Dalle colonne de Il Sole 24 Ore l’economista Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison e vicepresidente del Comitato Scientifico della Fondazione Edison, lancia l’appello al Governo Meloni affinché riprenda lo spirito originario del piano Industria 4.0 ripartendo dal 2016, rilanciandolo “in tutto il suo potenziale”, anziché “lasciarlo morire” come invece sta accadendo.
L’analisi di Fortis è, come sempre, attenta e documentata. Dopo una breve ricostruzione storica delle vicissitudini del piano attraverso le diverse stagioni politiche dal 2016 a oggi, l’economista si sofferma sui benefici garantiti dal piano alle imprese, partendo però da una considerazione: le imprese hanno ancora bisogno del piano Industria 4.0 (oggi Transizione 4.0)
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Perché gli incentivi sui beni strumentali servono ancora alle imprese
I politici – dice Fortis – muovono dall’assunto errato che ormai le imprese hanno investito in beni strumentali e quindi si possa passare a una nuova fase del piano focalizzata sul digitale e sulla formazione.
Niente di più sbagliato, scrive. In primo luogo perché solo alcune imprese hanno approfittato del piano per investire in nuovi macchinari. In particolare molte PMI “non hanno ancora nemmeno fatto il semplice salto dai vecchi beni strumentali a quelli a controllo numerico”, osserva. “Perché dunque precludere alle realtà aziendali meno pronte e meno forti finanziariamente, oppure uscite in ritardo dalle ripetute crisi degli ultimi anni, pandemia compresa, di comprare nuove macchine come chi ha già potuto farlo prima?”, scrive Fortis.
Che quindi immagina un’Italia in cui il piano diventi strutturale e in cui, gli incentivi per l’acquisto di beni strumentali siano permanenti e affianchino quelli per il digitale e la formazione.
Il piano, insomma, dovrebbe “proseguire indefinitamente e ripartire da dove esso è cominciato”.
I benefici del piano
I benefici portati finora dal piano sono importanti e Fortis ne cita alcuni.
Il primo è il valore medio del consumo di macchinari da parte delle aziende manifatturiere italiane. Nel periodo 2008-2015 il consumo italiano medio è stato di circa 17 miliardi/anno, mentre nel quadriennio 2016-2019, grazie a super e iperammortamento, si è passati a 24,5 miliardi annui e nel periodo 2020-2023 dovrebbe raggiungere i 28 miliardi/anno.
La crescita del consumo – prosegue Fortis – ha inoltre generato crescita per i costruttori italiani di beni strumentali, a cui si è rivolto i 2/3 degli acquisti, creando un “circolo virtuoso straordinario”, anche perché “gli stessi produttori di macchine industriali hanno comprato nuove macchine per produrre le nuove macchine che venivano loro richieste dai settori a valle”.
L’ultimo dato riguarda i benefici al Paese. “È in gran parte grazie al Piano Industria 4.0 che la manifattura italiana in questi ultimi sette anni è cresciuta di più di quelle di Germania, Francia e Spagna, in termini di valore aggiunto, produttività, export”, scrive Fortis, notando anche come anche la ripresa del PIL del 2021 sia stata in gran parte spinta da una manifattura 4.0 (e quindi dagli effetti del piano).
Il nodo dei costi
Nell’interessante analisi di Fortis manca però l’analisi dei costi del piano, che purtroppo è l’elemento che, più dei credo ideologici della Politica, ha indebolito il piano nella sua versione attuale, che per il triennio 2023-2025 prevede aliquote dimezzate per i beni 4.0 e la ricerca e sviluppo e niente più incentivi all’acquisto di beni non 4.0 e alla formazione.
Che Fortis non abbia parlato di quanto stia costando il piano alle casse dello Stato è un peccato perché è proprio con l’analisi costi benefici che si potrebbe convincere la Politica a investire nuove risorse dalle casse dello Stato. Cosa che l’Italia non sta più facendo come prima.
Dopo il lancio del piano da parte di Carlo Calenda nel 2016, i ripensamenti della gestione di Luigi Di Maio e il rilancio sotto forma di Transizione 4.0 da parte del ministero di Stefano Patuanelli, il Governo ha potuto infatti approfittare del “bonus” del PNRR per investire 13,4 miliardi su questo tema, concentrandoli tutti nel biennio 2021-2022. Terminata questa finestra il governo guidato da Mario Draghi ha messo in cantiere con un anno di anticipo (fortunatamente) un rinnovo “basic”, lasciando alla legge di bilancio per il 2023 il compito di trovare le risorse per un suo rilancio. Risorse che l’attuale governo a guida Giorgia Meloni non ha potuto o voluto trovare.
Oggi il Governo sta spiegando che di quei 13,4 miliardi ci sarebbe un avanzo di circa 3 miliardi che potrebbero servire a rivitalizzare un piano che ha per il resto centrato gli obiettivi servendo circa 120.000 imprese. Ma bisogna fare i conti con le regole del PNRR, che non prevedono la possibilità di riallocare risorse non spese. Sulla questione è in corso una interlocuzione tra Governo e UE il cui esito non è scontato e che, in ogni caso, non cambia lo scenario. Primo: ad oggi il piano esiste, ma è dimezzato, e una sua rivitalizzazione a metà anno sarebbe certamente la benvenuta, ma sicuramente rappresenterebbe una “toppa” a un buco già fatto. Secondo, resta il fatto che il Governo ha fatto intendere che le priorità del Paese sono altre e che l’industria debba cavarsela con i propri mezzi.