È come se innovazione, trasformazione digitale e Industria 4.0 in Italia cercassero di procedere con il freno a mano tirato. Questo freno è rappresentato da una questione critica per il Paese: la mancanza – che si rivela sempre più cronica – dei profili professionalizzanti, i diplomati degli istituti tecnici e professionali che hanno rappresentato storicamente l’ossatura della forza lavoro delle attività produttive dell’industria italiana. Troppi specialisti sono introvabili per il gap di competenze, tra quelle richieste e attese dalle imprese a quelle possedute dai giovani diplomati.
La carenza di profili tecnici qualificati, che frena la crescita industriale dell’Italia, può essere affrontata su tre piani diversi, ma tra loro collegati: orientamento, alternanza scuola-lavoro e filiera terziaria professionalizzante.
Nel 2020, nel settore dell’elettronica e dell’elettrotecnica il 54% dei profili necessari e cercati dalle aziende è rimasto scoperto e senza trovare tecnici e operatori adeguati; nel comparto amministrativo, marketing e finanza i profili rimasti scoperti e vacanti sono stati il 52% del totale; mentre nel mondo chimico e delle biotecnologie questa preoccupante percentuale è stata del 43% sulle richieste complessive.
Il quadro si completa con i profili rimasti scoperti e introvabili nelle attività di grafica e comunicazione (il 48% delle richieste), mentre il record negativo è quello di turismo e ospitalità, settore dove il 56% dei profili e professionisti cercati non ha trovato candidati e profili adeguati. A descrivere questo scenario allarmante, per il mondo delle imprese e del lavoro, e per la crescita dell’intero Paese, è il Centro Studi di Confindustria, che ha elaborato dati Istat ed Excelsior, incrociando la domanda di specializzazioni e profili professionalizzanti da parte delle aziende e l’offerta che arriva dai giovani e dal mondo della formazione.
Ecco invece i numeri che riguardano i diplomati assunti per la loro tipologia di diploma nel corso del 2017: l’Industria ha assunto per il 63% diplomati degli istituti tecnici (in totale 750 mila), il 21% da istituti professionali (260 mila assunti), e per il 16% del totale dai licei (188 mila assunzioni). Il settore dei Servizi ha invece reclutato per il 58% profili da istituti tecnici (930 mila), il 27% di provenienza dai licei (426 mila), e il 15% dalle scuole professionali (246 mila).
In ogni caso, sono ancora pochi, troppo pochi. “L’istruzione professionalizzante include i seguenti istituti: professionale per settore industria e artigianato; professionale per settore servizi; tecnico per settore economico; tecnico per settore tecnologico”, rimarca il Centro Studi Confindustria, in collaborazione con l’Area Lavoro, Welfare e Capitale umano.
La loro analisi, dal titolo ‘Le professionalità che servono al sistema produttivo’, sottolinea: “l’elemento che accomuna le imprese manifatturiere e quelle dei servizi è la preferenza rilevata da parte di entrambi i settori per i diplomi di tipo professionalizzante”, e inoltre “la Manifattura mostra una particolare predilezione per i diplomati tecnici con 2 dipendenti su 3, mentre i Servizi manifestano anche uno spiccato gradimento per i liceali, nel 27% delle scelte d’impiego”.
Un’altra evidenza è questa: “l’innalzamento nel medio periodo della qualità complessiva dell’istruzione degli istituti tecnici – per allineare i punteggi nei test cognitivi ai livelli dei licei – rappresenta un obiettivo fondamentale per rilanciare l’attrattività degli istituti professionalizzanti, definiti anche Vocational”. Secondo queste analisi di Confindustria, si può “restituire a tutti gli istituti tecnici il ruolo trainante per l’economia locale, mettendo a fattor comune le buone pratiche di scuole tecniche eccellenti sparse nei territori, ma comunque resilienti, come in passato”, quando hanno lanciato il Made in Italy nel mondo durante il ‘miracolo economico’.
Il legame tra formazione e manifattura nel territorio
L’istruzione secondaria superiore a orientamento professionalizzante è finalizzata a trasmettere conoscenze teoriche e a sviluppare abilità pratiche tali da forgiare un diplomato in uscita con competenze specifiche e quindi con sbocchi professionali ben identificabili.
In occasione della European Vocational Skills Week, nel novembre scorso, Eurostat ha pubblicato una mappatura della diffusione del Vocational nelle regioni europee: la quota più alta, con il 76%, si registra in Repubblica Ceca, che è più di 4 volte superiore rispetto a Cipro, la cui quota è la più bassa (17%).
Partendo dai dati regionali, il Centro Studi Confindustria ha analizzato il legame tra intensità del Vocational e la vocazione manifatturiera del territorio: le evidenze empiriche mostrano che le regioni europee a più alta specializzazione manifatturiera mostrano allo stesso tempo un’elevata quota di studenti iscritti all’istruzione professionalizzante. In Italia spicca la posizione di Veneto, Marche, Emilia Romagna, Friuli e Piemonte per l’elevato valore sia della intensità manifatturiera sia del Vocational.
La stessa analisi applicata sulle province italiane conferma l’esistenza di questo tipo di legame, per cui la scelta del percorso di studio appare piuttosto allineata con la vocazione produttiva dei territori, con Vicenza, Belluno e Treviso a guidare queste tendenze.
Guardando più indietro nel tempo, dal Dopoguerra ai giorni nostri, l’analisi di scenario rileva che l’ampia disponibilità di diplomati a orientamento professionalizzante ha accompagnato il processo di industrializzazione dell’economia italiana dalla fase di ricostruzione del Dopoguerra fino al miracolo economico e conseguente processo di convergenza dell’Italia rispetto alle principali economie avanzate.
La quota di diplomati di tipo professionalizzante sul totale dei diplomati era il 60% negli anni Cinquanta e ha toccato poi il punto di massimo assoluto (77,5%) durante il Boom economico degli anni Settanta, quando l’incidenza dell’industria raggiunse il picco del 44% in termini di quota di addetti.