L’avvento della tecnologia ha significativamente migliorato le condizioni di salute e sicurezza sul lavoro: si pensi ai robot che hanno sostituito gli operatori nelle mansioni più pericolose, oppure agli esoscheletri, che supportano il lavoratore nell’eseguire operazioni che comportano uno stress fisico molto alto.
Accanto a questi e a molti altri benefici, la sempre maggiore interazione dell’uomo con le tecnologie digitali solleva nuove sfide nel campo della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. A cambiare, infatti, non sono solo i processi produttivi, ma anche i bisogni dei lavoratori e i rischi per la loro salute.
Il tema è stato oggetto di un lavoro di ricerca, durato due anni, realizzata dal Centro Studi Deal e da Fondazione Adapt, sotto la direzione scientifica di Michele Tiraboschi, con il cofinanziamento di Inail. Una ricerca che ha prodotto 8 volumi accessibili gratuitamente, che parlano dei cambiamenti introdotti dall’avvento della rivoluzione dell’Industria 4.0 al nostro modello produttivo e alle sfide che le aziende e i legislatori si trovano ad affrontare per garantire la tutela della salute dei lavorati.
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Come cambia il concetto di salute nella quarta rivoluzione industriale
Lavoratori che assumono un ruolo diverso all’interno del processo produttivo rispetto al passato, ma non per questo meno importante: nell’Industria 4.0 l’automazione del processo produttivo non porta all’esclusione dell’uomo, ma alla sua connessione all’interno di un ecosistema intelligente. Non sono solo i macchinari a parlare tra di loro, ma vi è un costante dialogo tra macchine e uomo.
Nella smart production si creano nuove forme di collaborazione tra uomo e macchine, che portano all’ottimizzazione di tutto il processo produttivo e all’emergere di nuovi processi finalizzati alla personalizzazione di massa dei prodotti.
Il rapporto tecnologia-lavoro viene inquadrato in un’ottica di complementarietà, con la prima che diventa strumento funzionale all’intelligenza e alla creatività dell’uomo e processi quali la progettazione e l’ideazione che sono sempre più orizzontali e non collocati in funzioni distaccate all’interno delle organizzazioni.
Un rapporto che è destinato a intensificarsi nel futuro, sotto la spinta di un progresso tecnologico che sarà sempre più rapido. Basti pensare che secondo le stime dell’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro, il numero di dispositivi in grado di interagire autonomamente con le attività umana e di realizzare comunicazioni macchina-macchina è destinato a raggiungere entro il 2020 il numero di 50 miliardi.
A cambiare, tuttavia, non sono soltanto i processi produttivi: cambiano gli spazi di lavoro, grazie alla possibilità di poter svolgere alcune professioni anche da remoto e il ricorso sempre più frequente alle piattaforme e ad altri strumenti di smart working. Cambia anche la nozione stessa di salute del lavoratore, non più collegata solamente al discorso di infortunio e malattia professionale intesa in senso fisico, ma anche alla dimensione psicologica.
Il dibattito, in questo ambito, si è intensificato dopo il ricorso massivo al lavoro da remoto come strumento di contenimento della pandemia, che ha portato alla luce le sfide alla salute mentale dei lavoratori sollevate da un ambiente lavorativo sempre più connesso. Ecco quindi che la disconnessione da queste tecnologie diventa un diritto del lavoratore e anche le normative a tutela della sua salute dovranno integrare questo aspetto.
Ma la sicurezza cambia anche all’interno degli spazi fisici di lavoro: se le tecnologie dell’automazione industriale, come i robot tradizionali e i cobot, hanno ridotto i rischi legati allo svolgimento di determinati compiti pericolosi da parte dell’uomo, non devono essere trascurati i rischi connessi all’utilizzo di macchine sempre più autonome, in grado di modificare il loro comportamento all’interno dell’ambiente di lavoro (grazie all’Intelligenza Artificiale e all’apprendimento automatico) senza che sia necessario l’intervento dell’uomo.
Va ripensata quindi la valutazione del rischio all’interno della fabbrica, tendendo conto di tutta una serie di fattori: dagli incidenti che possono verificarsi in un ambiente dove macchine e uomo dividono lo spazio fisico, alle ripercussioni sul copro del lavoratore connesse al “potenziamento” della sua fisicità attraverso l’utilizzo delle macchine, alle ripercussioni psicologiche che derivano dalla presenza delle tecnologie dell’automazion, come la paura di essere sostituiti.
Perché è necessario ripensare i concetti di welfare e tutela del lavoratore
Tuttavia, il dibattito inerente la sicurezza sul lavoro nell’Industria 4.0 non può limitarsi all’interazione dell’uomo con le tecnologie. L’avvento della quarta rivoluzione industriale, infatti, ha segnato una rottura con il paradigma lavorativo ford-taylorista, in cui il lavoro viene visto principalmente come mezzo di sostentamento. Nella società della conoscenza e dell’informazione, in cambio, il lavoro assume un ruolo importante nell’ambito della realizzazione dell’individuo come persona.
Cambiano le relazioni all’interno del mercato del lavoro, caratterizzato da una mobilità maggiore, e cambiano i mercati stessi, ora non più legati ai vincoli geografici. I lavoratori si spostano, da un azienda all’altra, tra diversi settori e diversi paesi e si rende necessario quindi cambiare l’approccio della normativa a tutela della salute del lavoratore, da una ricerca di tutela che non può essere più ancorata alla singola organizzazione, ma che deve essere al contrario incentrata sulla persona.
A mancare non sono le norme, come puntualizza Michele Tiraboschi, Coordinatore scientifico di Adapt. Ovviamente la disciplina dovrà aggiornarsi, tenendo conto delle nuove sfide che caratterizzano questa rivoluzione industriale e superando, si spera, la dicotomia tra infortunio e malattia professionale, che ancora ad oggi porta a trascurare alcuni aspetti della tutela della salute del lavoratore.
Le norme, tuttavia, non saranno sufficienti senza la presenza dei necessari presidi negli ambienti di lavoro, ovvero di persone dotate delle giuste competenze. Questo è uno dei punti cruciali, perché in un ecosistema di lavoro sempre più digitalizzato e connesso c’è bisogno di persone che sappiano capire queste connessioni, che comprendano gli aspetti chiave delle interazioni tra uomo e macchina, che siano in grado di valutarne i rischi e adottare le giuste precauzioni.
Competenze che non si limitano a quelle strettamente tecniche. L’automazione e la sostituzione dei lavori manuali, al contrario, richiedono competenze diverse e complementari tra di loro, dalla conoscenza in dettaglio dei processi produttivi alla gestione delle risorse umane in situazioni di crisi senza dimenticare, al tempo stesso, le competenze specifiche necessarie per un determinato ruolo.
Quello dell’Industria 4.0 è un ambiente complesso in cui i processi decisionali non possono avvalersi unicamente degli strumenti messi a disposizione dalle tecnologie, ma dove l’esperienza dell’uomo assume un ruolo ancora più importante. Ecco perché si parla di un approccio antropocentrico alla produzione e di human augmentation, ovvero di una tecnologia che non sostituisce l’uomo, ma che ne arricchisce la conoscenza attraverso informazioni sempre più accurate e lo guida verso decisioni più consapevoli.
Ed è questa la sfida da affrontare in ambito di sicurezza sul lavoro e tutela della salute del lavoratore: ripensare il sistema in un’ottica di cura della persona, tenendo conto di tutti i cambiamenti introdotti dalla quarta rivoluzione industriale e dei loro effetti sulle relazioni all’interno e all’esterno degli ambienti lavorativi.