L’innovazione nel manifatturiero?
Non è questione di tecnologia, ma di change management.
Ne è convinto Christian Parmigiani, CEO di 4ward, che da tempo presidia i percorsi di digital innovation delle aziende del comparto.
Da tempo, va detto, il settore manufacturing rappresenta per 4ward uno dei più rilevanti per il proprio business, secondo solo al finance per numero di clienti e per fatturato.
“La maggior parte dei nostri clienti del manufacturing – spiega Christian Parmigiani – appartiene al settore della manifattura pesante: collaboriamo e abbiamo collaborato con realtà come Engie, Magneti Marelli, Ferrari, Prysmian, e nel contempo entrano nel nostro perimetro realtà di medie e grandi dimensioni, che però rappresentano delle eccellenze nel panorama italiano, come ad esempio HTI, che con il brand Leitner sviluppa e realizza sistemi di innevamento, trasporti a fune, gatti delle nevi. Sono realtà più snelle dal punto di vista organizzativo e spesso più reattive nei loro processi decisionali, pur in presenza di progetti di magnitudo più contenuta”.
Affrontare la trasformazione nel mondo del manufacturing porta con sé non poche complessità, a partire dal fatto che si parla di un settore nel quale i processi sono molto consolidati.
Per questo motivo, secondo Parmigiani, bisogna avere la piena consapevolezza che il progetto non finisce alla delivery della soluzione, ma realizza il suo ritorno quando l’azienda cambia il proprio modo di lavorare adottando efficacemente nuovi processi e nuove tecnologie.
“Il lato umano è quello che ha l’abbrivio più lento – spiega -, ma è innegabile che il fattore umano sia più importante di quello tecnologico”.
Indice degli argomenti
Dai white collar ai blue collar
C’è poi un aspetto non secondario quando si parla di digitalizzazione nel mondo manifatturiero.
Nelle aziende convivono infatti due tipologie ben distinte di pubblico, white collar e blue collar, che hanno reazioni e livelli di accettazione differenti quando si parla di adozione tecnologica.
“Il rischio che si corre è che si finisca per lavorare solo con i white collar, che sono fonte di minore resistenza. In realtà, trascurando di agire anche sui blue, spesso più resistenti al cambiamento, si finisce con il creare un digital divide interno: si introduce tantissima tecnologia, tante best practice sui white collar, tralasciando i blue”.
Altrettanta attenzione va poi posta sulle dinamiche di utilizzo delle tecnologie o delle practice implementate: “Se modifico un processo, poi viene effettivamente adottato? C’è differenza tra project management e change management ed è questo secondo aspetto da non perdere mai di vista”.
La co-progettazione per creare l’abitudine
Per 4ward è importante non solo partire per gradi, personalizzando la soluzione in base al contesto specifico del cliente, ma soprattutto lavorare in una logica di co-progettazione.
Se il problema è uscire dalla confort zone dei processi consolidati, allora bisogna lavorare sulla creazione dell’abitudine.
“Bisogna trasformare un nuovo processo in una abitudine, perché questo comporta anche un minore dispendio energetico. E lo stesso vale per il tema delle competenze. Non è sufficiente fare un percorso di formazione, bisogna che di queste nuove conoscenze diventino effettivamente abilità ed il dipendente possa fare esperienza, così da rafforzarle”.
Change Management, le domande giuste da fare e farsi
Date tutte queste considerazioni, nel suo approccio al manifatturiero 4ward cerca sempre di integrare la gestione del project management con il change management.
“Dove c’è già una cultura di change management ci inseriamo, dove manca invece cerchiamo di introdurla, creando una coalizione alla quale prendano parte come sponsor non solo gli executive ma anche altre funzioni aziendali”.
Secondo Parmigiani, se a livello di top executive si portano messaggi di più altro livello – dal why al why now al why not – le funzioni aziendali portano un altro tipo di stimolo, che è quello che alla fine guida il processo di adozione: “Whats’s in for me?”, ovvero “Cosa ci guadagno, cosa c’è in palio per me?”.
Essere convincenti e coinvolgenti evidenziando i comportamenti virtuosi è il primo passo che guida e supporta il cambiamento.
Cosa vogliono i blue collar
Ma i blue collar, quelli sui quali non si vuole creare digital divide, cosa vogliono in realtà?
Il primo obiettivo è che la leva tecnologica sia utilizzata per semplificare il lavoro e migliorare la sicurezza.
In questo ambito specifico 4ward ha sviluppato una suite che coniuga IoT ed Azure e basata su tag intelligenti e interattivi, in grado di comunicare tra loro. “Si tratta nello specifico di un sistema di wearable che identifica il posizionamento dell’operatore nello spazio sui tre assi e può essere utilizzato per identificare potenziali pericoli, anche in integrazione con altri sensori, ad esempio per rilevare la presenza di CO2 in una stanza”.
Il secondo obiettivo è il rafforzamento dell’engagement e del senso di appartenenza.
Cosa non semplice visto che molto spesso i blue collar non hanno una identità digitale aziendale e utilizzano molti meno strumenti: come può un’azienda comunicare con loro?
“Deve usare altri touch point, sfruttano in modo intelligente il what’s in for me? Creare dei totem interattivi dove il riconoscimento facciale e vocale, oppure tramite badge, apre a strumenti HR self service come residuo ferie, stampa busta paga, richiesta ferie”.
Nuovi interlocutori per 4ward
Nel suo rapporto con le realtà del manufacturing, 4ward si propone come partner in grado affrontare sia il project sia il change management e soprattutto in grado di supportarle nella definizione di un approccio metodologico.
I suoi interlocutori non appartengono solo alla direzione IT, ma comprendono anche direttori di stabilimento, direttori innovazione, marketing, CFO, “vale a dire tutti i soggetti che sponsorizzano grossi progetti di cambiamento”.
All’IT comunque Parmigiani assegna un ruolo centrale, purché sia forte, visionario, che capisca il giusto di tecnologia. “Deve avere però anche competenze di digital innovation, change management e skill comunicativi. Oggi gli skill tecnici sono sempre meno il fattore reale decisionale, e il rischio per l’IT manager che si ferma al solo aspetto tecnologico è quello di essere esautorato, magari da una funzione marketing”.
Cosa serve al manufacturing?
Parmigiani riconosce che il manufacturing ha un potenziale altissimo: “È forse uno di quei segmenti che potenzialmente produce più dati, ma la capacità di analizzarli è scarsa”.
Per questo non preme particolarmente l’acceleratore sull’intelligenza artificiale.
“Prima di arrivare a parlare di AI devo risolvere una serie di questioni chiave: dove sono i dati, come li raccolgo, dove li metto”.
Parmigiani fa riferimento al paradigma E.T.L. (Extract, Transform Load), quindi integrazione dei dati, estrazione del dato, trasformazione del dato, con focus su pulizia e normalizzazione, e caricamento su una piattaforma che permetta le successive fasi di analisi.
“Per lavorare su sistemi molto eterogenei, servono tecnologie e strumenti adatti. Noi la facciamo con la nostra Data Intelligent Framework, basata su tecnologia Azure. Una volta che i dati sono convogliati e integrati, in punti dove sono mappati e correlati, è possibile avere viste su tutto il ciclo di vita del dato e capire come trasformarlo in un supporto decisionale a valore”.
Nel suo Framework, 4ward prevede anche la possibilità di effettuare correlazioni diverse in base alle funzioni, ad esempio Produzione con il CRM, Customer Support con il Finance: “È possibile personalizzare cruscotti direzionali con tagli e viste diverse a seconda di chi li deve usare. L’idea è che la reportistica non sia né debba o possa essere qualcosa di statico, servono supporti decisionali real time che permettano anche sguardi predittivi, mentre i sistemi di reportistica legacy oggi permettono solo di capire cos’è successo in passato e non ciò che più conta ovvero cosa potrebbe succedere in futuro e quali azioni algoritmi intelligenti possono suggerirci. Per questo il nostro approccio è per una PowerBI self service: se si formano le persone all’utilizzo del servizio e se le si abitua ad utilizzarlo, allora è possibile che siano loro stesse a configurare al meglio lo strumento secondo i loro bisogni”.
Fondamentale preparare il campo
Una volta arrivati alla Business Intelligence as a Service si può cominciare a parlare di Intelligenza Artificiale.
Ma su questo punto Parmigiani è tassativo: “È vero che possono creare applicazioni a supporto delle decisioni, che possono trovare integrazioni con altre applicazioni, che possono pensare ai chatbot o all’analisi dei feedback dei dati provenienti dall’IoT in una logica di azione-reazione. Ma se non ho preparato il campo, se non ho i dati non posso fare nulla”.
“Il problema è che molti hanno in mente la fase finale, ma in realtà sono fermi alla C di Caro amico”, chiosa.