Analisi

L’importanza di costruire una filiera resiliente in un’epoca piena di turbolenze

La gestione dei rischi e la capacità di disporre di supply chain in grado di affrontare eventi e imprevisti senza subire interruzioni, blocchi o rallentamenti è oggi più che mai anche un vantaggio competitivo. La resilienza è diventata una delle caratteristiche fondamentali delle filiere ed è un tema sul quale le imprese sono chiamate a focalizzare la massima attenzione per garantire sia la business continuity sia le possibilità di sviluppo

Pubblicato il 29 Mar 2021

Sergio Baccanelli

Sergio Baccanelli, Project Manager IQ Consulting

shutterstock_1123719032

Come stanno cambiando le catene del valore? In un’epoca caratterizzata da continue turbolenze e da fattori di rischio sempre più difficili da controllare la resilienza rappresenta una caratteristica assolutamente strategica per garantire tanto la business continuity quanto le prospettive di sviluppo delle supply chain. Come Industry4Business abbiamo avuto la possibilità di affrontare Come stanno cambiando le catene del valore anche alla luce degli effetti del COVID, adesso vogliamo portare l’attenzione sui temi della resilienza nello specifico e sulla sua importanza per tante organizzazioni.

Che cosa si intende per resilienza

Tra chi si occupa di governo delle Supply Chain sembra essere il tema del momento, anche sulla spinta delle continue interruzioni e dei conseguenti ritardi di fornitura che il covid-19 e le iniziative di contenimento intraprese da governi e imprese stanno generando, ma partiamo dall’inizio. Che cos’è la resilienza? Gli psicologi la definiscono come la capacità di riprendersi rapidamente e di riorganizzare la propria vita in conseguenza di un danno o un forte trauma subito. Se vogliamo calare questo concetto nell’ambito delle operations possiamo descriverla come la capacità di riportare rapidamente a regime le attività logistico-produttive a valle di un’improvvisa interruzione o un rallentamento non evitabili, ma anche, e forse soprattutto, la capacità di prevedere e prevenire quella crisi con adeguate azioni, quando sia economicamente sensato farlo.

E se si entra nell’ambito del non prevedibile? Quando si parla dei sempre più citati cigni neri per esempio? In quel caso non avrebbe senso parlare di misure preventive, ma ciò che impariamo dall’esperienza del covid è che i sistemi logistico-produttivi più orientati alla flessibilità hanno saputo rispondere meglio all’imprevedibile, mentre le strutture più rigide, benchè indiscutibilmente più efficienti in una situazione di normalità, si sono rivelate più fragili. Dove sta quindi l’ottimo? Ricorrendo alla filosofia orientale potremmo dire che la supply chain del futuro dovrà trovare il giusto trade-off tra la solidità della quercia, in grado di reggere grandi carichi a prestazioni costanti e la flessibilità del bambù di portata decisamente inferiore, ma capace di flettersi e tornare in piedi senza danni al passaggio di una forte tempesta.

Il contesto: la crisi delle Supply Chain più globalizzate

Cominciamo con il dire che non parleremo solo di COVID-19. La pandemia in corso è un elemento importante della crisi che le Supply Chain più globalizzate stanno vivendo in questi mesi, ma non porta con se’ tutta la responsabilità. È stata l’innesco, non c’è dubbio; la forte perturbazione che ha generato ha messo a nudo fragilità e problemi di strutture logistico-produttive quasi totalmente improntate alla massimizzazione dell’efficienza e che davano un peso troppo contenuto o addirittura assente agli elementi di rischio insiti nelle filiere stesse. Questa volta è stato il covid, non c’è dubbio, ma avrebbe potuto essere qualcos’altro (e potrà esserlo di nuovo). È pertanto fondamentale cogliere questa occasione per analizzare gli elementi di eccessiva rigidezza e fragilità insiti nelle filiere logistiche e porvi rimedio.

Per meglio comprendere il contesto, è inevitabile introdurre il tema della globalizzazione, un fenomeno partito da lontano, ma che ha visto una grande accelerazione negli ultimi 40 anni e che si è sovrapposto, alimentandolo, a un altro fenomeno, citato molto meno frequentemente, che alcuni definiscono Asianizzazione, ovvero lo spostamento dell’asse socio-economico del pianeta verso Oriente. Nella storia non è senza dubbio una novità. L’Asia ha storicamente vissuto secoli di grandezza prima di affrontare un’epoca di decadenza e povertà, ma ora, sulla base di piani strategici che partono da lontano e che guardano lontano sta correndo per diventare il fulcro dell’economia mondiale ed è un treno che difficilmente si potrà fermare con mezzi ordinari.

La Cina guida questo fenomeno, ma non è il solo elemento della scacchiera orientale e lo sanno bene sia i dirigenti cinesi, sia chi lavora per contrastare, o per lo meno rallentare, questa inesorabile ascesa. Risulta che attualmente circa il 60% delle esportazioni mondiali di beni consumer e il 40% di beni tecnologici e tlc abbiano origini cinesi. Di fatto le economie occidentali hanno delegato una fetta importante delle loro produzioni alla Cina e, più in generale, all’Asia. Perché? Le ragioni sono molte, ma per ora mi soffermerei su queste:

  • Ampia disponibilità di manodopera a basso costo proveniente dalle campagne (l’equivalente della nostra rivoluzione industriale per intenderci);
  • Grande disponibilità di materie prime;
  • Volontà politica di costruire una rete di interconnessioni e interdipendenze economiche tale da allontanare lo spettro di un futuro conflitto globale.

Quindi lo schema che è stato abilitato è chiaro. Fare in modo che i paesi orientali escano dalla povertà producendo quantità crescenti di beni di consumo a basso costo per le economie occidentali le quali, oltre a consumare, avrebbero potuto dedicarsi ad attività a maggiore valore aggiunto così da poter esportare beni di qualità anche verso i nuovi mercati orientali, in uscita dalla povertà.

Questo modello ha funzionato bene per gli Stati Uniti, direi meno bene per una parte dei paesi europei. Negli ultimi tempi si sono sentiti parecchi scricchiolii. Da un lato vediamo la Cina che cerca strade per ridurre la propria dipendenza dagli USA (si veda il progetto Belt&Road che mira a interconnettere logisticamente Asia, Europa e parte dell’Africa), dall’altro reazioni di chiusura, spesso controproducenti, come per esempio i dazi di Trump, dall’altro ancora i cinesi stessi che, con una capacità di spesa di anno in anno crescente, sono diventati essi stessi degli importatori di merci pregiate. Di fatto possiamo affermare che, sempre di più, le economie asiatiche, oltre ad essere grandi produttori, stanno diventando consumatori e questo inizia ad avere un impatto non trascurabile sulla disponibilità e sul costo delle materie prime, ma anche sulla disponibilità delle capacità produttive. Lo si era visto negli anni passati su rame e petrolio e lo si sta vedendo ancora di più in questi mesi con uno shortage che farà letteratura sui semiconduttori e sulla produzione di microprocessori (concentrata per il 67% a Taiwan) che sembra non essere più in grado di soddisfare la domanda globale.

Contestualmente stiamo assistendo anche a un’improvvisa impennata dei costi di trasporto via nave che stanno diventando un collo di bottiglia con continui ritardi e necessità da parte delle imprese occidentali di una costante ripianificazione della produzione e una perennemente emergenziale gestione dei mancanti.

Quindi non c’è solo il COVID-19 sul tavolo, ma anche l’incapacità di una filiera lunga e rigida di reagire in modo flessibile ai cambiamenti e accompagnare la crescita. Quali possono essere, alla luce di ciò, le possibili strategie per il futuro?

Come si dovranno evolvere le Supply Chain del futuro

Come sempre la trasformazione evolutiva delle aziende (e quindi delle filiere) dovrà coinvolgere 3 pilastri:

  • I processi, che sempre di più dovranno estendersi lungo le Supply Chain in una logica di integrazione e ottimizzazione end-to-end, dove l’ottimo non potrà necessariamente più essere basato solo su logiche di minimo costo, ma dovrà trovare il giusto trade-off inserendo nel bilanciamento la costante valutazione del rischio che, in ottica strategica, dovrà portare a configurare filiere più solide e meno esposte alle oscillazioni dei mercati
  • I sistemi: come sempre la digitalizzazione avrà un ruolo fondamentale. Ottimizzare organizzazioni complesse significa avere a disposizione, non solo transazionali che permettano di condividere le informazioni lungo tutti i nodi della filiera, potenzialmente dalla materia prima fino al consumatore finale, ma anche una riserva di dati tale da permettere di implementare sistemi di data analytics e machine learning in grado di intercettare tempestivamente imminenti problematiche e proporre le migliori azioni di risposta. In questo senso tra le tecnologie che potranno dare un significativo contributo spiccano sicuramente l’IOT, l’intelligenza artificiale e, perché no, la blockchain, ma esse potranno davvero contribuire solo se si riusciranno ad implementare logiche di pianificazione integrata che, partendo dalla previsione dei fabbisogni, sappiano far risalire tempestivamente informazioni affidabili e, viceversa, permettano di acquisire feedback rapidi sulla fattibilità del piano.
  • Le persone, ovvero gli aspetti culturali. Si dovranno cambiare le logiche con cui si lavora. Si dovrà passare dalla spasmodica volontà di massimizzare il risultato del proprio orticello nel breve alla capacità di vedere più in là nello spazio e nel tempo in modo da garantire, nell’interesse di tutte le aziende coinvolte, il corretto e stabile funzionamento della filiera. Sarà necessario mettere in campo logiche di pianificazione integrata e, per riuscirci, diventa fondamentale la volontà e la capacità degli attori di dialogare apertamente e in modo continuativo.

Gli elementi sopra citati sono la chiave per poter governare in modo integrato una filiera evitando, o per lor meno riducendo fortemente, effetti distorsivi non controllati che, risalendo la catena, tendono naturalmente ad amplificarsi fino a diventare ingovernabili e a rendere più difficile il perseguimento di obiettivi di crescita sostenibile, probabilmente anche disincentivando gli investimenti in aumento della capacità produttiva.

Riprendiamo a tal proposito l’attualissimo esempio della crisi dei semiconduttori. Sembra impossibile che, in una filiera del genere, trainante nei settori in crescita, da tutti vista con numeri perennemente al rialzo, stiano mancando materie prime e capacità produttiva per la realizzazione di microprocessori. Eppure è ciò che si sta verificando. Il 2020 ha portato con se’ una inaspettata instabilità della domanda, probabilmente amplificata dallo svuotamento degli stock e dei canali logistici, nonché un forte freno agli investimenti in capacità produttiva. Questo fenomeno si è completamente ritorto contro chi lo ha governato non appena la domanda è tornata a crescere in modo costante e la filiera ha dovuto rimettersi in moto a pieno regime.  Per di più, tale fenomeno è stato amplificato dal rallentamento delle attività portuali causato dalla continua assenza di operatori indispensabili per malattia e quarantene, che si è ripercosso pesantemente sui tempi e i costi di trasporto sulle lunghe tratte (le tratte Cina-Europa stanno registrando ritardi nell’ordine delle 2-3 settimane e prezzi al container anche 5-6 volte superiori alla norma).

Tutto comprensibile direte. C’è stato il covid. Non si poteva fare nulla di meglio. Vero, ma fino a un certo punto. Si sarebbe potuta pensare una filiera diversa, che non concentrasse la stragrande maggioranza della produzione globale di una merce strategica in un solo paese (e buona parte di essa in una sola azienda), per di più collocata logisticamente molto lontano dai principali acquirenti, ovvero le linee di assemblaggio europee e americane.

Non per nulla l’Unione europea sta mettendo in campo un piano emergenziale di investimento per incrementare notevolmente la propria capacità produttiva in questo settore. Ha capito che la capacità di produrre in casa tecnologia sarà una chiave strategica per il futuro.

Perché adesso è arrivato il momento di muoversi e risolvere i problemi

La storia ci ha insegnato che l’economia e l’industria non tornano indietro; non possono permetterselo. Dovranno continuare ad evolvere alla ricerca di un miglioramento della produttività e di una massimizzazione dei risultati che, sempre di più, dovranno convivere con l’incremento della velocità e della varietà, ormai driver fondamentali di tutti i mercati competitivi, ma, ahimè anche enormi moltiplicatori di rischio. Diventa pertanto fondamentale considerare adeguatamente nelle proprie funzioni di ottimizzazione i costi potenzialmente generati da instabilità delle forniture, ritardi, oscillazione dei costi logistici. Detto in altri termini, il risk management dovrà avere un peso crescente nelle scelte di configurazione delle supply chain.

Concentrazione e distanza dei fornitori e delle loro stesse filiere, oltre alla scarsa condivisione delle informazioni, devono diventare i campanelli di allarme di una situazione potenzialmente fragile e su queste tematiche si dovrà lavorare in senso strategico non appena avremo finito di spegnere gli incendi causati dalla scarsa lungimiranza avuta negli ultimi tempi. Il covid sarà passato, ma altri cigni neri potranno presentarsi e dovremo necessariamente imparare ad essere lungimiranti.

Sono necessari due ordini di iniziative. Da un lato i grandi investimenti da parte degli enti governativi che, ormai è chiaro e inevitabile, dovranno potenziare le infrastrutture logistiche fisiche e digitali per supportare la futura crescita, ma dall’altro tocca alle imprese, per le quali diventa ineludibile un cambio culturale importante lungo tre direttrici:

  • una trasformazione digitale focalizzata sulla generazione e condivisione di dati all’interno di processi integrati di filiera;
  • un governo dei fornitori e dei propri processi di trasformazione più orientato alla business continuity;
  • il reshoring, inteso come il riavvicinamento sia dei fornitori strategici sia dei siti produttivi.

Ci si sta già muovendo. L’Unione Europea e gli Stati stanno lanciano i loro piani di investimento strategico, così come molte imprese stanno aggiornando sistemi e processi e trasformando il modo di lavorare delle proprie persone. In alcuni casi sono già partite iniziative di riconfigurazione fisica con il trasferimento di impianti produttivi dall’Estremo Oriente a paesi dell’Est Europa e molte imprese non escludono di riportare nel cuore dell’Europa parte della capacità produttiva un tempo emigrata. La strada è sicuramente lunga e c’è ancora moltissimo da fare, ma la direzione sembra essere necessariamente questa.

Immagine fornita da Shutterstock.

Valuta la qualità di questo articolo

Articoli correlati

Articolo 1 di 5