La pandemia ha decuplicato gli smart worker italiani: ecco che cosa è successo nelle aziende

Il Report dell’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano descrive lo sviluppo vorticoso del Lavoro agile: da circa mezzo milione a oltre 6 milioni di Smart worker in Italia in meno di un anno. L’esperienza vissuta ha creato nuove abitudini e aspettative nei lavoratori e ha fatto maturare nelle organizzazioni nuove consapevolezze sul modo di lavorare. Tutto questo si dovrà tradurre in un diverso approccio al lavoro che caratterizzerà il ‘new normal’.

Pubblicato il 03 Nov 2020

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Prima, per anni, è stata un’opportunità spesso trascurata se non addirittura snobbata da molti, moltissimi. Ora tutti guardano allo Smart working – tradotto nel linguaggio italiano in ‘Lavoro agile’ – come a una delle risorse fondamentali per fare funzionare l’economia e le aziende.

Le tecnologie necessarie e sufficienti c’erano già tutte. E da un pezzo. Come sappiamo bene, da una tragedia mondiale come la pandemia di Covid 19 è arrivata la spinta, lo slancio, che nel giro di poche settimane ha trasformato lo Smart working da ‘brutto anatroccolo’ a ‘principe’ del lavoro di oggi e di domani. Il virus ha, di fatto, decuplicato in poco tempo gli Smart worker italiani.

Qual è la realtà e come stanno le cose ora? Il punto della situazione arriva dall’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano, e dal suo Report dedicato al settore. Secondo i dati dell’Osservatorio, durante la fase più acuta dell’emergenza lo Smart working ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle Pmi. Per un totale di oltre 6 milioni e mezzo di lavoratori agili, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, e oltre dieci volte più dei 570mila censiti nel 2019.

Nel settembre scorso, tra rientri consigliati e obbligatori, difficoltà e incertezze nell’apertura delle sedi di lavoro, gli Smart worker sono scesi a 5 milioni: in media i lavoratori nelle grandi aziende private hanno lavorato da remoto per la metà del loro tempo lavorativo (circa 2,7 giorni a settimana), nel pubblico 1,2 giorni a settimana.

Ma lo Smart working è ormai entrato nella quotidianità degli italiani e destinato a rimanerci: al termine dell’emergenza si stima che i lavoratori agili, che lavoreranno almeno in parte da remoto, saranno complessivamente 5,3 milioni. Per adattarsi a questa ‘nuova normalità’ del lavoro il 70% delle grandi imprese aumenterà le giornate di lavoro da remoto, portandole in media da uno a 2,7 giorni alla settimana, una su due modificherà gli spazi fisici. Nelle P.A. saranno introdotti progetti di Smart working (48%), aumenteranno le persone coinvolte nei progetti (72%) e si lavorerà da remoto in media 1,4 giorni alla settimana (47%), rispetto alla giornata media attuale.

“L’emergenza Covid19 ha accelerato una trasformazione del modello di organizzazione del lavoro che in tempi normali avrebbe richiesto anni, dimostrando che lo Smart working può riguardare una platea potenzialmente molto ampia di lavoratori, a patto di digitalizzare i processi e dotare il personale di strumenti e competenze adeguate”, rimarca Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart working.

Che sottolinea: “ora è necessario ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio Smart working, che deve prevedere maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, elementi fondamentali a spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Criticità e benefici dello Smart working nell’emergenza

Le modalità di lavoro sperimentate durante l’emergenza sono state per certi versi più vicine al telelavoro che a un vero Smart working. Il 30% dei lavoratori ha incontrato difficoltà a separare il tempo del lavoro e quello privato, e a mantenere un equilibrio fra i due aspetti, oltre a sperimentare una sensazione di isolamento nei confronti dell’organizzazione nel suo insieme (29%). Il difficile work-life balance è stata anche la prima barriera da superare per le grandi imprese (58%), seguita dalla disparità del carico di lavoro fra alcuni lavoratori meno impegnati e altri sovraccaricati (40%), dall’impreparazione dei manager a gestire il lavoro da remoto (33%) e limitate competenze digitali del personale (31%).

Fonte: Osservatorio Smart working

Nonostante queste forzature e difficoltà, le organizzazioni riconoscono anche evidenti benefici. Nelle grandi imprese sono migliorate le digital skills dei dipendenti (71%), sono stati accantonati pregiudizi sul lavoro agile (65%), ripensati i processi aziendali (59%) ed è aumentata la consapevolezza sulla capacità di resilienza della propria organizzazione (60%). Analizzando l’impatto sull’insieme dei lavoratori, la grande maggioranza degli Smart worker rileva un effetto positivo del lavoro da remoto sulle performance dell’organizzazione: il 73% ritiene buona o ottima la propria concentrazione nelle attività lavorative, per il 76% è aumentata l’efficacia, per il 72% l’efficienza e per il 65% ha portato innovazione nel lavoro.

Le iniziative sulle tecnologie digitali in emergenza

Nel trovarsi a doversi organizzare per il Lavoro agile, molte realtà aziendali si sono trovate impreparate e in ritardo. E in molti casi si è dovuti correre in fretta ai ripari. Nelle grandi imprese il 69% del totale ha aumentato la dotazione di hardware, di sistemi per l’accesso sicuro da remoto ai dati e alle applicazioni aziendali – ad esempio Vpn – (65%), e di strumenti per la collaborazione e comunicazione (45%). Il 38% ha dato ai lavoratori la possibilità di utilizzare i propri dispositivi personali per lavorare (in logica Bring Your Own Device); questa scelta spesso si è affiancata alla decisione di integrare la dotazione aziendale per consentire di lavorare a un numero più ampio di persone con attività compatibili, in attesa che le dotazioni fossero disponibili. Gli strumenti introdotti in misura maggiore a seguito dell’emergenza sono stati i computer portatili nel 26% dei casi, seguiti dagli strumenti per effettuare web conference e chat (16%). Per quanto riguarda le Pmi, il 50% non ha attivato nessuna iniziativa riguardante la dotazione tecnologica: si tratta in particolare di quelle realtà in cui le attività sono state sospese durante il Lockdown. Tra le iniziative attivate vi sono l’aumento della dotazione hardware (15%), di software per la collaborazione a distanza (14%), di sistemi per l’accesso sicuro da remoto (14%).

Gli Smart worker durante il lockdown

Il numero di lavoratori che durante il lockdown hanno sperimentato il lavoro agile cambia a seconda della dimensione e della tipologia di organizzazione. Sono stati 2 milioni (il 54% dei dipendenti) nelle grandi imprese, che nel 97% dei casi hanno dato questa possibilità a una parte dei propri collaboratori, significativa l’adozione soprattutto nei settori finance e ICT e un po’ meno nel retail e nel manifatturiero. E sono state coinvolte professionalità prima ritenute incompatibili con questo modello di lavoro: nel 33% delle grandi imprese hanno lavorato da remoto per la prima volta gli operatori di call center, nel 21% gli addetti allo sportello hanno lavorato da casa riconvertendo una parte delle attività e comunicando digitalmente con i clienti, nel 17% è stato applicato il lavoro da remoto anche a operai specializzati digitalizzando l’accesso ai macchinari.

Con la fine del Lockdown e l’inizio della fase 2 della gestione dell’emergenza aziende e PA hanno gradualmente iniziato a riaprire gli uffici, riadattando spazi e orari per mantenere il distanziamento, integrando il lavoro in sede con il lavoro da remoto. Per facilitare il rientro in sicurezza le principali iniziative sono state l’introduzione di regole e linee guida sull’utilizzo degli ambienti (per il 91% delle grandi imprese e il 78% delle PA), la definizione di un piano di rientro delle persone con turni per i team di lavoro (88% e 69%), e l’introduzione di segnaletica per orientare i flussi e incentivare comportamenti sicuri (81% e 64%). Il 72% delle grandi aziende e il 46% delle PA ha lasciato autonomia riguardo al numero di giornate di lavoro agile, ma con procedure per non superare il limite di persone imposto dalla necessità di distanziamento.

Solo una minoranza di Pmi ha previsto azioni per il rientro in ufficio. Il 24% ha introdotto regole o linee guida sull’utilizzo degli ambienti, il 23% segnaletica o cartellonistica per orientare i flussi di persone e per la promozione di comportamenti sicuri, il 21% ha concesso maggiore flessibilità in entrata e in uscita e ha definito un piano di rientro dei lavoratori, il 16% ha dovuto chiudere alcune aree della sede e il 15% ha modificato l’ambiente di lavoro.

Lo Smart working per il ‘new normal’

L’esperienza vissuta ha creato nuove abitudini e aspettative nei lavoratori e ha fatto maturare nelle organizzazioni nuove consapevolezze sul modo di lavorare. Tutto questo si dovrà tradurre in un diverso approccio al lavoro che caratterizzerà il ‘new normal’. Al termine dell’emergenza, il 36% delle grandi imprese modificherà le caratteristiche del progetto di Smart working già in essere (l’emergenza ha fatto emergere i limiti in termini di persone coinvolte e di policy organizzative), e agirà sulla digitalizzazione dei processi. La PA si preparerà al ‘new normal’ introducendo progetti di Smart working (48%) digitalizzando processi e attività (42%) e aumentando la dotazione tecnologica dei propri dipendenti (35%). I progetti di Smart working che le aziende andranno a delineare nei prossimi mesi hanno quindi caratteristiche diverse rispetto a quelli che sono stati sviluppati fino a ora.

Al termine dell’emergenza si stima un consolidamento e una leggera crescita del numero di Smart worker rispetto ai numeri di settembre; per le grandi imprese si stimano circa 1,7 milioni di lavoratori, analogamente per le Pmi 920mila e per le microimprese 1,2 milioni. Infine, per le PA il trend di crescita è maggiore, e i lavoratori da remoto si stima saranno pari a 1,4 milioni. Nel complesso gli Smart worker al termine dell’emergenza saranno 5,3 milioni, con numeri comunque decuplicati rispetto a soltanto un anno fa.

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Stefano Casini

Giornalista specializzato nei settori dell'Economia, delle imprese, delle tecnologie e dell'innovazione. Dopo il master all'IFG, l'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Milano, in oltre 20 anni di attività, nell'ambito del giornalismo e della Comunicazione, ha lavorato per Panorama Economy, Il Mondo, Italia Oggi, TgCom24, Gruppo Mediolanum, Università Iulm. Attualmente collabora con Innovation Post, Corriere Innovazione, Libero, Giornale di Brescia, La Provincia di Como, casa editrice Tecniche Nuove. Contatti: stefano.stefanocasini@gmail.com

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