Supply chain

I HAD A DREAM
Riflessioni a ruota libera sul blocco del Canale di Suez

Una nave portacontainer, lunga 400 metri e larga circa 60, blocca il Canale di Suez. Un nuovo evento imponderabile mette in crisi le catene logistiche mondiali. Dopo Wuhan, cosa abbiamo davvero imparato sulla resilienza delle supply chain?

Pubblicato il 29 Mar 2021

Marco Perona

Professore Ordinario, Laboratorio RISE, Università di Brescia, Senior Partner IQ Consulting

epa09095862 A handout photo made available by the Suez Canal Authority, shows the Ever Given container ship which ran agorund in the Suez Canal, Egypt, 25 March 2021. The Ever Given, a large container ship ran aground in the Suez Canal on 23 March, blocking passage of other ships and causing a traffic jam for cargo vessels. The head of the Suez Canal Authority announced on 25 March that 'the navigation through the Suez Canal is temporarily suspended' until the floatation of the Ever Given is completed. Its floatation is being carried out by eight large tugboats that are towing and pushing the grounding vessel. EPA/SUEZ CANAL AUTHORITY / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES


Che sogno questa notte!
Sarà perché scontavo la fatica della settimana lavorativa, ma mi sono addormentato subito e profondamente. Abbandonato alle braccia di Morfeo, mi parve di essere in uno studio televisivo, scintillante di luci e circondato da cameramen ed altro personale in febbrile attività. Il giornalista che mi intervistava era un volto ben conosciuto, nientemeno che Fabio Fazio… e c’era anche la mordace Luciana Littizzetto che ogni tanto mi guardava con il suo ghigno malefico, mentre Fazio dal suo scranno al centro dello studio mi rivolgeva le sue domande.

Marco Perona, Professore Ordinario di Logistica Industriale, Università di Brescia e direttore del RISE

“Professore, come faremo a salvarci dal blocco del Canale di Suez?” mi chiedeva con tono gentile, ma inquisitivo, l’intervistatore. E mentre cercavo di articolare una risposta, mi incalzava: “Ha visto che il comitato tecnico-scientifico convocato dal Presidente Draghi ha decretato la zona rossa per il distretto dei metalli, a causa dell’innalzamento dei prezzi delle materie prime?”. “E cosa ne pensa della decisione dell’Istituto Superiore di Logistica di proporre al governo l’estensione a tutto il Nord del Paese della zona arancione scuro per l’aumento dei noli marittimi?”. “Pensa che la terza ondata di mancanza dei materiali plastici potrà essere risolta presto?”. “Come potremmo prevenire le carenze di semiconduttori? Ritiene che il governo dovrebbe rivedere i contratti di fornitura con le aziende del big-tech?” 
Le domande non davano tregua, mentre il calore emanato dai riflettori, insieme all’emozione di questa situazione imprevista, mi innalzavano la sudorazione in modo insopportabile.
Ed il sogno proseguiva con una teoria di eventi, situazioni e contesti che mi pareva di avere già visto nella vita reale: dalle manifestazioni dei “no Log” con cartelli contrari alla globalizzazione ed inneggianti ai prodotti “km zero”, ai litigi televisivi dei professori di Logistica che esponevano il proprio parere e confutavano quello dei colleghi; e dagli editti dell’OML (Organizzazione Mondiale della Logistica) alle “cure domiciliari” intraprese con metodi artigianali da singole aziende, tutte convinte di avere trovato la panacea alle diverse problematiche logistiche.
In definitiva, questa mattina mi sono svegliato ancora più stanco di quando mi sono andato a coricare. Mi pareva di avere lavorato per un mese ininterrottamente… ma ripensandoci, tutto sommato, si tratta di un sogno, o forse di un incubo, utile a ripercorrere gli eventi che stanno, per davvero, riportando alla ribalta mondiale la logistica.

Perché si torna a parlare di logistica

Anzitutto, una serie di perturbazioni in toto o in parte riconducibili alla pandemia: l’aumento del prezzo dei noli marittimi, dei quali ho già scritto qui [1]; la riduzione della disponibilità dei container, su cui trovate qualche considerazione qui [2]; la forte ripresa post-pandemica dell’economia Cinese; il picco delle vendite dei beni elettronici e la corrispondente “shortage” dei semiconduttori, commentata molto chiaramente in questo intervento del collega Sergio Baccanelli [3], fino ad arrivare all’incagliamento della nave portacontainer Ever Given della compagnia EVERGREEN nel canale di Suez, che sta bloccando centinaia di altre navi in rotta dal far east verso l’Europa e vice versa, commentato anch’esso da Baccanelli qui [4].

Ci sono tutti gli ingredienti affinché una raffinata mente complottista possa scrivere un best seller in cui la Cina, dopo avere messo in ginocchio le economie Occidentali attraverso un virus “accidentalmente” sfuggito da un proprio laboratorio di Wuhan, approfitta della situazione per conquistare il mondo.

Ma al di là di queste suggestive quanto romanzesche interpretazioni, credo che dobbiamo cercare di applicare a questa situazione una frase intelligente del Dalai Lama, che dice: “Se hai perso la partita, almeno non perdere la lezione”.

Cosa ci insegna quindi questa complicata situazione? Proviamo a leggere razionalmente gli eventi e a distillare alcuni messaggi.

Tre lezioni sulla logistica

1). Known unknown

Il lucido intervento di Alessandro De Felice, presidente di ANRA, che trovate qui [5] pone l’interruzione del canale di Suez nella sua giusta prospettiva: non è una tragedia, richiederà qualche giorno, o al più poche settimane per essere risolto, e soprattutto è superabile inviando la navi nuovamente attorno all’Africa, con un aggravio di circa 8-10 giorni di navigazione in più. Ma soprattutto, vengono ricordati altri due blocchi del Canale, il primo negli anni ’50 per quasi un anno, il secondo nel 1967 per quasi 8 anni.

Entrambi per guerre. Ci avevate mai fatto caso? Il canale attraverso cui transita il 10% del commercio mondiale è nell’area più politicamente instabile al mondo ed ha alle spalle altre 2 interruzioni negli ultimi 70 anni… Siamo proprio sicuri che un altro blocco fosse imprevedibile?

E la pandemia, anch’essa completamente imprevedibile? Eppure c’erano già state le epidemie di AIDS ed Ebola ad ammonirci, ed io personalmente ricordo molto bene i miei nonni che raccontavano della famosa “spagnola”.

E ci siamo completamente dimenticati che, solo negli ultimi 20-30 anni, i nostri risk manager hanno dovuto occuparsi di: 2 tsunami, numerosi gravi terremoti, diverse crisi geopolitiche, dell’eruzione di un vulcano Islandese, delle torri gemelle e della crisi “Lehman Brothers”, per non citare che gli eventi più importanti?

E se allarghiamo lo sguardo all’ultimo secolo vedremo: un’altra pandemia, due guerre mondiali, una buona decina di guerre locali con effetti molto rilevanti. Ad esempio, i “baby boomers” come me ricorderanno certamente i week-end senza auto…

Quindi? Se tiriamo le somme, in 100 anni abbiamo dovuto fronteggiare almeno 20-30 eventi rilevanti di diverso tipo, con impatti profondi sull’economia mondiale: sono (in media) uno ogni 5 anni, o più.

Sintetizzerei questo insegnamento con una frase iconica di Peter Drucker: “if you don’t invest in risk management, it does not matter which business are you in: it will be a risky business”

2). Estote parati

Chi di noi da ragazzo non è stato scout? Il motto degli scout, presente sia nel Vangelo di Luca (Lc 12,40) sia in quello di Matteo (Mt 24,44), ci aiuta in questo ragionamento. Il fondatore dello scoutismo, Baden-Powell lo spiegava così: “Siate pronti nella mente esercitandovi alla disciplina e all’obbedienza, e anche riflettendo su ogni possibile incidente o imprevisto che può capitare, in modo da riconoscere la cosa giusta da fare nel momento giusto, ed essere desiderosi di farlo”.

Questo concetto può essere tradotto ed applicato alle moderne imprese ed ai mercati attraverso il paradigma della “resilienza”, divenuto prepotentemente di moda tra imprenditori, manager e consulenti. La resilienza è un concetto dell’ingegneria meccanica, dove viene definito come la proprietà di un materiale di non spezzarsi anche se sottoposto a forti sollecitazioni impattive, come ad esempio un forte urto. Dopo un urto osserviamo tre comportamenti radicalmente diversi: i materiali fragili sono quelli che vanno in pezzi; i materiali plastici si deformano permanentemente senza spezzarsi; i materiali elastici invece si deformano per effetto della sollecitazione, ma quando essa viene meno anziché assorbire l’energia attraverso una deformazione permanente la restituiscono, recuperando la forma pre-esistente.

Questo esempio può valere anche per le aziende: quelle fragili falliscono; quelle plastiche cambiano permanentemente e trovano un nuovo equilibrio; quelle elastiche invece cambiano solo temporaneamente e alla fine della perturbazione ritornano quelle di prima.

E cosa occorre fare quindi per essere aziende “resilienti” sia plastiche, sia elastiche? Servono 3 caratteristiche, tutte progettabili prima che una forte perturbazione colpisca:

  • occorre guardare avanti, e cercare di identificare gli eventi che potrebbero avere effetti dannosi
  • occorre disporre di un piano preordinato e condiviso per fronteggiare le perturbazioni che si ritengano più probabili – evidentemente esso potrà declinarsi sia in maniera plastica sia elastica a seconda del tipo di perturbazione e delle caratteristiche dell’azienda
  • infine, occorre avere chiaro come riportarsi il più rapidamente possibile alle condizioni di regime, siano esse uguali a prima (reazione “elastica”) oppure diverse (reazione “plastica”).

Anche in questo caso credo ci stia bene una frase famosa, questa volta di Benjamin Franklin: “By failing to prepare, you prepare to fail

3). Essere o non essere resilienti, questo è il problema

E cosa possiamo fare prima che si manifesti una grave perturbazione, per migliorare la resilienza della nostra azienda?
Qualche idea l’ho già fornita in alcuni post di qualche mesi fa: li trovate qui: [6], [7] e [8].
Riassumiamo i principali concetti:

  • filiera corta – sia dal punto di vista geografico, sia dal punto di vista del numero di passaggi di mano: perchè ogni singola operazione ed attività in più può seguire la 1° legge di Murphy: “se qualcosa può andare male (prima o poi) lo farà”. Meno “cose” (attori, fasi, km, …) mettiamo nella nostra filiera e meno eventi dannosi potranno accadere. (Ri)analizziamo la nostra supply chain e chiediamoci se tutte le “cose” che ne fanno parte sono strettamente necessarie, oppure se non sia possibile eliminarne qualcuna
  • filiera trasparente – perché più abbiamo informazioni e più riusciamo ad agire in modo accurato ed opportuno, sia predittivo, sia reattivo. Chiediamoci (se e quanto) conosciamo i fornitori dei nostri fornitori? Ed i clienti dei nostri clienti? Se la risposta è sul no… iniziamo a preoccuparci
  • filiera ridondante – avere alternative è un buon sistema per non trovarci con le spalle al muro. Alternative di prodotto, di componenti e materie prime, tra stabilimenti produttivi, di fornitura, persino tra i clienti… E soprattutto, non ci dimentichiamo che se abbiamo 15 gg di scorta possiamo fare fronte alla domanda mentre le navi che ci portano i rifornimenti doppiano il Capo di Buona Speranza… Anche una scorta di sicurezza vuole dire ridondanza.
  • filiera agile – la capacità di riconfigurare stabilimenti e processi in tempi e con costi limitati è ovviamente la dote principale per assorbire in tempi rapidi le sollecitazioni e ripartire in modo plastico. Ricordiamoci sempre che l’agilità dipende da tanti fattori, tra cui anche i vincoli tecnici e l’intensità di capitale fisso, ma che dipende tanto anche dalla nostra predisposizione al cambiamento.

Mettere insieme tutte queste caratteristiche certamente non è facile e richiede un controllo sistemico ed analitico del proprio ecosistema, come credo venga ben spiegato in questo articolo che ho scritto con i colleghi Sergio Fumagalli, Luca Bechelli ed Andrea Reghelin [9].

Termino quindi con una visione di Rupert Murdoch: “il mondo sta cambiando rapidamente: non sarà più il grande a vincere sul piccolo, ma sarà il veloce a battere il lento”. Anche a voi ricorda Darwin?

L’immagine di apertura è ripresa dal sito Ansa

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