Sulla grande trasformazione tecnologica che sta cambiando i processi produttivi delle imprese di tutti i settori e dimensioni, c’è un tema che aleggia e preoccupa non poco esperti, analisti e semplici cittadini. Ovvero: l’aumento della digitalizzazione e automazione delle aziende avrà impatti negativi sull’occupazione? Un tema che è stato al centro della tavola rotonda organizzata nell’ambito dell’Industry 4.0 360 Summit, ribattezzata “L’evoluzione delle competenze e l’impatto sull’occupazione”, moderata dal direttore di Innovation post Franco Canna.
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Quanti lavoratori a rischio automazione
Una prima chiave di lettura è stata fornita da un interessante studio realizzato sulle imprese italiane, curato da Mariasole Bannò della Università degli Studi di Brescia, che ha messo in luce alcuni numeri non certo rassicuranti: un numero compreso tra 3,8 a 7,1 milioni di lavoratori sarebbero in Italia a rischio di perdita di posti di lavoro proprio per l’avanzata dell’automazione. “Si tratta di uno studio specificatamente contestualizzato sull’Italia, con dati che vengono dall’indagine campionaria sulle professioni dell’INAPP e dall’Istat. Il range è così ampio perché i due numeri sono legati a due diversi tipi di approccio: da un lato l’occupation based approach, dall’altro il task based approach. Nel primo caso le modalità di stima riguardano l’intera professione, ovvero quanto sia probabile che il lavoro di un avvocato o di una cassiera venga automatizzato. Nel secondo caso, invece, ci si riferisce alle singole attività che compongono le diverse professioni, verificando quanto ciascuna di esse possa essere o meno automatizzabile”, ha evidenziato la stessa Bannò.
Con il primo approccio la stima di posti di lavoro a rischio si aggira intorno ai 4 milioni, mentre con il metodo task based approach sui 7 milioni circa. In realtà, dal mio punto di vista, sono le singole attività a subire un aumento di probabilità dell’automazione, quindi considerare l’intera professione come automatizzabile non è molto corretto. Inoltre, il numero dei 4 milioni di lavoratori a rischio non tiene conto dei fattori compensativi: le nuove tecnologie devono essere implementate, le macchine devono essere progettate e portate negli stabilimenti produttivi. D’altra parte le stesse attività comportano un aumento della capacità produttiva delle imprese, generando nuovi prodotti e nuova domanda di lavoro.
L’impatto positivo della robotica
Un secondo studio sul tema è stato invece illustrato da Sergio Scicchitano, Economista, primo ricercatore dell’INAPP – Istituto Nazionale Analisi Politiche Pubbliche: “Il lavoro che abbiamo svolto ha studiato l’impatto sui robot nel periodo 2011-18. I risultati mostrano che nel periodo considerato l’introduzione dei robot non ha portato a risultati negativi sul tasso di occupazione, ma al contrario ha contribuito – seppure in modo contenuto – a ridurre il tasso di disoccupazione con importanti differenze sulle mansioni. Il punto chiave è nella distinzione tra attività complementari ai robot e quelle sostituibili dai robot stessi. Per farlo abbiamo utilizzato i dati dettagliati di INAPP che consentono di avere informazioni su tutte le 800 professioni italiani, distinguendo tra lavoratori dei robot e quelli invece esposti al rischio sostituzione (come ad esempio i saldatori). Il risultato è che le categorie occupazionali potenzialmente esposte non ne hanno risentito, dall’altro canto i posti di lavoro destinati agli addetti ai robot sono aumentati del 50% in meno di dieci anni, con un aumento maggiore nelle aree dove sono stati utilizzati di più. L’introduzione della robotica non ha portato neanche una contrazione dell’occupazione di tipo routinario. Anzi quelle di tipo cognitivo sono addirittura aumentate, mentre in quelle più strettamente manuali/fisiche c’è stata una diminuzione. La nostra stima è che un aumento dell’1% nell’impego di robot porti a un incremento di 0.29 punti percentuali degli operatori che svolgono attività complementari”.
Il tema delle competenze digitali
Paolo Manfredi, Responsabile delle Strategie digitali di Confartigianato, ha evidenziato come l’automazione nelle piccole e medie imprese permetta di efficientare le attività ripetitive e standardizzate, consentendo agli operai di dedicarsi ad attività di maggiore valore aggiunto, limitando gli sprechi. Si tratta, insomma, di una opportunità di meglio organizzare il lavoro. Per il made in Italy sono ottimista, non vedo un problema di displacements, ma di competenze a 360 gradi che frenano l’innovazione. Mi preoccuperei più dei servizi: anche quest’anno 2500 filiali bancarie chiudono, si tratta di un settore che sta pagando un obolo enorme alla digitalizzazione dei processi”.
Marco Bentivogli, Coordinatore di Base Italia e sindacalista ha invece spostato il tema della tavola rotonda sul cruciale tema delle competenze: “Con il Piano Industria 4.0 abbiamo visto un aumento degli investimenti privati abilitati da investimenti pubblici. Nella fase successiva, con lo stop che c’è stato nel 2019/20 abbiamo visto invece un rallentamento, che il piano Transizione 4.0 ha solo in parte recuperato. Sicuramente siamo in una fase di grande accelerazione tecnologica, ma servono delle politiche pubbliche che accompagnino un tessuto economico fatto di piccole e piccolissime imprese, altrimenti l’impatto potrebbe essere devastante. Purtroppo non abbiamo politiche attive in questo senso: in Italia abbiamo un problema di competenze digitali sui giovani, particolarmente drammatico. I nostri ragazzi lasciano la scuola troppo presto e iniziano a lavorare troppo tardi, rischiando di diventare dei NEET di lungo periodo. Inoltre, abbiamo un gigantesco bisogno anche di politiche per adulti. Nel nostro paese non hanno infatti mai funzionato i progetti di reskilling”.
L’impatto dell’innovazione sul mismatching
Il dibattito si è poi spostato sul cosiddetto mismatching, ovvero sulla eccessiva presenza di lavoratori troppo qualificati per la professione che poi invece svolgono nella realtà. La grande domanda è se l’adozione di innovazione tecnologiche potrebbe permettere di ridurre questo fenomeno: “Esistono varie quantificazioni del mismatch, che dipendono anche dalle varie definizioni. Tutte le stime concordano sul fatto che si tratta di fenomeno molto preoccupante, uno studio che abbiamo fatto ha cercato di quantificarlo. La quota di lavoratori sovra-istruiti rispetto al lavoro svolto tra i laureati è molto alta, pari quasi al 40%.
Non solo: la presenza dell’over education appare maggiore tra chi ha contratti a tempo indeterminato, perché c’è una sorta di tendenza ad accontentarsi. Le caratteristiche strutturali dell’economia italiana contano molto: le traiettorie di carriera nelle PMI sono complicate, aumentando così il rischio di disoccupazione. Abbiamo poi potuto verificare come il mismatch sia più probabile in presenza di attività routinarie. In questo senso l’adozione dell’innovazione può spingere la domanda di competenze verso l’alto, riducendo quella quota di lavori routinari e il conseguente mismatch. Occorre considerare che il nostro è l’unico paese del G7 in cui più del 50% dei laureati è impiegato in mansioni routinarie, ha messo in luce Schicchitano.
Bannò ha invece evidenziato come alcune caratteristiche peculiari dell’economia nazionale frenino una completa automazione: “Ci sono due elementi fondamentali che ci caratterizzano: un tessuto economico fatto soprattutto di piccole e medie imprese, quando è più facile adottare l’automazione per imprese di grandi dimensioni. L’altra caratteristica che ci contraddistingue è la struttura familiare che rende difficile immaginare una massiccia adozione dell’automazione in questo contesto che provocherebbe cambiamenti nei modelli di business e organizzativi. C’è poi la questione del bilanciamento costi/benefici: anche se giustificatamente si può andare verso l’automazione, resta sempre il tema della salvaguardia del lavoratore. Esiste poi un fattore tecnologico: vero che siamo secondi in Europa come stock di robot, ma per altre tecnologie dell’automazione siamo molto più indietro. Senza dimenticare la notevole disomogeneità anche nel contesto territoriale”.
La necessità del reskilling
Paolo Manfredi di Confartigianato ha invece spostato il tiro sulle competenze: “Nonostante l’impatto della pandemia, la domanda inevasa di competenze è rimasta sostanzialmente costante. Le imprese che hanno continuato a funzionare e rimanere competitive, continuano a non trovare figure adatte. PMI e struttura familiare sono un freno all’innovazione? Io ragionerei anche a livello di innovazione dei modelli organizzativi. Le imprese che non hanno trovato competenze da assumere hanno iniziato a ripensare i propri confini e a collaborare con aziende più piccole molto knowledge intensive. C’è un pezzo fondamentale di made in Italy che ha bisogno fortemente di innovazione. È possibile che cresca molto il mercato dei servizi alle imprese, digitalizzandone i processi. Serve un approccio pragmatico alle politiche pubbliche che oggi fatichiamo ancora a vedere”.
Sempre su questo tema Marco Bentivogli ha puntualizzato come “Qualsiasi processo di innovazione è un processo di partecipazione e se non coinvolge le persone rischia di essere vanificato. L’innovazione a spicchi si è dimostrata inefficace, è necessario costruire percorsi di partecipazione anche attraverso il reskilling. Anche in settori con competenze più elevate, penso all’ICT, il reskilling è sempre stato tralasciato. Per tutte le transizioni in corso (digitale, ecologica, ecc.) non basterà più fare affidamento a volontari e sussidi, occorrerà in futuro avere più coraggio”.