La pervasiva adozione di sistemi ICT più o meno evoluti è, dato di fatto, elemento fondamentale per mantenere e/o incrementare la competitività delle aziende italiane nel panorama mondiale, in cui oltre alla qualità dei prodotti è necessario fornire servizi a valore aggiunto ai clienti, possibilità di personalizzazione, tempi rapidi di realizzazione e consegna; tutto questo non può prescindere, inoltre, da un progressivo efficientamento del processo produttivo, al fine di contenere al minimo indispensabile la spesa improduttiva e garantire un ritorno dell’investimento il più rapido possibile. Il punto focale quindi non è “cosa fare” (aderire al paradigma allargato dell’Industria 4.0) o “quando farlo” (il prima possibile), ma “in che modo” e “con quali risorse/competenze”.
Quali sono le figure professionali che stanno diventando cruciali per affrontare nel modo più efficacie possibile la transizione, e di conseguenza dominare l’industria digitalizzata, e che sono difficili da reperire sul mercato?
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Le figure professionali necessarie al compimento di Industria 4.0
Il pieno compimento del paradigma Industria 4.0 ha due pilastri fondamentali: la presenza di servizi e competenze ICT all’interno delle aziende/industrie e la volontà di innovare costantemente il proprio approccio alla produzione, ai servizi, ai clienti. Di conseguenza, abbiamo da un lato la necessità di incrementare la disponibilità di profili “classici”, quali tecnici ICT, che costituiscano lo zoccolo necessario per applicare le tecnologie a nuove modalità operative e di analisi guidate da nuovi profili quali il data scientist e il Chief Innovation Officer. Queste ultime sono figure piuttosto particolari, poiché non esistono corsi di studi specifici per formarle, necessitando inoltre di una serie di competenze trasversali e, in alcuni casi, di soft skills ed esperienze di processo che possono maturare solo con il tempo.
Le difficoltà a reperire sul mercato tecnici ICT per l’industria italiana
Dati alla mano, emerge che circa il 50% delle offerte di lavoro per tecnici informatici, telematici, elettronici, delle telecomunicazioni, ha difficoltà ad essere soddisfatta, e circa il 25% addirittura viene chiusa senza ottenere candidature. Il problema presenta circa la stessa proporzione sia che si tratti di profili di livello più alto, quali laureati quinquennali o triennali, ad esempio in ingegneria, sia che si tratti di diplomati di istituti tecnici.
Analizzando più in dettaglio l’industria manifatturiera, che è particolarmente significativa in Italia e che è la maggior beneficiaria dei programmi Industria 4.0, si notano alcuni dati interessanti per quanto riguarda la strutturazione ICT. Circa il 90% delle aziende di settore con più di 250 dipendenti ha in organico degli addetti ICT; la presenza di addetti ICT interessa poi il 70% delle aziende tra 100 e 249 dipendenti, per scendere al 40% delle aziende tra 50 e 99 dipendenti, fino al 11% delle aziende con un numero di dipendenti tra 10 e 49. Idealmente, questa percentuale dovrebbe raggiungere il 100% almeno nel caso di aziende al di sopra dei 100 dipendenti, e il fatto che non lo sia suggerisce che probabilmente si faccia ancora ricorso massiccio a personale esterno, ma tuttavia possiamo concludere che il supporto ICT in tali classi di industria si possa considerare comodizzato, anche se in molti casi sottodimensionato.
La situazione assume una connotazione più critica per le aziende al di sotto dei 100 dipendenti, che nella maggioranza dei casi (sfiorando la totalità per quelle al di sotto dei 50) è totalmente dipendente da servizi esterni. Se da una parte il fenomeno potrebbe essere comprensibile, poiché internalizzare una risorsa ICT in aziende particolarmente piccole potrebbe apparire un aggravio di costi percentualmente considerevole, dall’altra potrebbe significare una scarsa fiducia nei benefici che una certa alfabetizzazione sulle tecnologie dell’informazione può portare. Dipendere totalmente da consulenti esterni, inoltre, rischia di tradursi in una difficile adozione delle tecnologie più adatte, poiché la conoscenza del processo rimane puramente interna all’azienda mentre la conoscenza delle tecnologie ICT puramente esterna.
Ribaltando il problema dal punto di vista della formazione, emerge che il sistema scolastico, superiore e accademico, produce circa 5000 tecnici in meno di quanti sarebbero necessari al sistema alle condizioni attuali; è inoltre parere dello scrivente che, alla luce di quanto poco sopra espresso, troppe aziende stiano ancora sottovalutando la necessità di acquisire un qualche grado di autonomia in ambito ICT, e che quindi la necessità di figure a regime sarà anche superiore.
Data scientist, quanto è difficile trovarli
Tra le nuove figure indicate, quella più rilevante dal punto di vista numerico e più definita dal punto di vista del profilo è sicuramente il data scientist. Si tratta di una figura che ha comunque delle competenze trasversali, poiché occorrono conoscenze informatiche, statistiche, di business, da proiettare sul processo da analizzare; tuttavia, il profilo fondamentale è relativamente semplice da definire poiché richiede delle basi solide che si possono trovare in percorsi di informatica, matematica, anche economia. È interessante notare che il 30% delle grandi manifatture svolga analisi di big data con personale interno e il 10% con personale esterno; le stesse categorie per le medie imprese valgono rispettivamente il 20% e il 6%. Considerando che negli ultimi anni la crescita del mercato dei big data analytics si è attestata su una media del 20% annuo, e che il mercato dell’intelligenza artificiale (considerato oramai uno dei grandi pilastri tecnologici per la analisi di dati) sta vivendo una crescita annua superiore al 30%, non sorprende che oltre il 70% delle grandi aziende italiane segnali carenza di risorse dedicate alla Data science. Sul più importante network professionale, LinkedIn, una ricerca di annunci alla voce “data scientist” porta in media 500 risultati, a testimonianza di alta domanda oppure difficile reperibilità; spesso peraltro ci sono richieste di profili junior, introvabili proprio perché come accennato in precedenza non esistono corsi di studi allo scopo. Uno dei modi più sensati per ovviare la carenza di queste figure sul mercato è quello di far crescere una risorsa interna, che abbia una forte connotazione informatica o matematica, con formazione specifica. Si ritiene che la domanda di queste figure non potrà che aumentare nei prossimi anni, essendo assolutamente ragionevole pensare che anche aziende di medie e piccole dimensioni si attesteranno su percentuali di penetrazione non distanti da quella delle grandi aziende.
Le nuove figure apicali: il chief innovation officer
Ad oggi, solo il 2% delle aziende italiane ha in organico un chief innovation officer, tuttavia la tendenza sembra portare la penetrazione ben oltre il 10% in una finestra di 5 anni. Fino ad ora, a dotarsene maggiormente sono state aziende con una vocazione intrinseca all’innovazione, dovuta al particolare mercato in cui operano, come ad esempio nel settore del digitale, bancario e assicurativo. Una figura simile però diventa di vitale importanza anche per industrie diverse dalle precedenti, occupandosi di innovazione a tutto tondo: non un tecnologo ma un esperto di utilizzo delle nuove tecnologie per innovare processi, modelli di business, servizi ai clienti, gestione del personale; insomma, un innovatore a tutto tondo da non confondere, come sta avvenendo in troppi casi, con un insieme di mansioni che vadano a aggiungersi al lavoro del chief information officer o del chief tecnology officer. Da qui è evidente la difficoltà di trovare figure adeguate: la preparazione deve essere trasversale su più temi, e in quanto tale può concretizzarsi solo in anni di esperienza, ma tuttavia necessita di una conoscenza approfondita dei processi dell’azienda in cui opera. Il profilo ideale è, di conseguenza, difficile da tracciare in modo generalizzato per tipologie di aziende anche simili. Ragionevolmente, aziende con un grado di penetrazione della tecnologia lontano dal 4.0 dovranno orientarsi su figure con un background tecnologico dominante, mentre aziende a elevato grado di tecnologia potrebbero aver necessità di figure con propensione principale ai processi o ai modelli di business. Si tratta, in estrema sintesi, di una figura di non semplice reperibilità al punto che spesso se ne affidano le responsabilità ad altri ruoli aziendali, ma che avrà sempre più mercato, tuttavia con dei numeri assoluti relativamente contenuti.
Cosa può fare il sistema della formazione
Per quanto sopra esposto, risulta evidente come il sistema dell’istruzione, ad oggi, non sia in grado di produrre un numero di profili per i settori del ICT ad ampio spettro tale da soddisfare le necessità dell’industria italiana. Il problema è abbastanza tipico quando c’è trasformazione di un settore, poiché esiste un ritardo fisiologico dovuto al percorso formativo (3 o 5 anni) rispetto a quando nasce un’esigenza molto marcata; l’esigenza di figure tecniche ICT è però oramai consolidata e in costante crescita, tanto da far ritenere che ci siano insufficienti campagne di sensibilizzazione che aiutino gli studenti a selezionare percorsi studi promettenti, forzando di conseguenza l’aumento dell’offerta formativa.
Un buon compromesso per formare profili interessanti con tempistiche ridotte rispetto a un ciclo accademico, è fornito dagli Istituti Tecnici Superiori. A oggi ne risultano 90 attivi in Italia, e solo una parte di questi fornisce specializzazioni nei campi dell’ICT e delle sue nuove tendenze industriali; inoltre, solo il 2% degli studenti li sceglie come percorso post-diploma. Anche in questo caso, dunque, sembra necessario operare per aumentare la percezione nei giovani rispetto al potenziale di mercato per queste figure altamente specializzate.
Riferimenti
Istat
Assintel Report 2019
Bollettino annuale del Sistema Informativo Excelsior
Il Sole 24 Ore