logistica, nella pubblica amministrazione, hanno fatto sì che fronteggiassimo quell’improvvisa, sconosciuta e drammatica insidia.
Grazie a voi. Che avete avuto coraggio, che avete anche fatto delle vostre fabbriche dei centri vaccinali in supporto a quelli pubblici! Grazie ai lavoratori delle vostre aziende che hanno assunto, con altrettanto coraggio, la propria quota di rischi! Siete stati, poi, protagonisti di una ripresa prodigiosa e positivamente contagiosa, senza eguali nei G7. Adesso tante imprese sono state colpite dall‘alluvione. Le avversità si manifestano su più fronti.
L’interrogativo è: la nostra comunità è adeguatamente resiliente? È sufficientemente desiderosa di futuro, di voler guardare avanti?
Abbiamo fiducia nel nostro Paese e nel suo futuro; e sapere di avere il mondo dell’impresa impegnato, con convinzione e con capacità, per il progresso dell’Italia, è motivo di conforto e di grande apprezzamento.