Opportunità e minaccia. Crescita e diminuzione. Possibilità e rischio. Le due facce della medaglia della digitalizzazione emergono nella loro contraddittorietà specie quando si affronta il tema dell’occupazione. Ormai il problema non è più rinviabile: l’innovazione tecnologica creerà lavoro? Oppure l’automazione provocherà un buco insanabile nell’occupazione?
“Se il processo di digitalizzazione è lento, il territorio è in grado di assorbire le conseguenze negative dell’innovazione, ma è più alto il rischio di perdere competitività e quindi occupazione”, osserva Umberto Bertelé, presidenti degli Osservatori sull’innovazione digitale del Politecnico di Milano. Insomma, che l’innovazione si accetti o non si accetti, c’è un prezzo da pagare in termini di posti di lavoro. Come prevenire il problema?
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Il fronte del lavoro
Per Massimo Bonini, segretario della Cgil di Milano, “queste trasformazioni sono difficilmente interpretabili”, però si può imparare dalla storia. Nel caso del sindacato, lo tsunami che ha investito i bancari può essere preso a esempio per anticipare le ricadute occupazionali dei processi di digitalizzazione. “C’è un tema di obsolescenza delle compentenze”, osserva il sindacalista, al quale la Cgil risponde con “la proposta di apprendimento permanente, che è contenuta anche nella nostra Carta dei diritti. C’è una tendenza delle imprese a discutere di formazione per conto proprio”.
Più in generale, però, l’evoluzione digitale pone sul tavolo del sindacato nuove questioni da discutere. Come ad esempio, cita Bonini, “il diritto del lavoratore a essere disconnesso dal luogo di lavoro”. O anche una riorganizzazione interna “dei settori in cui abbiamo scomposto in questi anni il mondo del lavoro, con la conseguenza di creare 900 contratti”, conclude.
Il nodo della formazione
Secondo Federico Butera, professore emerito di Scienze dell’organizzazione all’università Bicocca di Milano, le aziende devono “riprogettare i sistemi produttivi. Occorre fare un job design che sia sintonico con la produzione e con i bisogni dell’industria”. Per l’accademico non di solo digitale vive l’industria 4.0. “Il rischio è che la nuova rivoluzione industriale sia vista come un campo in cui costruire competenze solo digitali. Il programma industria 4.0, che mette risorse per la formazione, ha un elenco di competenze agghiacciante”, taglia corto il docente.
È la stessa linea su cui ragiona anche l’amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci: “Vogliamo persone educate, non formate. Ovvero che abbiano una base teorica, capacità analitica e conoscenze organiche”.
Le mosse per reagire
“Se in futuro la ricchezza sono le informazioni, dobbiamo capire dove e chi tassiamo. Non so se la soluzione sia una web tax, però dobbiamo ragionare su come muoverci”, osservato il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi.
Bertelé riconosce che “la crescente robotizzazione nell’industria, lo sviluppo di software sempre più sofisticati nei servizi e l’ampliamento della gig economy potrebbero portare almeno nel breve-medio periodo a una contrazione dei posti di lavoro e a una divaricazione nelle remunerazioni”. E secondo il docente, “per l’Italia, che vede nascere e crescere poche imprese digitali, il problema potrebbe essere anche più grave rispetto a altri Paesi”. La ricerca più accreditata a livllo globael, quella del duo Frey-Osborne di Oxford, prevede che la computerizzazione impatterà almeno sul 47% posti di lavoro. Mentre per Mckinsey è automatizzabile in toto il 5% di 800 lavori individuati negli Stati Uniti, mentre il 60% può essere automatizzato il 30%.