Il 23 giugno i cittadini britannici voteranno un referendum per decidere se uscire dall’Unione Europea. Il Regno Unito non è tra i Paesi fondatori della Comunità Economica Europea (vi aderì nella prima operazione di allargamento nel 1973) e non ha mai amato le limitazioni di sovranità che un organismo sovranazionale come l’Unione richiede, al punto da non essere mai entrata a far parte dell’Unione monetaria. Il suo spirito indipendente e l’amore per la Sterlina sono la “logica” conseguenza di una storia importante, che ha visto la Gran Bretagna dettar legge sul piano economico finanziario per diversi secoli fino alla seconda guerra mondiale.
L’euroscetticismo britannico, del resto, non è una voce isolata in Europa: l’estensione dell’Unione senza prima gettare le basi per una realtà consolidata anche sul piano politico ha sicuramente contribuito alla diffusione del “mal di pancia”.
Chi pensa però che del Regno Unito gli Europei possano fare tranquillamente a meno (e che loro possano fare a meno di noi) commette un grossolano errore di valutazione. Innanzitutto perché Londra è ancora il cuore finanziario dell’Europa. In secondo luogo perché rappresenta il più forte alleato degli Stati Uniti in Europa e il naturale punto di mediazione tra le istanze delle due sponde dell’Atlantico.
Ma al di là di queste motivazioni di carattere finanziario e geopolitico, ve ne sono altre di natura prettamente economica: secondo uno studio della Bertelsmann Stiftung in collaborazione con l’Ifo Institute di Monaco, la Brexit potrebbe costare ai contribuenti inglesi circa 313 miliardi di Euro con il PIL in contrazione del 14% nell’arco di 12 anni. E le cose non andrebbero bene nemmeno per gli Europei: lo stesso studio rileva come la Germania soffrirebbe un impatto negativo sul PIL compreso tra 8,7 e 58 miliardi di euro, con conseguenze pesanti per settori come l’automotive, con perdite stimate intorno al 2%, l’elettronica, il siderurgico e l’alimentare.
E l’Italia? Nel 2015 il Belpaese ha esportato nel Regno Unito beni e servizi per un valore di 22,5 miliardi di euro (pari al 5,4% dell’export totale) e ha importato beni per 10,6 miliardi di euro, con un saldo commerciale positivo per quasi 12 miliardi di euro (su 45,2 miliardi di saldo commerciale totale). Si tratta di numeri importanti, in forte crescita, con impatto su settori strategici come auto, abbigliamento, macchinari, medicinali, vino e mobili: tutti settori la cui produzione è fortemente caratterizzata da soluzioni di automazione di alto livello.
C’è ancora bisogno di altro per fare il tifo contro la Brexit?