Nel corso del settennato (2011-2018) l’introduzione di robot industriali non ha prodotto effetti negativi sul tasso di occupazione, anzi ha contribuito (seppur in misura contenuta) alla riduzione del tasso di disoccupazione. È quanto emerge dallo studio “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics”.
Lo studio è stato curato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), dell’Università di Trento e dell’Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT), e verrà presentato nell’ambito del Workshop “Firms and Workers at the Crossroad: Automation and Market Power”, che si svolgerà a Trento in videoconferenza il 6 maggio, in occasione della chiusura dell’omonimo progetto di ricerca finanziato dalla Fondazione Caritro di Trento.
Il risultato dell’indagine mette in luce importanti differenze legate alle mansioni dei lavoratori. Infatti, da un lato, le categorie occupazionali potenzialmente esposte al rischio di sostituzione da parte dei robot industriali non sembrano nel loro complesso aver risentito dell’introduzione di questi ultimi.
Dall’altro, i posti di lavoro destinati agli “addetti ai robot“, ossia a tutte quelle figure professionali che, a diversi livelli, si occupano della programmazione, dell’installazione e della manutenzione dei robot, sono aumentati di circa il 50% in poco meno di dieci anni, con un aumento significativamente maggiore nelle aree caratterizzate da un ricorso più intenso ai robot industriali.
In particolare, lo studio evidenzia che un aumento dell’1% nell’adozione di robot porta a un incremento di 0,29 punti percentuali nella quota locale di operatori di robot, un effetto tale da poter spiegare interamente l’aumento di circa il 50% di questi lavoratori. Questo risultato è coerente con l’idea secondo cui se le imprese investono di più nei robot, il numero di lavoratori che svolgono le attività complementari cresce a sua volta: tale fenomeno è noto come reinstatement effect.
Inoltre, nel corso dell’ultimo decennio, l’introduzione di robot industriali nel nostro Paese pare non abbia generato neanche una contrazione delle occupazioni ad elevato contenuto routinario. Al contrario, i risultati dell’indagine suggeriscono che nelle zone a più intensa robotizzazione la quota di occupazioni routinarie di tipo cognitivo sia addirittura aumentata.
Se l’impatto dei robot sulle occupazioni di carattere routinario risulta irrilevante, lo stesso non può dirsi per le occupazioni che richiedono sforzi di natura fisica al lavoratore. In particolare, l’introduzione di robot sembra aver contribuito a ridurre in misura statisticamente significativa il peso relativo delle occupazioni che prevedono un intenso impegno del busto e, in particolare, dei muscoli addominali e lombari.
Essa risulta invece aver favorito la crescita, seppur in modo più debole, della quota di professioni associate al controllo e all’utilizzo di macchinari e, in generale, complementari ai processi di automazione.
Nel loro insieme, i risultati dell’analisi rivelano la natura complessa della relazione esistente tra robotizzazione e dinamiche del mercato del lavoro. Infatti, se da una parte è innegabile che l’introduzione di robot porti all’automazione di attività per le quali era in precedenza necessario l’impiego di lavoro umano, è altrettanto vero che ogni occupazione consta di numerose attività diverse e solo poche di queste possono essere eseguite in maniera autonoma dai robot.
“Questa indagine è molto significativa perché dimostra che non bisogna avere paura dei robot, che possono costituire più un’opportunità che uno svantaggio per il mondo del lavoro. I robot già ora rendono il lavoro più efficiente e al tempo stesso esonerano le persone da compiti ripetitivi, poco qualificanti e usuranti, permettendo loro di occuparsi di mansioni più gratificanti (e produttive)”, spiega il Sebastiano Fadda, Presidente dell’INAPP.
“Tuttavia, – continua Fadda – resta appeso il tema di tutte quelle occupazioni che vanno riqualificate con un profondo reskilling proprio per l’utilizzo dell’automazione e dell’Intelligenza Artificiale”.
Un reskilling che diventa necessario per evitare un conflitto tra robot e lavoratori simile a quello che ha coinvolto capitalisti e operai nel secolo scoro. “Bisogna impegnarsi nell’elaborare appropriate strategie affinché la riduzione dei coefficienti tecnici di produzione, legata alle nuove tecnologie, non dia luogo al fenomeno della disoccupazione tecnologica”, conclude.
Strategie che dovranno essere fondate da analisi empiriche di questi fenomeni globali, sottolinea Fadda, anche in virtù dei cambiamenti indotti dalla pandemia.