Se saprà “partire dai luoghi, dalle persone, dalle organizzazioni che hanno dimostrato di saper produrre istituzioni sane, imprese dinamiche e buona ricerca” e se saprà dotarsi di una “governance adeguata e in grado di rendere operativa l’innovazione che si vuole trasferire”, il Mezzogiorno – e in particolare la Campania, che ha dimostrato una maggiore capacità di leadership – potrà essere protagonista del processo di cambiamento che il paradigma Industria 4.0 ha introdotto.
Sono queste le conclusioni “politiche” a cui è giunto il Gruppo di lavoro interdisciplinare dell’Università di Napoli Federico II, al quale hanno partecipato i proff. Gianluigi Mangia, Matteo Maria Mutarelli, Carolina Perlingieri, Antonio Pescapè, Gaetano Vecchione (tutti dell’Università di Napoli Federico II), Francesco Grillo (Oxford University) e Annamaria Nifo (Università del Sannio). Un lavoro che si pone l’obiettivo di “declinare la sfide economiche, giuridiche e tecnologiche che il modello Industria 4.0 impone nel contesto meridionale” e che arriva anche a conclusioni di carattere tecnico, presentando una serie di proposte perché questo obiettivo possa diventare realtà.
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Scardinare la trappola
Le PMI italiane sono intrappolate tra un modello di politica industriale debole, ancorato a trasferimenti e sussidi erogati senza un convincente disegno strategico, e alcune carenze strutturali (certezza del diritto, corruzione, sistema finanziario bancocentrico, business environment) che hanno generato regole del gioco perverse, che privilegiano atteggiamenti conservativi e di protezione della rendita. Mancano inoltre grandi gruppi industriali capaci di trainare il Paese e la sua economia sulla frontiera tecnologica dell’innovazione e della ricerca.
Questa trappola che blocca le PMI meridionali va “scardinata” attraverso “nuovi canali di generazione e trasmissione dell’innovazione che vedano al centro le imprese e le università affiancate da Istituzioni che contemporaneamente dovranno semplificare le regole e creare la strategia di lungo periodo e gli incentivi economici per promuovere investimenti.
Su quali tecnologie abilitanti investire?
Dopo una definizione di Industria 4.0 e una presentazione del piano nazionale, il lavoro entra nel vivo affrontando i diversi capitoli che ne costituiscono la struttura. Come primo step si passano in rassegna le principali tecnologie abilitanti in grado di avere un impatto importante sul territorio. Secondo i ricercatori Digital Innovation Hub e Competence Center devono aiutare le PMI a incrementare la produttività sfruttando le tecnologie abilitanti come Reti 5G, Cloud Computing, Industrial IoT, Intelligenza Artificiale, Robotica, Big Data, Realtà Virtuale e Realtà Aumentata e Stampa 3D.
I modelli organizzativi
Successivamente si analizzano i modelli organizzativi e si propone “una rilettura dei modelli e dei principi organizzativi di divisione del lavoro e di coordinamento, di definizione delle competenze manageriali in una prospettiva di medio e di lungo periodo”. Occorre – dicono i ricercatori – ottimizzare i modelli organizzativi di e tra le imprese, cioè “individuare le interdipendenze organizzative reali tra gli attori per evitare sovrapposizioni (di funzione e di risorse) sia esterne che interne alle organizzazioni”.
Lavoro e contratto di rete allargato
Il terzo capitolo è dedicato all’evoluzione del lavoro: “la prevalente organizzazione del lavoro per obiettivi comporta un incremento della responsabilità individuale rispetto al risultato utile della prestazione lavorativa e determina una maggiore rilevanza della connessione tra retribuzione e produttività“, scrivono gli autori. “I nuovi processi comportano anche una maggiore variabilità e flessibilità delle mansioni, da cui deriva la necessità di continui adattamenti del lavoratore e delle sue conoscenze”. Viene quindi proposto un contratto di rete allargato “affinché vi sia una più efficace e stretta collaborazione tra il mondo dell’impresa e quello dell’Università per rendere operativa la condivisione di lavoratori tra Imprese e Università”.
Il contratto di rete è infatti uno “strumento particolarmente flessibile e idoneo a favorire la collaborazione tra realtà imprenditoriali diverse per natura e dimensioni, consentendo la sperimentazione di forme di aggregazione e cooperazione per lo sviluppo e lo scambio in materia di innovazione tecnologica, abbinando ai vantaggi della piccola dimensione, in termini di flessibilità organizzativa e rapidità di adattamento, i benefici della grande dimensione, dal momento che consente alle imprese che vi partecipano di accedere (sia sul piano degli investimenti e delle conoscenze, sia sul piano della competizione nel mercato) a opportunità altrimenti difficilmente raggiungibili”.
Sfruttare (correttamente) il potere dei dati
Il passaggio dagli small data ai big data impone un ripensamento della gestione della privacy, anche in vista dell’entrata in vigore, il prossimo 25 maggio, del GDPR, che il lavoro presenta nelle sue sfaccettature di maggior impatto per le imprese.
Nelle conclusioni gli autori propongono l’istituzione di un “Big Data Hub (in accordo con le regioni) che possa essere a servizio della comunità scientifica, produttiva e amministrativa del Mezzogiorno”.
Formazione e competenze
La formazione (continua) va sviluppata su tre assi che insistano su competenze di base, competenze digitali e soft skills. Si evidenzia in particolare l’importanza delle soft skills, soprattutto comunicazione, gestione del tempo, team work, leadership, negoziazione, creatività e pensiero critico.