I dati sulla crescita del PIL italiano rilasciati dall’Istat la scorsa settimana hanno suscitato gli entusiasmi della politica e delle associazioni industriali. Una sequenza di pacche sulle spalle ha accompagnato il commento di due numeri. Il primo è il valore di crescita del prodotto interno lordo nel secondo trimestre dell’anno rispetto al primo: +0,4%. Il secondo indica la percentuale di incremento del PIL tra aprile e giugno del 2017 rispetto allo stesso periodo del 2016: +1,5%. L’attesa è che quest’anno il PIL possa crescere almeno dell’1,2%.
Il risultato è senza dubbio positivo ed è buon incoraggiamento per un’Italia impegnata nella corsa per ridurre la distanza con gli altri Paesi europei. Tuttavia l’entusiasmo non deve far dimenticare che i valori del PIL sono ancora distanti da quelli degli anni pre-crisi. L’Italia sta affrontando una lenta e costante risalita, come dimostra l’andamento del PIL nei trimestri dal 2005, ma non ha ancora recuperato le quote a cui viaggiava tra il 2006 e il 2008. Né ha raggiunto la velocità di crociera di alcuni concorrenti.
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Il confronto con l’Europa
In Europa la Germania è cresciuta nel secondo trimestre del 2017 dello 0,6% sui tre mesi precedenti e del 2,1% rispetto allo stesso periodo del 2016. Il PIL della Spagna ha conseguito, rispettivamente, un tasso di crescita dello 0,9% e del 3,1%, la Francia dello 0,5% e dell’1,8%. Tra aprile e giugno il Portogallo è cresciuto del 2,8% rispetto agli stessi mesi del 2016, il Regno Unito dell’1,7%. I dati di Eurostat indicano che la crescita media dell’Europa a 28 nel secondo trimestre del 2017 è stata dello 0,6% rispetto al precedente e del 2,3% anno su anno. Stesso andamento registra anche l’area euro: +0,6% e 2,2%.
Una strada lunga
Bene quindi, ma non benissimo. Basta confrontare i volumi del PIL nei mesi scorsi. Nel primo trimestre del 2013, quando si piangeva un calo annuo del 2,9%, il prodotto interno lordo valeva 384.047 milioni di euro. Nel secondo trimestre del 2017, quando si stappano bottiglie per un +1,5%, il volume è di 397.458 milioni. Il diciotto mesi il valore mensile è variato di 13.501 milioni.
In un’intervista a Repubblica, il capo economista di Nomisma, Andrea Goldstein, ha smontato i facili entusiasmi della politica: “Se si guarda il resto dell’Europa, solo con un tasso annuo che arrivi almeno al 2% non diventeremmo relativamente più poveri rispetto agli altri. E’ un obiettivo che dipende anche dalla qualità delle infrastrutture, delle istituzioni, dalla rigidità dei mercati, dall’incidenza delle rendite: tutte piccole differenze che rendono il processo di crescita più faticoso da noi rispetto a Paesi come la Francia e la Germania”.
Il ruolo di Industria 4.0
Secondo l’analisi dell’Istat, “la variazione congiunturale è la sintesi di un aumento del valore aggiunto nei comparti dell’industria e dei servizi e di una diminuzione nel settore dell’agricoltura. Dal lato della domanda, si registra un apporto positivo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e un limitato contributo negativo della componente estera netta”.
L’andamento positivo del manifatturiero riflette i risultati dei primi mesi del piano industria 4.0, perché gli investimenti interni hanno colmato la necessità di vendere all’estero, che negli scorsi anni aveva invece consentito di controbilanciare un mercato interno asfittico. E il contributo dalla rivoluzione digitale può ancora continuare, perché secondo una stima del presidente di Confindustria giovani, Marco Gay, “Industria 4.0 può valore fino a 4 punti di PIL per le imprese”. Nella definizione delle politiche economiche del Paese, bisognerà tenere a mente il contributo dell’impresa al recupero di valori del PIL.
Fase due
Sarà quindi decisiva la fase due del piano nazionale, su cui si attendono lumi a settembre, in coincidenza con il G7 dell’industria a Torino. Finora il programma ha agito attraverso la leva dello sconto fiscale, tuttavia la spinta al rinnovamento che può derivare da super e iperammortamenti non è inesauribile.
Per questo serve che una nuova spinta arrivi da una cultura di impresa radicalmente convinta della rivoluzione 4.0 e su questo dovrà intervenire la creazione dei competence center, poli di innovazione in cui lavorano gomito a gomito università, centri di ricerca e imprese. Non dovranno essere semplici showroom di quanto innovativo già esiste, né essere gravati da burocrazia o da logiche clientelari. Al contrario, bisogna insistere perché comunichino una mentalità da Silicon Valley in quei settori in cui l’Italia eccelle.
Altro capitolo da affrontare è quello del lavoro. Anche se a giugno scorso è calata la disoccupazione, sono aumentati in parallelo gli inattivi (i cosiddetti Neet). Perché la ricchezza generata da un’economia in ripresa arrivi nelle tasche delle famiglie, è opportuno che la crescita interessi anche chi cerca occupazione. Ed è il momento che al piano industria 4.0 se ne affianchi uno sul lavoro 4.0, per stabilire gli indirizzi sulla formazione e consolidare la ripresa di questo settore.